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Come è cambiata l’idea di futuro, un percorso che si snoda per 2500 anni

Dal "Prometeo" di Eschilo a "Black Mirror" di Brooker, da "La fine della storia e l’ultimo uomo" di Fukuyama all’Agenda 2030. Una raccolta di saggi proposta da Laterza analizza i diversi modi di guardare al domani. 

di Flavio Natale

Il futuro è sempre stato, da quando l’uomo ha iniziato a immaginarlo, un luogo del tempo a cui affidare paure e speranze individuali e collettive. La raccolta di saggi Il futuro. Storia di un’idea (Editori Laterza, settembre 2021) prova a tracciare – attraverso il contributo di intellettuali e interpreti – l’evoluzione di questo concetto, per sua natura proiettato in avanti, fuggevole, mai verificabile eppure sempre, in qualche modo, vero. I contributi vanno dall’analisi del Prometeo di Eschilo a La città di Dio di Agostino, dai disegni sul volo di Leonardo Da Vinci a L’origine delle specie di Charles Darwin, da Chandigarh di Le Corbusier a La fine dell’eternità di Isaac Asimov, da Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari a Black Mirror di Charlie Brooker, da La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama alle prospettive economiche che ci attendono nel futuro, commentate da Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia, attraverso l’analisi di Possibilità economiche per i nostri nipoti, il celebre saggio di John Maynard Keynes.

Partiamo da una considerazione: leggendo questi saggi uno dopo l’altro si nota che la rappresentazione del futuro, nel corso dei secoli, è mutata radicalmente, come se, all’avvicinarsi (o all’avverarsi) di questa idea, fosse cambiata anche la sua percezione.

Nella Divina Commedia, ad esempio, Dante Alighieri ha un solo modo di vedere il futuro: la profezia. Ce lo ricorda il critico letterario Piero Boitani, nella sua analisi sul tema: “La Commedia è una enorme macchina profetica”. Il viaggio del sommo poeta, infatti, inizia proprio con il compimento dell’annuncio di un profeta – “nel mezzo del cammin di nostra vita” è un’eco di Isaia 38,10, “a metà della vita andrò dalle porte degli inferi”. Uno dei punti di arrivo di questa profezia, come ricorda Boitani, è un futuro marcatamente politico, dove avverrà la “redenzione politica” auspicata da Dante.

Se per il poeta italiano il futuro è un luogo lontano nel tempo, per Thomas More lo è nello spazio: l’isola di More, Utopia (da cui prende nome l’opera), contiene nel nome il suo significato: ou-topos, ovvero “che non è in nessun luogo”. Non si tratta, però, di un Paese che non c’è (come la Never Never Never Land del Peter Pan di James Mattew Barrie), ma di un luogo presentato come reale, anche se sconosciuto alla nostra società. Non “un tempo altro e diverso dal presente”, come sottolinea lo storico Franco Cardini, ma “uno spazio differente da quello che ci è proprio e familiare”. Anche qui, come in Dante, viene immaginata una società differente da quella coeva. Gli utopiani, un po’ come gli abitanti dell’Atlantide di Platone, “sono straordinariamente saggi e civili”, simili al resto del genere umano ma allo stesso tempo distanti da esso. La vita sociale è strettamene regolata, non vengono prodotti articoli di lusso, non esiste l’ozio, le nascite sono controllate, non c’è denaro o adulteri o organizzazioni militari.

Poi, quasi cinquecento anni dopo, arriva Black Mirror, la serie antologica creata da Charlie Brooker, che affronta gli effetti, distorti e distorcenti, delle tecnologie contemporanee, dei mezzi di comunicazione di massa digitali, della lotta per il possesso dei dati.

Questo salto temporale potrebbe sembrare azzardato, ma è utile per tracciare i due estremi di una linea: questa serie tv, infatti, segna la fine di quella rappresentazione del futuro partorita da Platone, More, Dante, o, in seguito (con similitudini e differenze), da George Orwell con il suo 1984. Perché, dopo cinquecento anni di futuri lontani nel tempo, con Black Mirror viene inaugurato il “futuro-presente”. Come ricorda Luca Barra, professore di Televisione e media digitali: “Il futuro come è stato immaginato negli anni Dieci è allo stesso tempo ancora lontano e sempre più prossimo. Si intravede appena all’orizzonte, ma è già in veloce avvicinamento. Si svolge in un altrove alternativo e spesso parallelo al presente. In certi casi è persino già superato dagli eventi, o comunque si prepara a esserlo molto presto”. In poche parole, il mondo di questa serie televisiva è identico al nostro, e si distingue solo per qualche dettaglio, impercettibile ma essenziale. Scrive Giles Harvey sul New Yorker: “Ogni episodio di Black Mirror descrive uno sfondo di normalità sul quale un piccolo, decisivo ritocco finirà per risaltare in modo ancora più netto”. Questo “futuro dietro l’angolo”, centrato sui dettagli, incrementa la carica speculativa della narrazione, perché la rende più prossima e, inevitabilmente, più precisa. Ma come si è arrivati a questo capovolgimento?

Black Mirror è il risultato di una mutazione iniziata almeno un secolo prima, agli albori de Novecento, sottolineata dallo storico Lorenzo Benadusi nel suo saggio sul romanzo Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari. Riprendendo la notizia de La Domenica del Corriere del 6 gennaio 1901, dove “La gente festante accoglie con letizia il treno del XX secolo”, Benadusi afferma: “Proprio la temporalizzazione dell’utopia è uno degli aspetti principali della modernità: non si tratta infatti di immaginare un altrove ideale, ma un tempo più o meno prossimo dove saranno realizzate tutte le potenzialità del presente”. Poi, aggiunge: “Il futuro non è dunque più soggetto alla legge divina o al caso, ma può essere creato e soprattutto prefigurato. Insomma, nel momento in cui la freccia del tempo sembra procedere inarrestabile verso un domani razionalmente deducibile, la profezia lascia il posto alla predizione”. Questo passaggio è essenziale. L’altrove di More viene superato da un futuro più vicino, immaginabile, scadenzabile, e lo è grazie all’arrivo di quei mezzi che, d’ora in poi, saranno per sempre legati all’idea di futuro: le macchine.

“L’accelerazione macchinica”, dal primo Novecento in poi, si inserisce al centro di qualsiasi dibattito sul futuro, e diventa, con il Futurismo, il tratto distintivo di un movimento. Come ricorda la storica Emily Braun nel suo saggio dedicato al Manifesto del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti ha descritto il suo incontro con la macchina come un autentico “incidente”, uno “shock del futuro” che lo ha proiettato in avanti (tema che sarà poi ripreso e sviluppato anche da Crash di J. G. Ballard). “Una volta al volante della sua macchina”, ci spiega Braun, “Marinetti avanza sbandando nell’‘Ignoto’ e presto va a sbattere in un ‘materno’ fossato pieno di fango, perché non riesce ancora a dominare la sua sposa meccanica”. Questa esperienza quasi onirica è ispirata a un incidente accaduto realmente al poeta, e a cui Marinetti legò l’idea di futuro, con i suoi effetti disorientanti e stimolanti, con il suo avanzare per scatti e fratture. Con il suffisso -ismo, poi, l’idea si trasforma in “piano d’azione”, un sistema teorico per concepire il futuro “non come punto d’arrivo, ma come condizione di una creazione che si evolve di continuo”, una forza distruttrice in perenne movimento. Il futuro dei futuristi si muove a una velocità a rotta di collo, e per questo è legato allo strumento più veloce che Marinetti ha a disposizione, il rombo dell’automobile, in grado di frantumare ogni riferimento spaziale e temporale: “Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

Se il futuro del 20esimo nasce tra i pistoni del motore, quello del 21esimo appartiene al computer. Matrix, la trilogia delle sorelle (prima fratelli) Wachowski segna un punto di svolta nella narrazione mainstream di questo dispositivo tecnologico: come sottolinea l’informatico Juan Carlos De Martin nel suo saggio sull’opera, a differenza delle precedenti rappresentazioni di computer (potenti ma fisicamente imponenti, come Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio, Mother di Alien o Skynet di Terminator), quello di Matrix è un computer talmente normalizzato da diventare parte integrante del mondo abitato da Keanu Reeves (di giorno programmatore e di notte hacker). I computer, verso la fine degli anni ’90, hanno infatti acquisito due caratteristiche fondamentali: “La prima è che si sono diffusi ampiamente nella società. Sono macchine ormai diventate familiari, come i frigoriferi o le automobili, anche grazie alla loro crescente portabilità. La seconda è che i computer sono sempre più connessi tra loro grazie a una rete globale denominata Internet”. Il mondo abitato dai personaggi di Matrix, perciò, è il computer. La pellicola è ambientata nel 22esimo secolo: gli esseri umani sono chiusi in bozzoli che permettono di estrarre dai loro corpi calore ed energia bioelettrica, usata da macchine intelligenti per il proprio sostentamento. Tramite una neurosimulazione interattiva – chiamata, per l’appunto “Matrix” – gli umani non percepiscono però questa situazione di sfruttamento, ma abitano una realtà artificiale, localizzata nel 1999, dove sono convinti di vivere in libertà. Il film, dunque, nonostante evidenti tratti gnostici e quasi profetici (aspetto che lo allontana dalla simultaneità di Black Mirror), ha avvicinato i computer a noi, e noi ai computer, rendendo il futuro ancora più presente.

Il futuro è nei dettagli e nella capacità di riconoscerne l’evoluzione, lo svolgimento. Non è un caso che anche l’approccio alla previsione sul piano politico sia cambiato: se è vero, come ricorda il giornalista Donato Speroni nel suo saggio sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile, che “non abbiamo una vera e propria carta nautica del futuro”, possediamo però una “bussola”, costituita dall’Agenda sottoscritta da 193 Paesi dell’Onu, con 17 Sustainable Development Goals (SDGs) da raggiungere entro il 2030. Un insieme di impegni largamente condivisi dalla società civile in tutto il mondo. L’Agenda segnala obiettivi e punti di svolta da raggiungere, disegna l’architettura del prossimo futuro e, in qualche modo, lo favorisce. “È molto difficile, forse impossibile, che tutti gli Obiettivi al 2030 vengano raggiunti, ma è certo che il percorso tracciato dall’Agenda indica la direzione giusta per la salvaguardia dell’umanità e del pianeta”, sottolinea Speroni, che spinge poi lo sguardo oltre il prossimo decennio, alle grandi incognite di metà secolo sul clima, le migrazioni di massa, la possibile carenza di materiali preziosi per i consumi di una popolazione di oltre nove miliardi di persone che si vorrebbe tutta fuori dalla povertà. Col rischio invece che miliardi di persone divengano “inutili” o marginali sul mercato del lavoro a seguito dell’automazione. La tecnologia potrà aiutare a risolvere molti di questi problemi, ma porta con sé anche la minaccia che le macchine esproprino la capacità decisionale dell’uomo e magari l’uomo stesso diventi un cyborg, potenziando il corpo con innesti che contrapporrebbero questi “potenziati” alla umanità “normale”: ipotesi delle quali gli studiosi dei possibili futuri discutono correntemente.

Se cambiano gli obiettivi della politica, però, cambia anche il modo di esercitarla. Maurizio Ferrera, professore di Scienza politica, commentando La politica come professione di Max Weber, sottolinea che questa attività umana, oltre a essere l’“arte del possibile” (come affermava Otto von Bismarck) è anche il regno della responsabilità, aspetto che “consente ai leader di conciliare i vincoli del presente con la libera scelta del futuro”. Da questo punto di vista, un politico deve assumere “tutta la conoscenza fattuale e causale” del presente (quella che Weber chiama “etica della responsabilità”), calibrando le scelte in base ai mezzi di cui dispone e ai prevedibili esiti. Allo stesso tempo, però, “il futuro non può essere dedotto dal presente […], deve essere inventato, facendo riferimento a nuovi valori”. Senza queste “convinzioni”, come le chiama Weber, il politico, privato di una spinta etica, potrebbe essere vittima di un eccesso di realismo. Proprio per fondere questi due aspetti della politica Ferrera si rifà al concetto di “sostenibilità”, una prospettiva nuova attraverso cui confrontarsi con le sfide globali. Ferrara ricorda che questa visione è stata proposta da Enrico Giovannini nel suo volume L’utopia sostenibile (Editori Laterza, 2018); accoglie sia un aspetto più pragmatico (strutturato su azioni singole e conseguenze universali), che uno etico, un nucleo attorno a cui “si situa una molteplicità di valori” (come l’inclusione, la parità tra generi e generazioni, il rispetto dell’ambiente, la giustizia distributiva, la partecipazione democratica, il riconoscimento di identità e differenza, la protezione delle specie di vita terrestri e marine). “Per molti aspetti, il paradigma della sostenibilità raccoglie oggi il testimone delle visione emancipative classiche novecentesche e del razionalismo etico illuminista”, conclude Ferrera. “Non un pensiero unico, ma una nuova meta-cornice che può riportare la politica sui binari della responsabilità e restituirle la funzione di traghetto fra reale e possibile, presente e futuro”.

Il futuro-presente è dunque un tempo prossimo di cui si possono scorgere i particolari, tracciare gli obiettivi, definire le contraddizioni. Come ricorda Boitani, sempre commentando la Divina Commedia: “I dannati possono vedere non il presente, ma proprio il futuro. Essi vedono, ‘come quei che ha mala luce’, le cose lontane, ma quando queste si fanno vicine, allora ‘vano’ diventa il loro ‘intelletto’”. Forse noi dovremmo compiere lo sforzo che manca ai dannati di Dante: mettere a fuoco il presente, che è già il futuro.

di Flavio Natale

martedì 14 dicembre 2021