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Polveri sottili, lo spettro che continua ad aggirarsi per l’Europa

Tra le dieci città europee più inquinate, quattro italiane. Conseguenze: aumento delle morti premature e dei disturbi mentali. Soluzioni: mobilità sostenibile e pianificazione dello spazio pubblico. 

di Flavio Natale

Secondo una ricerca pubblicata a giugno dall’Agenzia europea dell’ambiente, più della metà delle città europee è ancora invasa dalle polveri sottili, nonostante una riduzione delle emissioni del traffico e di altri inquinanti durante le restrizioni alla circolazione del 2020.

Nella classifica, che contiene dati misurati tra il 2019 e il 2020, delle dieci città più inquinate d'Europa, quattro sono italiane, tutte situate nella Pianura Padana. Cremona si è classificata al secondo posto, Vicenza al quarto, mentre Brescia e Pavia rispettivamente al nono e al decimo, a causa di una qualità dell’aria classificata come “molto scarsa”: peggio di Cremona solo Nowy Sącz in Polonia e, al terzo posto, Slavonski Brod in Croazia, due città dove il carbone è ancora una delle principali fonti di energia. Le tre località più pulite sono Umeå in Svezia, Tampere in Finlandia e Funchal in Portogallo, mentre Sassari si è inserita al quattordicesimo posto tra le città europee con l’aria più pulita.

Lo studio dell'Agenzia europea dell'ambiente è stato condotto raccogliendo dati da 323 città tra il 2019 e il 2020, e ha rilevato che solo in 127 di queste, ovvero circa il 40%, i livelli di particolato fine noto come Pm2,5 sono inferiori ai limiti raccomandati dall'Organizzazione mondiale della sanità –10 microgrammi di Pm2,5 per ogni metro cubo d’aria (per intenderci, le città italiane di Cremona, Vicenza, Brescia, Pavia registrano rispettivamente 25,9, 25,6, 24 e 22,9 microgrammi di Pm2,5, mentre Nowy Sącz tocca i 27,3).

L’Agenzia, inoltre, ha sottolineato che il particolato fine è la fonte di inquinamento atmosferico con il maggiore impatto sulla salute; nonostante negli ultimi dieci anni si sia registrato un netto miglioramento della qualità dell’aria in Europa, ha provocato circa 417mila morti premature in 41 Paesi europei durante il 2018. “L’esposizione a lungo termine al Pm2,5 causa malattie cardiovascolari e respiratorie”, si legge sul sito dell’Aea.

Secondo un recente studio pubblicato sul British journal of psychiatry e riportato da The Guardian, l'esposizione all'inquinamento atmosferico è collegata anche a una maggiore diffusione delle malattie mentali. Recenti ricerche avevano già dimostrato che piccoli aumenti dell'inquinamento atmosferico sono collegati a significativi aumenti di depressione e ansia, all'incremento dei suicidi e a una riduzione del livello di intelligenza media. Questo studio, che ha coinvolto 13mila residenti a Londra, ha rilevato che un aumento relativamente lieve dell’esposizione al biossido di azoto (gas associato alle emissioni dei motori diesel), ha provocato un aumento del 32% del rischio di cure in comunità e a un aumento del 18% del rischio di essere ricoverati in ospedale.

Sempre a proposito del biossido di azoto, l’Aea ha registrato un decremento dei livelli di questo inquinante durante i periodi di restrizione alla mobilità; nonostante ciò, i livelli di particolato sono rimasti elevati. Questo fenomeno è dovuto al fatto che le fonti di particolato fine – già presenti in natura sottoforma di sale marino, azione del vento, pollini, eruzioni vulcaniche – sono, per quanto riguarda le origini antropiche dannose, molto più variegate rispetto al semplice traffico stradale: si parla di combustibili per il riscaldamento, inquinamento industriale e anche agricolo (con alti livelli di emissioni di ammoniaca da fertilizzante e letame animale che, combinati con altri inquinanti nell'atmosfera, si condensano nel particolato).

Catherine Ganzleben, a capo del gruppo di ricerca dell'Aea sull'inquinamento atmosferico, l'ambiente e la salute, ha confermato che il lockdown non ha migliorato significativamente la condizione di molte città europee “perché ha avuto un impatto significativo sul biossido di azoto causato dal traffico, ma molto meno sul Pm2,5”. Ma ha anche aggiunto che i cambiamenti nel comportamento stimolati dalla pandemia di Covid-19 potrebbero avere un impatto positivo sul futuro. “Se le persone tornano al pendolarismo quotidiano, o se sceglieranno invece il telelavoro, influirà sui modelli di inquinamento". Inoltre, ha aggiunto che le aree con i più alti livelli di inquinamento da particolato sono dovute “all’utilizzo del riscaldamento a carbone in Polonia e, nel caso della Pianura padana, alla concentrazione del settore industriale, oltre a ragioni geografiche, dato che le Alpi sono una cintura che impedisce la dispersione degli inquinanti”.

Ma l’inquinamento dell’aria ha anche altre forme, diffuse nei Paesi in via di sviluppo. Una tra le più gravi riguarda la cottura di cibi sul fuoco all’interno delle case, praticato ancora, secondo Focus, dal 38% della popolazione mondiale che, bruciando legna per cucinare o riscaldarsi, senza adeguato sistema di smaltimento dei fumi, pregiudica la propria salute e provoca danni all’ambiente. Un'abitudine diffusa soprattutto nell’Africa sub-sahariana e in Asia che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, causa circa quattro milioni di morti all’anno (e colpisce soprattutto le donne, oltre a generare un ingente prelievo di legna, che ha effetti importanti sulla vegetazione e il disboscamento).

“Ci sono altri aspetti estremamente gravi”, ha affermato sul tema Heather Adair-Rohani, technical officer presso l’Oms. “Non dimentichiamo che a causa di questo modo di cucinare e scaldare la principale causa di morte dei bambini al di sotto dei cinque anni sono le malattie polmonari”. La prima e più urgente soluzione, in questo specifico settore, è la diffusione di pratiche di “clean cooking”, sostituendo, ad esempio, il fuoco domestico con una piccola stufa (tra gli obiettivi della Clean cooking alliance).

“Il clean cooking è uno degli aspetti di un problema più ampio che è quello della mancanza di accesso all’energia moderna nel mondo. Vivere senza elettricità o con un servizio non affidabile o eccessivamente costoso incide sui servizi sanitari, sull’istruzione, sul benessere delle comunità”, ha aggiunto Pippo Ranci, presidente di Wame e membro del Segretariato ASviS. “Far conoscere queste realtà e indicare le soluzioni parzialmente già in corso di adozione e quindi espandibili e moltiplicabili è l’obiettivo di Wame, associazione nata in occasione dell’Expo di Milano”.

Quali sono le proiezioni per l’inquinamento atmosferico futuro?

Secondo uno studio pubblicato qualche anno fa su Nature, la somma dei diversi tipi di polveri, se non ridotte, potrebbe portare le morti causate dall’inquinamento atmosferico a raddoppiare entro il 2050, arrivando a circa sette milioni l’anno.

Per reagire a queste fosche previsioni, le regole in Europa e in Italia, anche se a rilento, stanno cambiando, sia a livello di monitoraggio che di azione. Per esempio, la Corte di Giustizia della Ue ha condannato l’Italia per aver violato, tra il 2008 e il 2017, i limiti di qualità dell’aria “in maniera sistematica e continuata”. Al nostro Paese viene inoltre contestato il fatto di non aver adottato sufficienti misure per combattere l’inquinamento, come dimostrato dal sopracitato rapporto Aea.

Il 12 maggio 2020 la Commissione ha adottato il piano per “azzerare l’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo” entro il 2050, ponendo questo tra i principali obiettivi del Green Deal. Il piano dell’Ue consiste in una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2030: ridurre del 55% il numero di morti premature dovute dall’inquinamento, diminuire i rifiuti di plastica in mare del 50% e delle microplastiche del 30%, ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici nel suolo. Inoltre, ridurre l’inquinamento vorrebbe anche dire smorzare l’alto costo sociosanitario annesso: sempre secondo i dati Aea, le cure connesse all’inquinamento atmosferico costano tra i 330 e i 940 miliardi l’anno (in Italia, Legambiente stima tra i 47 e i 142 miliardi all’anno, tra spese sanitarie e giornate di lavoro perse), cifre che si impennano quando si pensa che l’inquinamento da particolato ha costituito anche un significativo boost per la diffusione del Covid-19. “La riduzione del 55% al 2030 della mortalità è un obiettivo molto lontano. In Italia lascerà esposte ancora per troppi anni larghe fette della popolazione”, ha commentato al Corriere della Sera Anna Gerometta, presidente della onlus Cittadini per l’aria.

Nel rapporto Mal’aria 2021, Legambiente afferma che bisogna affrontare il problema “in modo strutturale e con una pianificazione adeguata e incrociando due temi cruciali: quello della mobilità sostenibile e dell’uso dello spazio pubblico e della strada, prevedendo interventi ad hoc che, se integrati insieme ad altre misure riguardanti il settore del riscaldamento e dell’agricoltura, potranno portare benefici immediati e duraturi”.  

Nello specifico, sempre secondo Legambiente, occorre “agire sul potenziamento del trasporto pubblico locale e della mobilità condivisa, elettrica ed efficiente per garantire il diritto di muoversi senza inquinare”, incrementare lo stop progressivo alla circolazione delle auto nei centri delle città, “senza deroghe né scappatoie”, così come lo stop agli incentivi per la sostituzione dei mezzi più vecchi e inquinanti a favore di mezzi più nuovi ma ugualmente inquinanti. “Perché stiamo parlando di incentivi che rischiano di far spendere molti soldi ai cittadini inutilmente, per comprare auto già obsolete o presto fuori legge”.

Occorre inoltre, sempre secondo l’associazione, ripensare lo spazio pubblico con corsie preferenziali per il trasporto pubblico locale, rimodellare i centri urbani secondo la vision zero (progetto di sicurezza stradale nato in Svezia nel 1997 con lo scopo di eliminare i morti e i feriti a causa di incidenti stradali), estendere le aree pedonali, i percorsi ciclopedonali e le zone 30 (aree della rete stradale urbana dove il limite di velocità è di 30 chilometri orari invece dei consueti 50, per permettere una migliore convivenza tra auto, biciclette e pedoni). Sul fronte del riscaldamento domestico, per Legambiente servono “abitazioni ad emissioni zero”, possibili solo grazie alla diffusione capillare diffusione del “Bonus 110%”, in modo da favorire il progressivo abbandono delle caldaie a gasolio e carbone da subito, e a metano nei prossimi anni. Infine, “serve anche un cambiamento della filiera agro-zootecnica, rafforzando ed estendendo temporalmente le misure invernali di limitazione o divieto di spandimento di liquami e digestati, istituendo l’obbligo di copertura delle relative vasche di stoccaggio, sostenendo, investimenti aziendali volti ad attuare operazioni di trattamento, sia delle emissioni di stalla sia dei liquami e letami”.

Dello stesso tenore il rapporto MobilitAria 2021, prodotto dal Kyoto Club e dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia), che ha analizzato i dati della mobilità e della qualità dell’aria al 2020 nelle 14 città metropolitane e nelle 22 città medie italiane che hanno approvato il Piano urbano di mobilità sostenibile (Pums).

“L’esplosione della pandemia da Covid-19, all’inizio dello scorso anno, aveva inizialmente ridotto il traffico delle città e di conseguenza anche l’inquinamento. Ma nella seconda metà dell’anno le emissioni legate al settore della mobilità sono tornate ad aumentare, con il rischio di un ritorno al business as usual pre-Covid”.

Il rapporto sottolinea inoltre che i centri grandi e medi si sono riorganizzati per essere sempre più green puntando su reti ciclabili, micromobilità e sul trasporto pubblico. Tuttavia, la crisi che sta vivendo il trasporto pubblico rende il target del 55% del taglio delle emissioni climalteranti al 2030 ancora irraggiungibile.

Un lungo capitolo del rapporto è dedicato alla mobilità elettrica, misura da potenziare per migliorare la qualità dell’aria e la circolazione, in particolare all’interno del nucleo urbano centrale. Nonostante questo genere di mobilità venga citato molto spesso, infatti, il documento registra una “mancanza di concretezza delle azioni e obiettivi attuabili per poter implementare operativamente questo sistema nel territorio comunale di riferimento”. 

Le città e la mobilita urbana continuano ad essere i grandi assenti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), anche in quello presentato dal governo Draghi. Davvero insufficienti le risorse dedicate alle nuove reti tramviarie, metropolitane (3,6 miliardi) e per nuovi autobus (tre miliardi), limitate le risorse per la mobilità ciclabile (600 milioni), che non colmeranno il grave deficit attuale”, ha affermato Anna Donati, coordinatrice del gruppo di lavoro “Mobilità sostenibile” di Kyoto Club. A questo proposito, Kyoto Club e Transport & Environment hanno avanzato alcune proposte per orientare le scelte pubbliche del Pnrr italiano, individuando tre ambiti prioritari e una spesa complessiva di 41,15 miliardi di euro, da ripartire tra mobilità urbana e regionale (29,7 miliardi), elettrificazione (7,95 miliardi) e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali (3,5 miliardi).

Richieste che hanno trovato seguito nel lavoro del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims), con l’impiego di seicento milioni di euro nelle regioni e le province autonome per l’acquisto di nuovi autobus ecologici e 260 milioni per il potenziamento e rinnovamento delle ferrovie gestite dalle regioni. “Per la prima volta non si finanziano più autobus diesel”, ha sottolineato il ministro Enrico Giovannini, esprimendo soddisfazione per il provvedimento che fa del Mims il primo ministero a realizzare gli interventi previsti dal Piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr. “Con questo decreto”, ha aggiunto “intendiamo dare due segnali importanti: il primo è che abbiamo la capacità di realizzare tempestivamente i progetti; il secondo è che le risorse sono destinate a interventi che vanno nella direzione della sostenibilità, per rendere le città più vivibili, meno inquinate, in grado di offrire servizi migliori ai cittadini. Il trasporto pubblico locale è un elemento importante che influisce sulla qualità della vita delle persone, lavoratori, studenti, famiglie”.

Le città, dunque, si dimostrano ancora una volta il nervo scoperto della lotta all’inquinamento atmosferico; ma, allo stesso tempo, costituiscono le aree dove, in un futuro che è già presente, si può agire con la maggiore efficacia e probabilità di successo, per lasciare che l’aria che respiriamo torni nuovamente pulita.

di Flavio Natale

martedì 31 agosto 2021