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Perché dobbiamo temere nuove pandemie anche peggiori di questa

Oggi abbiamo migliori diagnosi e terapie, vaccini più veloci, ma il rischio che una pandemia si ripeta non è mai stato così alto. Distruzione degli ecosistemi, globalizzazione e inquinamento aumentano il pericolo e impongono scelte preventive.

di Andrea De Tommasi

 

"Il virus di Hueste aveva così ricevuto un nome ma non una spiegazione. Giorno dopo giorno il bilancio delle vittime continuava a salire a velocità terrificante: prima migliaia, poi decine di migliaia e infine milioni di morti. Il resto del mondo all’inizio aveva accolto la notizia con scetticismo. Era impossibile sapere con certezza cosa succedeva davvero in Cina”. Nel romanzo “Il grande contagio”, pubblicato nel 1962, lo scrittore inglese Charles Eric Main raccontava di un inarrestabile virus che dall’Estremo Oriente si propagava fino in Europa, costringendo a chiudere le frontiere. L’opera, che diventerà uno dei grandi classici della fantascienza, anticipa in un certo senso molte delle questioni che la nuova pandemia di Covid-19 ha riversato con forza sull’intero Pianeta. Covid-19 è almeno la sesta pandemia sanitaria globale dalla Grande influenza del 1918. Oggi disponiamo di metodi più efficaci per la diagnosi delle malattie infettive, nuovi farmaci e vaccini sono in fase di sviluppo. Gli esperti però avvertono che non è mai stato così alto il rischio di una prossima pandemia, che potrebbe arrivare in qualsiasi momento.

 

Le zoonosi

Esistono oggi in natura oltre un milione e mezzo di virus e la metà di questi potrebbe avere la capacità di infettare le persone. Le malattie stanno emergendo più frequentemente dagli animali. Anche il SARS-CoV-2, all’origine del nuovo Coronavirus, molto probabilmente ha avuto origine dai pipistrelli, ma rimane un mistero se sia passato direttamente da questi all’uomo o attraverso un ospite intermedio. In tutti i casi, il Covid-19 è solo l’ultima di un numero crescente di malattie, tra cui Ebola, Mers, Febbre del Nilo occidentale, la cui diffusione è conseguenza di un salto di specie, “spillover”, dagli animali agli esseri umani. Gli scienziati avvertono che le malattie di origine zoonotica sono la causa più probabile di una futura pandemia.

 

Delia Randolph, virologa ed esperta mondiale di diffusione delle malattie animali, ha detto al Deutsche Welle che ‘la domanda non è “se”, ma è “quando” ci sarà la prossima pandemia’. Randolph è l’autrice principale del rapporto “Preventing the next pandemic” pubblicato in luglio dall’Unep e dall’International livestock research institute, che ha esaminato l’accelerazione del rischio rappresentato dalle zoonosi. Gli scienziati hanno rilevato che circa il 75% delle malattie infettive umane emergenti si verifica per un salto di specie e la maggior parte di queste si propaga attraverso il sistema alimentare. “Pandemie come il Covid-19 sono il risultato prevedibile del modo in cui le persone si procurano e coltivano cibo, commerciano e consumano animali, alterano gli ambienti”, si legge nel Rapporto. Tra i fattori alla base dell’emergere delle malattie zoonotiche, ci sarebbero infatti l’aumento della domanda umana di proteine, l’intensificarsi dell’attività agricola, l’utilizzo insostenibile delle risorse naturali accelerato dall’urbanizzazione, dal cambiamento dell’uso del suolo e dalle industrie estrattive, l’aumento dei viaggi e dei trasporti, i cambiamenti nella catena alimentare e il cambiamento climatico.

 

David Quammen è stato tra i primi a scrivere di una prossima grande pandemia, un Next Big One, che avrebbe avuto una probabile origine antropica. In “Spillover”, uscito nel 2012, il divulgatore scientifico americano sosteneva che “non c’è alcun motivo di credere che l’Aids rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale”. Quammen ha seguito gli scienziati al lavoro nelle foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle metropoli cinesi. A molti le sue parole sono sembrate incredibilmente evocative quando il Covid-19 ha investito il Pianeta. Nel 2018 anche l’Organizzazione mondiale della sanità aveva inserito tra le patologie infettive potenzialmente pandemiche una misteriosa “Malattia X” (in inglese: “Desease X”) in grado di diffondersi molto velocemente: “Con questo termine”, scrivevano gli esperti della commissione che ha elaborato la lista, “vogliamo rappresentare che una seria epidemia internazionale può essere causata da un patogeno di cui al momento non conosciamo la capacità di causare malattie nell'uomo”.

 

L’inquinamento

Le ricerche che confermano solide relazioni tra inquinamento e pandemie sono numerose. Studi su epidemie passate hanno messo in evidenza come le condizioni meteorologiche siano un co-fattore in grado di potenziare o contenere la trasmissione della trasmissione dei virus. Anche nel caso del Coronavirus, sono emerse evidenze del fatto che lo smog e una più alta concentrazione di polveri sottili possano aver accresciuto il rischio di contagio. Una ricerca curata da una dozzina di ricercatori italiani e medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima), pubblicata in settembre sulla rivista British Medical Journal ha mostrato che, nella Pianura padana, il Pm10 avrebbe esercitato un'azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell'epidemia. In occasione dell’ultima Giornata mondiale dell’ambiente David Boyd, relatore speciale dell’Onu, ha detto senza mezzi termini che “le persone che vivono in aree fortemente inquinate sono esposte a maggiori rischi di morte per pandemie come il Covid-19”. I Paesi dovrebbero impegnarsi di più verso la neutralità climatica anche per contenere future epidemie. Gli ultimi dati ci dicono però che il rallentamento industriale dovuto alla pandemia di Covid-19 non ha frenato i livelli record di gas serra: i sperimentato una concentrazione comparabile di CO2 è stata 3-5 milioni di anni fa, quando la temperatura era di 2-3 ° C più calda e il livello del mare era di 10-20 metri più alto di adesso. Ma non c'erano 7,7 miliardi di abitanti”, ha detto il segretario generale dell'Omm, Petteri Taalas.

 

C’è un legame diretto tra pandemia, inquinamento che causa i cambiamenti climatici e impoverimento della biodiversità sul pianeta. Il Wwf ha documentato le conseguenze del cambiamento climatico sulle nuove e vecchie patologie virali. Le conseguenze dell'azione umana sul Pianeta e sugli ecosistemi sono l'aumento dei siti di riproduzione dei vettori delle malattie, la perdita di specie predatrici e la diffusione amplificata degli ospiti serbatoio, i trasferimenti di patogeni tra specie diverse, i cambiamenti genetici indotti dall'uomo di vettori di malattie o agenti patogeni (come la resistenza delle zanzare ai pesticidi) e la contaminazione ambientale con agenti di malattie infettive.

 

Diversi studi ci avvertono che la migliore possibilità è fermare alla fonte le minacce. L’Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services (Ipbes), massima autorità scientifica su natura e biodiversità, ha pubblicato a fine ottobre un rapporto elaborato da esperti mondiali di biodiversità, che spiega le cause del Covid-19 e propone soluzioni per uscire dall’“era delle pandemie”. Il Rapporto rileva che l’aumento delle malattie emergenti è legato al “recente aumento esponenziale dei consumi e del commercio, guidato dalla domanda nei Paesi sviluppati e nelle economie emergenti, nonché dalla pressione della popolazione in aumento”. Secondo gli esperti, il rischio di pandemie può essere notevolmente ridotto contenendo le attività umane che causano la perdita di biodiversità, aumentando il livello di conservazione della natura, allargando l’estensione delle aree protette esistenti, creandone delle nuove, riducendo lo sfruttamento insostenibile delle regioni del pianeta ad alto grado di biodiversità. Come ha spiegato Peter Dasdak, presidente del seminario Ipbes, serve un cambiamento sistemico nell’approccio alle malattie infettive: “Il nostro approccio è stagnante, facciamo ancora affidamento sui tentativi di contenere e controllare le malattie dopo che sono emerse, attraverso vaccini e terapie. Possiamo sfuggire all’era delle pandemie, ma ciò richiede una maggiore attenzione alla prevenzione oltre che alla reazione”. Gli impatti economici per contenere il Coronavirus, secondo i calcoli dell’Ipbes, sono pari a 100 volte il costo stimato della prevenzione.

 

La globalizzazione

Il Coronavirus ha dimostrato quanto velocemente un virus oggi possa diffondersi. Partito da Wuan, nella Cina centrale, ha facilmente attraversato i confini e ha fatto il giro del mondo in poche settimane. “Gli agenti patogeni sono sempre stati lì”, ha detto a Deutsche Welle Fabian Leendertz, ricercatore presso il Robert Koch Institut di Berlino. “Ciò che è cambiato e ciò che penso sia davvero preoccupante è la grande connettività del mondo globalizzato in cui viviamo oggi. Il rischio che un piccolo agente patogeno esotico raggiunga una città da dove può facilmente diffondersi in tutto il mondo è ora molto maggiore di quanto non sia mai stato prima”. L’attuale crisi ha mostrato che i virus viaggeranno più velocemente al pari di persone, merci e denaro. A differenza delle precedenti malattie infettive, gli epicentri del SARS-CoV-2 sono state le metropoli più ricche dei Paesi industrializzati, gli ambienti ad alta interazione, i distretti industriali (come le province lombarde nel Nord Italia), ha spiegato l’articolo “Globalisation and the Covid-19 pandemic: a spatial economics perspective” (Vox Eu, 16 agosto). D’altra parte la rapida diffusione del virus ha sollevato la questione di quanta mobilità debba avere un mondo globalizzato. C’è chi fa notare che il libero scambio non debba essere limitato ma, senza politiche intelligenti, l’umanità rischia di pagare un prezzo troppo alto alle future pandemie. Una proposta è quella di introdurre restrizioni specifiche per i Paesi che non rispettano le condizioni igieniche standard sul trattamento degli animali selvatici.

 

Per contenere la prossima pandemia, sarà necessario investire sulla prevenzione e la preparazione dei sistemi sanitari, assicurare vaccini efficaci a tutti (anche ai Paesi più poveri), fornire una risposta globale fondata sulla cooperazione internazionale. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha proposto agli Stati membri di istituire un trattato internazionale da negoziare con tutte le organizzazioni e agenzie delle Nazioni unite, in particolare con l’Oms, che rimarrebbe la pietra angolare del coordinamento globale contro le emergenze sanitarie. Il Covid-19 non ha solo puntato i riflettori sulla fragilità dei sistemi sanitari, ma ha messo in luce anche l’assenza di una governance globale. Questa non sarà l’ultima pandemia, né l’ultima emergenza sanitaria mondiale.

 

di Andrea De Tommasi

lunedì 30 novembre 2020