Piaccia o no, la carne sintetica avrà un grande spazio nell’alimentazione futura
La bocciatura del ministro Lollobrigida ha acceso la discussione sulle carni coltivate. Ma gli investimenti in questo settore sono ingenti, con il supporto di molti Stati. E l’impatto per gli allevatori sarà pesante.
di Flavio Natale
“Quello che davvero ci allarma sono degenerazioni di cui nessuno parla, come la produzione di carne in laboratorio. Trovarsi nel piatto un prodotto così fa schifo. Noi di FdI (Fratelli d’Italia, ndr) avevamo firmato una petizione promossa da Coldiretti per contrastare questa aberrazione”. Così Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, in un’intervista rilasciata qualche settimana fa al Corriere della sera, ha dichiarato il suo posizionamento rispetto alla “carne sintetica”, “carne coltivata” o “carne da laboratorio”. Proseguendo, Lollobrigida ha precisato che questa scelta rappresenta uno strumento per difendere la qualità della filiera nazionale: “Non siamo certo per gli allevamenti massivi con migliaia di ettari di stalle in fila che sfruttano e stressano gli animali. Ma vogliamo tutelare i piccoli allevatori e un’economia di qualità che difenda anche il territorio. Parliamo di dissesto idrogeologico senza considerare che è causato dall’abbandono dei coltivatori agricoli che prima pulivano gli argini e il letto dei fiumi. Per evitare la desertificazione di quei territori dobbiamo incentivare i piccoli imprenditori”.
La posizione di Lollobrigida è la punta dell’iceberg di una discussione che, nel settore, va avanti da qualche anno – e che secondo alcuni costituirà uno degli spartiacque tra destra e sinistra nel 21esimo secolo, con la prima arroccata in sogni rurali (proseguire con gli allevamenti, magari meno intensivi, per preservare il naturale ordine del sistema alimentare), e la seconda lanciata verso un tecnopositivismo senza freni (dove tutto ciò che è prodotto in laboratorio è da incoraggiare, trattandosi dell’unica via per fronteggiare le disastrose conseguenze del cambiamento climatico).
Già Coldiretti, associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana citata dallo stesso Lollobrigida, aveva lanciato un attacco aperto alla “carne sintetica” circa un anno fa, definendola “carne Frankenstein” (attacco a cui ha recentemente risposto, punto per punto, Il fatto alimentare). Questa offensiva si inseriva sulla scia di un’altra campagna, lanciata nel 2020 da Copa Cogeca, unione delle associazioni europee degli agricoltori, dal titolo Ceci n’est pas un steak, il cui obiettivo era, come si può facilmente dedurre, denigrare la possibilità delle carni non macellate (sintetiche o di origine vegetale) di assumere denominazioni simili a quelle “normali”.
Ma, prima di proseguire: come funziona effettivamente il processo di coltivazione della carne?
Come ha illustrato Milena Gabanelli nel suo Data room sul tema, la carne artificiale o “carne coltivata” si ottiene prelevando cellule staminali da un animale. La tecnica è già ampiamente diffusa in medicina rigenerativa, dove si attingono cellule da un muscolo vivente per coltivarle in un bioreattore (apparecchiatura in grado di fornire un ambiente adeguato alla crescita di organismi biologici) che riproduce temperatura, acidità, ph di un normale corpo animale. Queste cellule vengono poi alimentate tramite una miscela di nutrienti che permettere loro di moltiplicarsi. “Il sistema portato su scala industriale sarà in grado di produrre da una sola cellula 10mila chili di carne”, ha aggiunto Gabanelli, un numero che potrebbe influire positivamente sul sostentamento di una popolazione globale in crescita, e che arriverà a una probabile stabilizzazione solo nella seconda metà del secolo; inoltre, abbatterà drasticamente i tempi di produzione di un hamburger – che nel caso della coltivazione cellulare impiega poche settimane, mentre in quella naturale un anno e mezzo. Per questi e altri motivi, la carne artificiale può essere considerata “il business del 21esimo secolo”.
La carne coltivata costituirebbe inoltre la risposta più efficace e immediata alla sempre maggiore richiesta di cibo proteico nel mondo e costituirebbe un importante strumento per abbattere le emissioni di gas serra. Secondo il Wwf, gli allevamenti sono a oggi responsabili del 14,5% delle emissioni di gas serra, e quelli intensivi costituiscono la causa principale delle pratiche di deforestazione diffuse nel mondo. Per un chilo di carne bovina, inoltre, servono in media 11.500 litri d’acqua, mentre per la stessa quantità di carne coltivata si parla di cifre che si aggirano tra i 367 e i 521 litri. A queste motivazioni si aggiungono quelle sanitarie: “l’allevamento intensivo è fonte di epidemie (mucca pazza, influenza suina, aviaria etc.)”, ha ricordato Gabanelli, “e l’uso massiccio di antibiotici a scopo preventivo contribuisce a provocare l’antibiotico-resistenza negli esseri umani”. Per non parlare delle motivazioni etiche, dal momento che ogni anno vengono allevati 60 miliardi di animali, spesso in condizioni di tortura, per ottenere la massima produttività (a questo proposito, in California è in vigore dal 2018 la “Proposition 12”, una norma che prevede negli allevamenti uno spazio minimo di 2,2 metri quadri per animale, legge in attesa di essere estesa a tutti gli Stati Uniti, dopo la decisione della Corte Suprema).
C’è da aggiungere che dai tempi del primo hamburger prodotto in laboratorio (anno 2013, costo per ottenere 142 grammi di carne pari a una cifra tra i 250 e 290mila euro) in dieci anni i costi sono crollati: secondo Forbes, la produzione di un hamburger artificiale ha raggiunto il prezzo di 9,80 dollari, “perché la scala della produzione è migliorata notevolmente”, ma il prodotto “resta ancora più caro di un hamburger in un negozio di alimentari o al ristorante”.
I margini di miglioramento, però, sono enormi, al punto da attirare gli interessi dei tycoon del mondo tecnologico, come Bill Gates, Richard Branson, Sergey Brin, Peter Thiel e Li Ka Shing, oppure di personaggi dello spettacolo come Leonardo DiCaprio, o di giganti del settore alimentare come Jbs, Tyson Foods, Kellogg’s e Cargill. Ad esempio Jbs, la più grande azienda di lavorazione di carne al mondo, è diventata a maggio di quest’anno socia di maggioranza della startup spagnola BioTech Foods, oltre ad aver annunciato di voler costruire uno stabilimento per la ricerca e produzione di carne in provetta in Brasile. Future meat technologies, azienda biotecnologica israeliana tra le più all’avanguardia nel settore, ha raccolto a dicembre 2021 finanziamenti per 347 milioni di dollari da Adm Ventures e Tyson Foods.
A livello geografico, i principali investimenti, 107 società in 25 Paesi del mondo, si stanno concentrando in Nord America (701 milioni di dollari), Medio Oriente (475 milioni di dollari) ed Europa (121 milioni di dollari). Secondo i dati del Good food institute, il vecchio continente ospita 29 aziende, una di queste in Italia, la startup trentina Bruno Cell. Gli investimenti nel settore hanno raggiunto 1,38 miliardi nel 2021: circa il 71% in più rispetto all’anno precedente (410 milioni di dollari).
Ma anche i governi, oltre ai privati, fanno parte della corsa. Gli Stati Uniti hanno promosso un concorso da dieci milioni di dollari per la creazione di un centro di eccellenza in agricoltura cellulare, mentre la Spagna ha garantito un finanziamento da 5,2 milioni di euro all’azienda BioTech Foods. Il Regno Unito ha finanziato l’impresa scozzese Roslin Technologies per un totale di un milione di sterline, mentre l’Ue ha assegnato un finanziamento di due milioni di euro alle aziende olandesi Mosa Meat e Nutreco, oltre ad aver invitato le imprese comunitarie a presentare progetti di ricerca sulle proteine alternative: in palio ci sono 32 milioni di euro di finanziamenti, garantiti da Horizon Europe, il principale polo di ricerca e innovazione dell’Unione. L’investimento più cospicuo, però, resta quello di Singapore che, oltre ad aver stanziato 426 milioni di euro per la carne coltivata, è anche l’unico Paese, a oggi, ad aver dato il via libera alla vendita di carne coltivata. Dal 2021, la startup Good Meat vende crocchette di carne coltivata nel lussuoso ristorante “1880” di Singapore: costo? 23 euro a piatto. Anche in Israele (che ha annunciato nel 2021 un finanziamento di 69 milioni per quattro consorzi innovativi, uno dedicato alla carne coltivata) si può consumare pollo sintetico nel ristorante “The Chicken”, ma solo previa firma di una liberatoria. È di pochi giorni fa la notizia che La Food and drug administration statunitense ha deliberato a favore della diffusione e consumo su scala nazionale del primo pollo a base di carne coltivato in laboratorio, prodotto dalla startup californiana Upside Foods. La decisione storica, per diventare effettiva, dovrà però passare per l’approvazione del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Europa, invece, il processo per la diffusione è più complesso: trattandosi di un “novel food”, la carne sintetica dovrà prima ottenere l’approvazione dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) e poi quello della Commissione.
L’altra faccia della medagli riguarda però chi nel settore dell’allevamento intensivo ci lavora già da anni. Secondo Felice Adinolfi, direttore del Centro studi Divulga: “Gli allevamenti sono vitalità economica di interi territori, garantiscono la biodiversità, mantengono in equilibrio il consumo di suolo, evitando l’inselvatichimento di intere aree”. Oltre a questo equilibrio naturale, ce n’è uno economico: solo in Europa l’intera filiera della carne (dai veterinari alla grande distribuzione) garantisce occupazione a sette milioni di persone, e solo in Italia nel settore zootecnico lavorano 270mila imprenditori agricoli con allevamenti e 250mila dipendenti. Inoltre, per quanto riguarda l’abbattimento degli impatti ambientali, se da un lato è vero che la riduzione degli allevamenti intensivi ridurrebbe drasticamente le emissioni di CO2, dall’altro la quantità di energia per produrre carne coltivata è a oggi maggiore rispetto a quella necessaria per la carne naturale (problema che potrebbe essere ammortizzato con un cospicuo uso di fonti rinnovabili).
Il futuro della carne coltivata, comunque, sembra roseo. Secondo McKinesy, la carne artificiale potrebbe generare un mercato da 25 miliardi di dollari entro il 2030, mentre per i ricercatori di At Kearney entro il 2040 il 35% di tutta la carne consumata proverrà da cellule staminali, e la parte restante del mercato sarà spartita tra sostituti a base vegetale (25%) e carne da macello (40%). Spostandoci avanti di altri dieci anni, secondo uno studio di Hdi, nel 2050 la carne coltivata costituirà uno dei quattro cibi innovativi più consumati a livello globale, insieme alla carne vegetale, le alghe e gli insetti.
La nostra tavola del futuro sarà dunque composta da un mix di carni sintetiche, vegetali e da macello. Ora resta solo da capire cosa cucinare come contorno.