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“La ricerca biomedica impedirà il collasso del sistema sanitario”

Intervista a Marco Simoni, presidente di Human Technopole, il grande centro di scienze della vita che sta nascendo alle porte di Milano. “Attraverso il sequenziamento del Dna avremo cure preventive personalizzate”.

a cura di Donato Speroni

“Palazzo Italia” era il cuore dell’Expo 2015: ospitava l’esposizione predisposta dal Paese ospitante, gli uffici, un auditorium e un ristorante. Ora, ristrutturato, è il cuore di Human Technopole, il grande centro di ricerca biomedica che, assieme ad altre iniziative, deve rianimare la grande area alle porte di Milano. La Fondazione Human Technopole è stata istituita con la legge 232 del 2016 avendo come membri fondatori il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero della Salute e il Ministero della Ricerca. Il Presidente è Marco Simoni, economista e docente alla Luiss di Roma, con passate esperienze come consigliere per le relazioni economiche internazionali e la politica industriale dei presidenti del Consiglio Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. FUTURAnetwork lo ha intervistato sulle prospettive di questa iniziativa.

Human Technopole è un progetto relativamente nuovo. A che punto è la sua realizzazione?

La Fondazione è nata a metà 2018 e Human Technopole è diventato operativo a inizio 2019, con l’arrivo del direttore Iain Mattaj selezionato a seguito di una valutazione da parte di una commissione internazionale e indipendente presieduta dal premio Nobel per la chimica Martin Chalfie.

La decisione di trasformare l’area che ospitò Expo Milano 2015 in un distretto dedicato a scienza, ricerca e innovazione nasce dalla volontà del Governo italiano di rivitalizzare uno spazio grande quanto il quartiere Eur di Roma. Human Technopole è una fondazione di diritto privato finanziata tramite fondi pubblici. Ha uno statuto simile a quello di grandi istituzioni scientifiche internazionali che prevede un Consiglio di sorveglianza che vigili sull’andamento dell’istituto, con responsabilità sul bilancio e sulla nomina dei vertici e un Comitato di gestione che garantiscono il raggiungimento degli obiettivi prefissi.

Lo scopo è quello di creare non soltanto un centro di ricerca, ma un’infrastruttura scientifica che possa portare valore aggiunto all’ecosistema della ricerca italiana. Un luogo aperto alla comunità scientifica esterna, dotato di tecnologie e strumenti all’avanguardia finora inesistenti nel panorama italiano.

La scelta di andare su questi settori fu fatta fin dall’inizio?

Nelle prime fasi del progetto, il Governo italiano incaricò l’Istituto italiano di tecnologia (Iit) che, grazie alla collaborazione e al coinvolgimento di altri enti di ricerca e università italiane, elaborò il primo masterplan. La scelta delle scienze della vita fu dettata da due fattori. Innanzitutto, perché in questo settore ci si aspetta il maggior numero di breakthrough. Gli studi genomici degli ultimi vent’anni hanno fatto enormi progressi e sono molto vicini alla trasposizione pratica. Siamo sulle spalle dei giganti: i tanti studi del passato possono ora portare a dei risultati a beneficio di tutti.

L’altra ragione è che in Lombardia e a Milano il settore delle scienze della vita è molto avanzato. Per riuscire a fare un’istituzione nuova in un settore così specializzato ed evitare di costruire una cattedrale nel deserto devi farla dove ci sono fedeli, ovvero dove esiste già una forte densità di ricerca, per evitare di disperdere troppe energie nella selezione delle giuste competenze.

Lei ha gestito questa struttura dalla sua nascita?

Tre anni fa sono arrivato in agosto, con un caldo bestiale, in uno spazio di circa 300 metri quadri che era un mezzo piano di Palazzo Italia, il padiglione italiano dell’Expo. Oggi, dopo tre anni di lavoro, siamo più di 100 persone. Abbiamo ristrutturato Palazzo Italia e attorno abbiamo costruito laboratori per ospitare circa 400 scienziati. A Palazzo Italia hanno sede gli uffici amministrativi e i laboratori per gli scienziati computazionali, cioè quelli che lavorano con l’intelligenza artificiale e i big data, che sono due dei cinque dipartimenti di Human Technopole. Negli altri edifici trovano posto i dipartimenti di genomica funzionale, di genomica medica e delle popolazioni, di neurogenomica e di biologia strutturale, che usano strumentazioni che in Italia ancora non esistevano. Per esempio, un crio-microscopio elettronico che ha una risoluzione semi-atomica. In tutto il mondo ce ne saranno una cinquantina. Si tratta di tecnologie di grande scala, aperte all’uso di ricercatori esterni, che consentono ricerche che prima non era possibile portare avanti.

Quindi voi occupate una vasta parte dell’area dell’Expo?

L’area è molto grande e include diversi partner. Davanti a noi, in questo momento, c’è un enorme cantiere perché è in costruzione il nuovo campus dell’Università Statale di Milano. Lungo il Decumano, il vialone principale dell’area Mind, è già quasi finito l’enorme nuovo ospedale Galeazzi. Tra noi e l’ospedale si sta costituendo un’area nella quale entro la fine dell’anno si trasferiranno una trentina di aziende con i loro dipartimenti di ricerca. Il costo dell’investimento in Human Technopole è di circa 120 milioni all’anno, che adesso stiamo spendendo per costruire queste infrastrutture e che poi serviranno anche per le manutenzioni e il pagamento degli stipendi. Ma la quantità di risorse private già investite nel progetto è superiore ai tre miliardi, quindi nell’ottica del rinnovamento dell’area il meccanismo ha funzionato.

Quali sono le vostre prospettive di sviluppo?

Non so quando sia stata l’ultima volta che in Italia si sia costruito da zero un centro di ricerca di questa portata. Forse 15 anni fa. Al momento ci stiamo concentrando sull’assunzione del personale scientifico. I nostri ricercatori son assunti uno per volta, con regole e standard internazionali e criteri di selezione basati sul merito e sull’eccellenza scientifica. In tanti casi si tratta di italiani che rientrano per la prima volta a lavorare nel proprio Paese, ma stiamo riscontrando l’interesse anche di tanti ricercatori stranieri. La potremmo definire la più grande operazione di attrazione di cervelli che l’Italia abbia mai fatto. Ad oggi abbiamo raggiunto i cento dipendenti e continuiamo a crescere, ogni settimana diamo il benvenuto a nuovi colleghi che arrivano da ogni parte del mondo. Entro fine anno contiamo di raggiungere il 250 dipendenti. A regime avremo circa 1.000 ricercatori. Per questo, infatti, l’altra priorità è la costruzione di infrastrutture adatte ad ospitare la loro attività di ricerca che ha bisogno di spazi particolari, in grado di ospitare attrezzature altamente tecnologiche che richiedono particolari misure di sicurezza. Nei prossimi anni costruiremo un nuovo Palazzo che diventerà la sede principale dei nostri uffici e dei nostri laboratori con circa 800 postazioni per scienziati e ricercatori.

Voi state già producendo ricerca?

Abbiamo dimostrato che seguendo certe regole internazionali consolidate si possono ottenere risultati importanti. Gaia Pigino, vicedirettrice del nostro centro di biologia strutturale, ha guadagnato una copertina di Science di gennaio 2021 per una ricerca molto affascinante condotta insieme al suo gruppo su alcune cause dell’infertilità maschile: in assenza di alcune sostanze, lo spermatozoo anziché nuotare dritto gira in tondo senza fecondare l’uovo. La copertina di Science è ovviamente un traguardo importante per Human Technopole, ma è preziosa anche per l’Italia. Science è letta in tutto il mondo e ci auguriamo possa suscitare l’interesse della comunità di ricerca internazionale nei confronti del nostro istituto.

L’attività di ricerca è partita con l’arrivo dei primi scienziati nel corso del 2019. In attesa di avere spazi di laboratorio in Human Technopole, continuano a lavorare presso i loro istituti precedenti. Sono già operativi a Palazzo Italia invece i biologi computazionali. Purtroppo, il Covid e le restrizioni legate agli spostamenti soprattutto internazionali hanno rallentato l’arrivo in Italia di alcuni ricercatori, ma contiamo di averli con noi a Milano nei prossimi mesi.

Diceva che nei campi attinenti alla biologia umana siamo alla vigilia di progressi pratici importanti?

La linea generale è di lavorare per la medicina personalizzata e preventiva. Abbiamo già molte conoscenze di tipo genetico che ci permettono di capire che ognuno di noi reagisce in modo diverso a una determinata malattia. I futuri sviluppi in questo campo ci permetteranno di individuare terapie mirate per ciascun paziente e garantire in questo modo una migliore qualità di vita.

Ma quindi ciascuno di noi dovrebbe fare una analisi preventiva del Dna?

Diciamo così: mio figlio ha 13 anni. C’è una buona probabilità che quando avrà un figlio, la prima cosa che gli faranno sarà una striscia di Dna, un sequenziamento magari non completo ma che consenta di sapere a che tipo di patologie potrà essere maggiormente sensibile.

Una delle prime collaborazione che abbiamo avviato mira a valorizzare un database costruito a Isernia, in Molise. Dal 2005 infatti l’Irccs Neuromed segue in maniera longitudinale, anno dopo anno, circa 24mila persone: una ricerca fatta in modo puntuale e ordinato. Di queste 24mila persone si hanno dati di tipo biologico, genetico e ambientale. Su questo archivio già così preciso, aggiungeremo il sequenziamento completo del Dna. Questo consentirà di disporre di un database finale di una ricchezza incredibile che ci permetterà di individuare strumenti di prevenzione e diagnosi precoce per molte malattie.  

Un altro esempio che mi sta molto a cuore è quello dell'Irccs Associazione Oasi Maria Santissima di Troina, in Sicilia. Un ospedale vicino a Enna dove da vent’anni si portano i bambini autistici. Grazie ai dati raccolti dall’Irccs, nei prossimi dieci anni potremmo assistere a una rivoluzione incredibile. I nostri esperti di neuroscienze sequenzieranno i campioni biologici di 1500 persone affette da autismo conservati a Troina, aggiungendo i dati genetici da sequenziamento del Dna. Questo studio avrà una scala semi-industriale: gestirà un filone di dati immenso, che potrà essere usato dagli scienziati con risultati ad oggi impensabili.

Iniziative congiunte come quella che stiamo portando avanti con NeuroMed o Troina permettono di analizzare una grandissima mole di dati raccolti nel corso del tempo ed arricchirli con le informazioni derivanti del sequenziamento del Dna.

La cosa interessante da notare è il fatto che ricerche di questo genere hanno sempre bisogno di un gruppo molto eterogeneo di ricercatori, con competenze diverse tra di loro. Faccio l’esempio del microscopio crio-elettronico che citavo prima: si tratta di uno strumento utilissimo per chi si occupa di biologia strutturale perché riesce a fotografare elementi cellulari e molecolari a una risoluzione semi-atomica. Vengono realizzate tantissime immagini che successivamente, grazie a nuove tecnologie ed esperti di intelligenza artificiale possono essere unite fino a formare una fotografia in 3D. Oppure penso al caso del biologo computazionale che ha inventato un software capace di distinguere il pixel mosso dal pixel “fermo” e pulisce in questo modo tutta l’immagine rendendola nitida. Servono quindi competenze specifiche diverse che unite su un unico progetto permettono di ottenere grandi risultati.

Questo vale anche per i dati genetici che sono talmente tanti che è impossibile studiarli dando delle etichette a priori. La soluzione di un problema genetico diventa spesso un problema informatico, che però discende dalla comprensione dei fenomeni genetici.

La ricerca nel campo della biologia umana ha dei limiti etici?

C’è un aspetto etico importante, al quale noi offriamo una risposta. Ha a che fare con la sostenibilità del sistema sanitario. Se ne discute sempre molto poco, anche se con la pandemia l’abbiamo visto in tutta la sua violenza. Ieri con un collega economista stavamo analizzando la distribuzione dei casi di contagio da Covid, che sono molto più alti nei quartieri più poveri per ovvie ragioni: le persone hanno meno spazio a disposizione. Lo spazio medio di una persona in un quartiere povero è di circa 25 metri quadri contro i 60 di chi vive nei quartieri benestanti. Inoltre, parliamo di persone meno formate alla conoscenza medica. La proiezione dei dati della popolazione europea nei prossimi vent’anni ci dà un quadro non sostenibile dal punto di vista finanziario: per mantenere per tutti il livello medio di cure mediche che assicuriamo oggi lo Stato dovrebbe spendere cifre insostenibili. Sviluppare la medicina preventiva, la medicina personalizzata, significa puntare a una riduzione drastica delle patologie delle persone più anziane, che è il nodo chiave per potersi permettere anche di curare quelle più giovani che stanno male.

Se il tasso di ospedalizzazione delle persone anziane rimanesse lo stesso nei prossimi 15 anni, il sistema collasserebbe completamente. Se invece riusciremo a sviluppare tecnologie e terapie personalizzate preventive che possono essere diffuse, quella sarà la risposta che ci consentirà di curare tutti. Per raggiungere questo obiettivo un Paese deve avere un centro di genomica di grandi dimensioni, che possa funzionare da service perché per una terapia personalizzata la prima cosa che devi fare è la sequenza del Dna. Mi spiego con un esempio: le cure oncologiche sono sempre più orientate ad affrontare non una classe di tumori, ma i casi specifici; non i tumori del pancreas, ma quello specifico tumore di quel pancreas. Questo si fa andando a cercare qual è il gene che può funzionare da tallone d’Achille di quel tumore, colpendo quel gene si uccide il tumore. Per fare queste cose in modo personalizzato è necessario sviluppare le tecnologie e la conoscenza in modo aperto così che questo tipo di cura non diventi privilegio di chi se lo può permettere. Servono centri pubblici che facciano open innovation e siano in grado di applicarla in modo diffuso su tutto il territorio nazionale.

Questa personalizzazione avrà un costo.

Sì, ma una volta che queste terapie verranno sviluppate il costo sarà una minuscola percentuale di una notte in ospedale. L’alternativa è che a queste cure abbiano accesso soltanto le persone da un certo livello di reddito in su, ciò avrebbe come conseguenza una mortalità enormemente superiore delle persone più povere. Dal punto di vista sociale è fondamentale. Se non facciamo fare alla sanità un salto tecnologico ci ritroveremo in una disparità tra chi si può permettere e chi non si può permettere le cure. Penso che ci sia un enorme tema etico che ha a che fare con il sostegno della ricerca scientifica di alta qualità. Ne discutiamo poco, perché è difficile oggi portare il discorso pubblico su quello che succederà fra vent’anni.

Se la vita si allunga, dovremmo trovare anche il modo di valorizzare il ruolo degli anziani.

Questo è un punto fondamentale. Una parte della medicina preventiva significa fare in modo che le persone anziane stiano meglio. Sono ben felice di poter vivere fino a X anni in buona salute, potendo lavorare, potendo continuare a fare quello che mi piace. Vedendo le cose da economista, quello che avviene quando ci sono questi cambiamenti così strutturali è che nascono in maniera naturale dei nuovi mercati. Sta già succedendo anche per la mia generazione: la quantità di prodotti per i quarantenni e i cinquantenni di adesso è infinitamente superiore a quella disponibile una generazione fa. Anche il confine dell’anzianità si è molto spostato in avanti. Penso che questo avverrà in modo abbastanza naturale e che comporterà anche un cambiamento nei modi di organizzazione del lavoro. È chiaro che alcuni tipi di lavoro fisicamente più impegnativi possono trovare limiti nell’età, ma ci saranno interi nuovi settori di servizi per rispondere in maniera autonoma alle esigenze di fasce della popolazione che prima non esistevano.

Rimane il tema di una società con pochi giovani, che storicamente è una società che tende a essere meno dinamica, ma questo accade perché siamo abituati a quel tipo di anzianità nella quale una persona già a sessant’anni comincia a essere più lenta. Qualora non fosse più così, non sarebbe più neanche vero che abbiamo a che fare con una società meno dinamica.

Guardando al futuro della biologia umana, cambierà anche il rapporto tra l’uomo e la macchina?

C’è un pezzo di discorso sull’intelligenza artificiale che è molto inquinato da una comprensione parziale e da una certa spettacolarizzazione della discussione. L’intelligenza artificiale sta andando verso una capacità di storage impensabile: solo per il genoma di una persona serve un terabyte di memoria, cioè l’equivalente di quattro telefonini di ultima generazione. I nostri computer hanno una capacità tale che un centesimo di uno di essi è sufficiente per immagazzinare tutta la letteratura mondiale che sia mai stata scritta. Insomma, noi abbiamo degli strumenti di calcolo e una capacità di immagazzinare dati talmente ampia da poter ambire a sapere nel giorno in cui nasciamo quali sono le dieci malattie più probabili di cui possiamo soffrire e magari evitare che ci vengano perché ci curiamo in anticipo. È un potenziamento dell’essere umano; anche il fatto che noi giriamo avendo in tasca un’Enciclopedia britannica moltiplicata per mille attraverso Internet è un potenziamento al quale cinquant’anni fa non si era nemmeno pensato.

Questa evoluzione è stata così rapida che non sappiamo ancora a quali risultati porterà. Quello che è successo negli ultimi 15 anni è paragonabile all’invenzione della stampa. Internet e i social media hanno avuto come effetto un completo stravolgimento del rapporto tra le elite e chi non appartiene alle classi dominanti. La cosa più difficile ora è evitare che tutto questo risulti in una estrema frammentazione della nostra società. Non siamo più davanti a un sistema di disuguaglianze tra classi, tra lavoratori e capitalisti. Il problema più serio oggi è vedere il mondo diviso tra chi ha accesso agli strumenti di conoscenza, di cura, di relazione, e chi magari quest’accesso non ce l’avrà mai. Si tratta di un divario che si aggrava di generazione in generazione. Questo meccanismo negli Stati Uniti già si vede perché le persone più colte non solo hanno più soldi, ma passano più tempo con i propri figli ed è una cosa assodata dalla pedagogia che il bambino che passa più tempo con i propri genitori ha maggiore capacità intellettive. In questo modo le differenze da una generazione all’altra diventano esponenziali. Questo è il vero rischio che bisogna contrastare, inventandosi strumenti nuovi, senza pensare di poter tornare a come eravamo prima, ma usando la tecnologia anche per colmare questi divari.

a cura di Donato Speroni

lunedì 26 aprile 2021