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Alluvioni: bisogna rendere il territorio più resiliente

Francesco Vincenzi, presidente Anbi, e Alessandro Bratti, Segretario generale dell'Autorità distrettuale del fiume Po, sono d'accordo soprattutto su una cosa: occorre ripensare il territorio.

di Giovanni Peparello

lunedì 21 ottobre 2024
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Tre alluvioni in sedici mesi, un’ulteriore allerta rossa con esondazioni, evacuazioni preventive: l’Emilia-Romagna sta affrontando una nuova realtà, diretta conseguenza della crisi climatica, per cui il territorio non è preparato. Quello che credevamo impossibile sta diventando non solo possibile, ma sempre più frequente - per parafrase ciò che aveva scritto il meteorologo Federico Grazzini.

Di fronte alla nuova realtà, c’è bisogno di immaginare un nuovo territorio, meno vulnerabile e più resiliente. Ne abbiamo parlato con Francesco Vincenzi, presidente ANBI, e con Alessandro Bratti, Segretario Generale dell'Autorità distrettuale del Fiume Po-MiTE.

Differenze tra gli eventi 2023 e 2024
Con Francesco Vincenzi, presidente ANBI (Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni Miglioramenti Fondiari), abbiamo affrontato la questione iniziando dalle differenze tra le alluvioni di questo autunno 2024 e le alluvioni di maggio 2023. “Nel 2023 abbiamo avuto una situazione molto più critica su tutto il territorio, partendo dal crinale fino ad arrivare alla bassa pianura”, ha spiegato Vincenzi. “In queste del 2024 abbiamo avuto una piovosità importante sul territorio collinare e montano, ma l’acqua si è incanalata, creando disagi e danni non paragonabili a quelli del 2023. Abbiamo avuto una pressione sui torrenti in modo diverso”. Ma il tema vero sono i cosiddetti tempi di ritorno: nel 2024 “abbiamo avuto come nel 2023 un’altissima piovosità all’interno dei bacini, con portate di fiumi che non si erano mai registrate nella storia di quei bacini. Quindi, se nel 2023 l’evento era stato considerato in termine tecnico ‘cinquecentennale’ – (cioè con tempi di ritorno di cinquecento anni, ndr) – purtroppo si è verificato dopo sedici mesi, in alcuni di quei torrenti con le stesse portate”. Questo comporta nuove scelte nella gestione del territorio, perché è innanzitutto la frequenza a essere cambiata. 

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Le idee di ANBI per rendere il territorio più resiliente
ANBI nel frattempo sta attivamente immaginando come agire sul territorio, partendo dalla gestione della franosità diffusa. “Abbiamo crinali e versanti particolarmente franosi che hanno bisogno di un ripensamento – spiega Vincenzi – e difficilmente questo fenomeno si ferma in poco tempo”. Bisogna poi cambiare la gestione in alveo, con una manutenzione strutturale che non preveda un intervento spot ma una pianificazione, una programmazione di interventi annuali di gestione in alveo e nelle zone limitrofe. “Abbiamo bisogno di immaginarci degli adeguamenti degli impianti di scolo e dei canali”, anche se questa cosa vorrebbe dire “ripensare completamente il sistema di bonifica e di controllo dei territori”. Altra questione è quella del consumo di suolo, i cui dati rimangono alti – troppo alti per una Regione incline agli eventi alluvionali. “Non possiamo pensare di continuare ad avere un territorio così fragile governato con un’urbanistica che prevede ancora delle costruzioni nelle vicinanze dei torrenti e dei fiumi” chiarisce Vincenzi

Gestire l’emergenza con gli strumenti giusti
Vincenzi è schietto: “L’emergenza va gestita con gli strumenti di emergenza. Non possiamo continuare a immaginare che nel nostro Paese, finita l’emergenza del mese, si torni a gestire la ricostruzione senza andare in deroga ad alcune norme”. Con questi tempi di ritorno, con questa frequenza, bisogna adattare anche la burocrazia: “Per me emergenza significa anche adattare la velocità con cui i cambiamenti climatici stanno incidendo sul nostro territorio. Le politiche di adattamento devono essere percorse con delle regole e con un alleggerimento burocratico che ci permetta di dare risposte immediate dei cittadini. Dobbiamo prendere atto di questo: siamo in emergenza e non possiamo gestirla con ordinarietà” conclude Vincenzi.

Programmare per la crisi climatica
Il Piano speciale di interventi per il dissesto idrogeologico spiega come limitare i danni degli eventi straordinari in epoca di cambiamento climatico. È stato redatto dall’Autorità di bacino del fiume Po ed elenca le misure per ridurre i rischi di frane e alluvioni durante i nubifragi sempre più frequenti. Ne abbiamo parlato con Alessandro Bratti, segretario dell’Autorità di bacino. Il piano, ci spiega, “è in fase di approvazione. Prevede una serie di interventi di carattere impiantifico più che infrastrutturali, e una serie di interventi di carattere regolamentativo”. Nelle regolamentazioni sono state proposte anche delle limitazioni dal punto di vista dello sviluppo urbanistico delle aree alluvionate. 

Delocalizzare dove non ci si può proteggere
Questi interventi riguardano i fiumi ma anche le frane: “Il ragionamento che abbiamo provato a imbastire – illustra Bratti – è stato un po’ quello di iniziare a pensare che per quelle aree, soprattutto appenniniche, fortemente minacciate da frane, era più ragionevole pagare attraverso un indennizzo per delocalizzare, piuttosto che intervenire per mettere in sicurezza una frana, che costa dieci volte tanto”. Un territorio con eventi di questo tipo sempre più frequenti, diventa quasi impossibile difendersi. “Ora, un conto è dirlo un conto e un conto è censire quelle che possono essere potenzialmente delle delocalizzazioni. Bisogna finanziarle. In più i Comuni stessi e la Regione dovranno poi provvedere concretamente a capire come realizzare eventuali operazioni”. Anche se la questione è complessa, bisogna innanzitutto iniziare a parlarne, porla al centro del dibattito, considerandola come possibile alternativa.

Rendere il territorio meno rigido
Oltre a questo, “esistono una serie di interventi di carattere infrastrutturale che noi riteniamo assolutamente da privilegiare”. Vale a dire, dove possibile, “lo spostamento degli argini; l'innalzamento dei piani golenali; la tracimazione controllata. Abbiamo studi in corso sul fiume Enza con l’Università di Parma secondo cui questo tipo di approccio ci consente di ridurre il danno. È evidente che per poter far questo è necessario individuare le aree in cui è possibile agire. Queste aree possono essere aree forestali, ma molto spesso agricole, visto il contesto in cui siamo. A queste aree viene garantito l’indennizzo, in caso fossero utilizzate per far tracimanre i fiumi”. Oltre a questi sono stati individuati interventi tradizionali: completamento delle casse di espansione, rafforzamento di arginature dove possibile, “ma diciamo che la filosofia tende ad assecondare dove possibile i fiumi, garantendo gli spazi di cui hanno bisogno. Dove non è possibile, le aree andranno messe fortemente in sicurezza”.

L’alluvione ha accelerato un processo che era già stato avviato dall’Autorità distrettuale. Basti pensare anche al progetto del Pnrr per la rinaturazione del fiume Po. “Questo è un tipo di impostazione che cerca di dare più spazio ai fiumi, togliendo gli sbarramenti, rinaturando alcuni ambienti, perché le zone umide sono delle ottime zone buffer che possono essere utilizzate in caso di tracimazione. E tutti i temi non li stiamo pensando in alternativa totale ad alcune procedure classiche. Perché con la crisi climatica non riusciremo mai a gestire la situazione con le casse di espansione e le dighe: è fondamentale un cambiamento culturale. Il tema del clima non è una giustificazione astratta: l’emergenza climatica c’è, è conclamata, e noi dobbiamo capire come rendere il territorio più adattabile a questi estremi, che sono anche poco prevedibili. È esattamente il contrario di chi dice che dobbiamo fare tutte casse di espansione, perché questo significa rendere il territorio più rigido”. 

Copertina: Ansa