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Lotta alle disuguaglianze e crescita: quanto costa fare a meno delle donne?

Nonostante le qualità mostrate nella gestione politica, le donne sono ai margini della vita amministrativa ed economica di molti Paesi del mondo. Una zavorra insostenibile per il futuro. 17/03/21

di William Valentini

A un anno dalla comparsa del Coronavirus, e nonostante la fiducia e la tenacia con la quale i cittadini italiani si sono sforzati a tenere in piedi il sistema produttivo nelle fasi più acute della pandemia, i dati tendenziali pubblicati dall’Istat fotografano tutta la violenza con cui il Covid-19 ha colpito la società. Nel nostro Paese durante il secondo trimestre del 2020 si è registrato un calo di due punti percentuali del tasso di occupazione rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Un crollo dell’occupazione che si è tradotto nella scomparsa di 788 mila posti di lavoro, come è fotografato dai dati del Rapporto Bes, la pubblicazione dell’Istat che misura la diffusione del benessere equo e sostenibile.

Lavoro, pandemia e differenze di genere

Tuttavia, se, in generale, nell’ultimo decennio si è assistito a un progressivo divaricamento dei tassi di occupazione italiani con quelli europei, tutti i dati indicano che negli ultimi mesi il fenomeno ha raggiunto dimensioni davvero insostenibili per quello che riguarda le donne. Un problema che impoverisce tutto il sistema produttivo e il mondo del lavoro: nel 2010, il tasso di occupazione femminile nella classe di età compresa tra i 20 e i 64 anni in Italia era di 11,5 punti più basso rispetto alla media europea. Nel 2020 il distacco ha raggiunto i 14 punti: in un quadro già compromesso la pandemia ha avuto un ruolo dirompente.

In un editoriale pubblicato il 9 marzo sulla Stampa dal titolo “Ora noi donne chiediamo fatti”, Flavia Perina richiama l’attenzione del nuovo governo su questo tema. L’assoluta prevalenza femminile nei licenziamenti legati al Covid-19 (a fronte di un numero complessivo di 101 mila persone che hanno perso il lavoro nel periodo della pandemia, 99 mila sono donne, pari a circa il 98%), la bassissima occupazione femminile nei settori strategici come green e digitale e la mancanza di posti negli asili nido pubblici, sono le aree sulle quali bisogna necessariamente intervenire, se non si vuole lasciare indietro 30 milioni di donne, scrive l’editorialista del quotidiano torinese.  

Ma se il livello della disoccupazione femminile è esploso durante la pandemia, dall’altro il sistema italiano non è mai riuscito a garantire una rappresentanza proporzionata alle donne negli organi direttivi di imprese e società, almeno fino all’istituzione delle cosiddette “quote rosa” con la legge Golfo-Mosca (n. 120 del 2011). È quanto emerge dal rapporto "La partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società italiane", condotto dalla Banca d’Italia, dalla Consob e dal Dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e pubblicato l’8 marzo 2021. Fra il 2011 e il 2019, si legge nel documento, la presenza delle donne negli organi di amministrazione delle società quotate in Borsa e delle società a controllo pubblico è salita rispettivamente dal 7% al 37% e dall’11% al 25%. Viceversa, nelle società private, in cui non si applica la disciplina sulle “quote rosa”, la presenza femminile è cresciuta nello stesso arco di tempo a ritmo ben più lento, passando dal 22% al 24% e segnando apertamente la difficoltà per le donne ad accedere a ruoli apicali che rimangono, ancora oggi, riservati in prevalenza agli uomini. Nelle società quotate solo il 2% delle donne negli organi amministrativi ricopre il ruolo di amministratore delegato, e solo l’1% nelle banche. Risulta quindi che, se anche l’entrata in vigore della legge 120/2011 ha determinato un innegabile avanzamento rispetto alla situazione precedente, permangano forti eterogeneità nella partecipazione femminile negli organi di amministrazione e di controllo e nei processi decisionali delle grandi società.

Quanto costa fare a meno delle donne?

Oltre alla Giornata internazionale della donna, il mese di marzo segna un’altra ricorrenza molto significativa per la politica italiana: il 10 marzo del ’46 facevano il loro esordio le prime dieci sindache  e le prime otto deputate italiane, votate nelle elezioni democratiche a suffragio universale che sancirono l’inizio della vita repubblicana per l’Italia. Come spiega Mirella Serri in un lungo articolo per celebrare la giornata del 8 marzo  pubblicato sulla Stampa e titolato “Donne in politica, la lunga marcia”, tuttavia, “dal governo De Gasperi II, al Conte II, su 4864 presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari, le esponenti di sesso femminile sono state solo 319, il 6% del totale”. In più, sottolinea la giornalista, nessuna donna ha mai ottenuto un ruolo chiave nel governo, ad esempio come ministro dell’Economia, né la presidenza del Consiglio.

L’emarginazione delle donne nell’agone politico, perpetuata spesso da una classe politica composta in prevalenza da maschi di mezza età, ha un impatto negativo nella gestione della cosa pubblica, come è stato più volte sottolineato da diverse ricerche scientifiche portate avanti nei mesi della pandemia. Per esempio, l’analisi condotta da due ricercatrici delle università di Liverpool e di Reading, “Leading the fight against the pandemic: does gender ‘really’ matter?”, e pubblicata sul sito di diffusione di contenuti accademici Ssrn, sostiene che, tra 194 Paesi, i 19 a guida femminile hanno registrato risultati migliori in termini di rapidità ed efficacia nella risposta al Covid rispetto alla maggioranza con a capo dei maschi. “I risultati della ricerca indicano chiaramente che le donne al comando hanno reagito in maniera più tempestiva e risoluta di fronte alla minaccia di potenziali vittime”, ha spiegato la co-autrice Supriya Garikipati dell’università di Liverpool. “In quasi tutti i casi, le leader donne hanno adottato misure di isolamento prima dei loro colleghi maschi in circostanze simili. Se da un lato queste misure potrebbero avere implicazioni di natura economica nel lungo periodo, dall’altro hanno consentito a tali Paesi di salvare vite, come dimostrato dal numero di decessi notevolmente inferiore registrato in questi stessi Paesi”. Non solo: l’indagine delle due studiose “mostra che gli esiti del Covid sono sistematicamente e notevolmente migliori nei Paesi guidati da donne”. In una certa misura ciò si spiega grazie all’approccio politico proattivo da esse adottato. “Pur tenendo conto del contesto istituzionale e di altri controlli, essere guidati da una donna ha rappresentato un vantaggio per i Paesi nella crisi attuale”, aggiunge Garikipati. Un dato di fatto che non dipende dall’ipotetica avversione delle donne al rischio, spiega infatti l’autrice: “Se da un lato le donne al governo erano avverse al rischio legato alle vite umane, dall’altro erano pronte ad assumersi notevoli rischi economici con l’adozione tempestiva delle misure di isolamento”. Complessivamente, conclude il report, avere una leadership femminile comporta Paesi con rapporti di genere più equi, meno disuguaglianze e nei quali le donne sono più coinvolte nel sistema produttivo e nei ruoli apicali dell’economia e della politica.

Cultura e società

Il costo sociale dell’esclusione di una grossa fetta della popolazione femminile dalla vita economica è un problema globale. “La pandemia da Covid-19 ha penalizzato più le donne che gli uomini e ha allargato ulteriormente il divario di genere, provocando una dilatazione del tempo necessario per raggiungere la parità di 51 anni, passando dal 2120 al 2171”. Marco Principini del Quotidiano nazionale economia e lavoro, commentando lo studio “If not now, when?” realizzato da Accenture e Quilt, Ai insieme a Women 20 (W20), spiega come il problema sia comune a molte realtà: “Sebbene il tempo dedicato alla cura dei bambini da parte degli uomini sia aumentata del 34%  e quello delle donne del 29% rispetto alla situazione pre-pandemica, non è diminuito l’onere sulle donne, con il 50% del campione femminile dello studio che dichiara un incremento della tensione e dello stress legato alla cura in ambito domestico” spiega Principini.

Tuttavia esiste una strada: accorciare i tempi verso il raggiungimento della parità di genere. Oltre all’analisi, il Rapporto, infatti, suggerisce anche dieci soluzioni in gradi di accorciare il percorso di circa 59 anni. “L'invito è stabilire, per esempio, obiettivi per l'assunzione progressiva delle donne nelle organizzazioni, riconoscere il lavoro non retribuito svolto dalle donne e offrire maggiore flessibilità per ridurre il peso delle cure familiari, incentivare una formazione che offra all’universo femminile maggiori opportunità occupazionali, applicare equità retributiva e aumentare l’accesso della popolazione alle tecnologie digitali”.

Questo pone almeno tre nodi che il sistema italiano deve cercare di dipanare il prima possibile. Ha scritto la ministra per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, in occasione del Pi greco day, che si celebra il 14 marzo (nella dicitura anglosassone 3-14), sul Sole 24 Ore: “è opinione ormai condivisa che la sfida di coinvolgere più donne nelle materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) sarà fondamentale per l’occupazione femminile nel futuro e per l’ottimizzazione dell’interesse economico e sociale”. Un problema, spiega la ministra, che è professoressa di analisi matematica all’Università degli studi di Milano, comune a molti Paesi, ma che assume tratti drammatici in Italia, dove le studentesse accusano un gap di 16 punti rispetto ai loro colleghi maschi. In questo quadro, occorre sottolineare come l’ultimo report dell’Istat abbia confermato la tendenza che vede le donne laurearsi di più e con risultati migliori degli uomini.

A svantaggiare le donne, però, c’è “un percorso formativo, che nel nostro Paese non valorizza e promuove a sufficienza quelle competenze per tutte e tutti, e un metodo di verifica e valutazione, con criteri definiti sulla base di un approccio maschile alla vita. Ma il merito, come le persone, non è asessuato” ha spiegato l’accademica. 

Tra i risvolti più drammatici della mancanza di uguaglianza di genere c’è, soprattutto in questa fase, l’aumento delle violenze. Dall’inizio dell’anno, spiega Paola Severino in un editoriale su La Repubblica dal titolo “8 marzo, per un welfare femminile”, si è verificato un femminicidio ogni tre giorni, mentre le chiamate ai centri antiviolenza sono aumentate del 73%.

Per sottrarre le donne alla violenza dei loro partner e conviventi maschi, spiega l’ex ministra della Giustizia, bisogna far funzionare quello che è già previsto dalla legge. “Le infrastrutture sociali, le istituzioni educative, le iniziative di specializzazione degli operatori che trattano i casi di violenza e di sfruttamento nel lavoro, i centri antiviolenza e le case rifugio per le vittime delle più gravi forme di aggressione, cioè le misure di prevenzione più efficaci non hanno ricevuto risorse economiche sufficienti. Se dunque pensiamo che salvare la vita di una donna, evitarle il calvario di sofferenze reiterate negli anni, consentirle di ottenere un lavoro sicuro e dignitoso rappresenti il minimo comune denominatore di una cultura rispettosa dei diritti delle donne, dobbiamo consolidare un vero e proprio sistema di welfare femminile”. E infine, “perché non inserire nel Recovery plan un progetto di welfare femminile  che parte della emersione dei problemi affrontati dalle donne durante la pandemia?” si chiede Severino.

di William Valentini

mercoledì 17 marzo 2021