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Sradicare la povertà estrema entro il 2030: una sfida globale sempre più ardua

Dopo decenni di progressiva riduzione, nel 2020 si stima che il numero di poveri sia aumentato tra gli 88 e i 115 milioni. Covid-19, conflitti e cambiamento climatico le principali minacce al raggiungimento del Goal 1 dell’Agenda 2030.

di Elita Viola

Entro il 2030, eliminare la povertà estrema per tutte le persone in tutto il mondo, attualmente misurata come persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno”. Recita così il Target 1.1 riferito al Goal 1 “Sconfiggere la povertà” dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Sebbene gli indicatori adottati dalla Cina non siano perfettamente in linea con quelli internazionali che considerano in condizioni povertà estrema coloro che vivono con un reddito al di sotto di 1,90 dollari al giorno, il presidente Xi Jinping, attraverso il quotidiano Global Times, ha di recente fatto sapere di aver sradicato la povertà estrema nel Paese con nove anni di anticipo rispetto alla scadenza fissata al 2030.

Ma a livello globale, per la prima volta dopo decenni di lenta e progressiva riduzione, si stima che nell’ultimo anno la povertà estrema sia aumentata tra l’1,2% e l’1,5% a seguito dello scoppio della pandemia. Secondo quanto riportato dalla Banca mondiale nel recente rapporto “Poverty and shared prosperity 2020: Reversals of fortune”, il Covid-19 nel 2020 avrebbe fatto piombare nella povertà estrema tra gli 88 e 115 milioni di persone, a cui andranno ad aggiungersi probabilmente altri 23 - 35 milioni nel corso del 2021.

Questa battuta d’arresto rischia di mettere ulteriormente a repentaglio la già incerta realizzazione dell’Obiettivo previsto dall’Agenda Onu di porre fine alla povertà entro il 2030. Il World poverty clock che in tempo reale calcola il numero di persone che entrano ed escono dalla povertà nel mondo, ci dice che ad oggi - oltre ai 720 milioni di poveri attuali - altri 220 circa ci separano dal raggiungimento del Goal 1, prospettiva che potrebbe portare ad avere nel 2030 quasi un miliardo di poveri. Ma se la pandemia rappresenta a breve termine la minaccia maggiore, conflitti e cambiamento climatico concorrono ad allontanare dal target nel medio e lungo periodo.

Gli scenari

L’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo, in collaborazione con il Pardee center for international futures dell’università di Denver, ha elaborato uno studio che, partendo dalla valutazione dell’impatto multidimensionale che la pandemia ha avuto e sta avendo sugli SDGs, profila tre scenari a lungo termine[1]:

  • quello definito “baseline Covid scenario” che, partendo dallo stato attuale e comparandolo a quello di riferimento pre-Covid, presenta un significativo aumento di povertà e fame a causa dell’elevato tasso di mortalità e della brusca riduzione della crescita economica con conseguenze negative anche a lungo termine, ma considerevolmente minori rispetto al periodo di piena pandemia; secondo questa stima entro il 2030 sarebbero 44 i milioni di poveri estremi che andrebbero ad aggiungersi ai 94 milioni spinti in povertà dal Covid già nel 2020;

  • un “high damage scenario” ovvero la prospettiva secondo cui, protraendosi la fase di ripresa, il Covid-19 potrebbe spingere altri 207 milioni di persone in povertà estrema entro il 2030, con una crisi economica persistente per i prossimi dieci anni che impedirebbe un ritorno alla traiettoria di crescita pre-pandemia;

  • un “SDG push scenario” in base al quale, con un massiccio investimenti sugli SDGs nella prossima decade – da destinare in particolare alla protezione sociale/programmi di welfare, alla governance, alla digitalizzazione e alla green economy – non solo si potrebbe prevenire l’aumento della povertà estrema ma si potrebbe anche innalzare il trend di sviluppo della fase pre-Covid. Interventi mirati potrebbero portare 146 e 340 milioni di persone, rispettivamente entro il 2030 ed entro il 2050, fuori dalla povertà estrema secondo il trend attuale determinato dal Covid-19.

La povertà multidimensionale e gli impatti del Covid

Ma quando si parla di povertà ci si riferisce a un fenomeno complesso. Per questo l’Undp ha elaborato il concetto di povertà multidimensionale che, oltre alla deprivazione economica, tiene in considerazione tre domini aggiuntivi: quello della salute, quello dell’istruzione e quello relativo agli standard di vita intesi come accesso ai servizi e alle infrastrutture di base quali acqua potabile, energia, servizi igienici, etc. Questo approccio spiega meglio come gli effetti socioeconomici derivanti dal Covid-19 abbiano arrestato e rovesciato il trend positivo di riduzione della povertà degli ultimi decenni. Includendo infatti coloro che non dispongono di servizi di base o che soffrono la fame a seguito dello scoppio della pandemia, il numero dei poveri nel 2020 aumenta esponenzialmente oscillando tra i 240 e i 490 milioni, come ricorda l’Economist riportando i dati delle Nazioni unite.

La crisi economica causata dalla pandemia ha infatti privato milioni di lavoratori informali, specialmente in Africa e in Asia, della loro unica fonte di reddito per via dei ripetuti lockdown e della frenata dell’economia, mentre le rimesse provenienti dai Paesi ricchi sono diminuite di un quinto, facendo registrare la più grande riduzione della storia recente, stando ai dati della Banca mondiale. Coloro che erano usciti dalla povertà andando a vivere nei grandi centri urbani dove avevano trovato lavoro e potevano disporre di elettricità e acqua corrente spesso non hanno avuto altra alternativa se non tornare nelle aree rurali, dove la povertà è più forte.   

Inoltre, la crisi economica si è tradotta anche in una crisi alimentare. Secondo il Programma alimentare mondiale, il numero delle persone che rischiano la denutrizione potrebbe raddoppiare: questo vorrebbe dire 130 milioni di persone in più che soffrono la fame compromettendo la salute degli adulti e lo sviluppo dei bambini. A lungo termine, quella a risultare più gravemente compromessa è però l’istruzione. I bambini delle famiglie che stanno abbandonando le città per tornare nelle campagne probabilmente riceveranno un’istruzione peggiore, se la riceveranno. Dal momento che si calcola che ogni anno di istruzione aumenti approssimativamente il reddito annuo del 10%, è evidente che le conseguenze per i bambini poveri siano allarmanti.

Anche le ripercussioni sui sistemi sanitari rischiano di perdurare a lungo. Il personale sanitario scarseggia e i medici non possono lavorare in sicurezza. Tali difficoltà fanno sì che venga meno la protezione e la cura anche di altre malattie infettive, non soltanto del Covid-19.

E se è vero che i governi possono aiutare i poveri, è altrettanto vero che i sistemi di protezione che a lungo si sono focalizzati sulle popolazioni rurali devono ora spostare il focus sulle città, dove si concentrano i nuovi strati di povertà. Tuttavia, secondo la Banca mondiale i governi dei Paesi africani hanno visto diminuire le proprie entrate tra il 12% e il 16% (diventando quindi ancora più poveri). La solidarietà internazionale, certamente necessaria, tarda ad arrivare dato che i Paesi ricchi sono troppo impegnati a fronteggiare la crisi pandemica a livello nazionale per aiutare maggiormente i Paesi poveri, come fa notare sull’Economist Amartya Sen, economista, filosofo e accademico indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998.

 

Povertà estrema e conflitti

La pandemia non è il solo fattore ad aggravare il tasso di povertà estrema minacciando il raggiungimento del Target 1.1 del Goal 1. Nel rapporto “Poverty and shared prosperity 2020: Reversals of fortune”, la Banca mondiale ha messo in luce la crescente associazione tra povertà, fragilità e conflitti, evidenziando come le 43 economie con il più alto tasso di povertà rientrano sia nel gruppo dei Paesi fragili e interessati da situazioni di conflitto che tra i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana. Questo dato rappresenta più del 40% dei poveri che vive in economie colpite da fragilità e violenza, percentuale che si stima possa arrivare a toccare il 67% nella prossima decade. Tra il 2000 e il 2019, il tasso di povertà è diminuito fortemente nei Paesi che non sono mai stati "fragili" o colpiti da conflitti, mentre è aumentato o diminuito marginalmente in quelli dove i conflitti sono stati ricorrenti o cronici. 

I conflitti impongono un ulteriore fardello sui Paesi interessati poiché inducono questi ultimi ad accumulare debiti che dovranno ripagare una volta terminato il conflitto stesso. Inoltre, i timori di nuova violenza inibiscono l’attrazione dei capitali e riducono la produttività. E se da una parte i conflitti sono sintomo di debolezza dello Stato, essi contribuiscono a perpetrare questa condizione di debolezza impedendo a loro volta ai governi di implementare e perseguire strategie efficaci per la riduzione della povertà.

Anche dal punto di vista della povertà multidimensionale le famiglie nei Paesi fragili sono più povere da quelle che vivono in Paesi liberi da conflitti.  C’è una relazione molto forte tra conflitti armati e benessere economico: gli scontri generano una riduzione del Prodotto interno lordo pro capite sia a causa della distruzione delle risorse sia per il più alto costo di produzione e trasporto oltre che a causa della generale incertezza.  Inoltre, in diversi Paesi poveri i periodi di pace sono spesso troppo brevi per consentire una reale ripresa economica prima dello scoppio di un’ulteriore fase di violenza.  

Il fatto che i debiti derivanti da queste situazioni critiche incidano per anni sui Paesi interessati ostacolandone tutte le forme di sviluppo – dal capitale umano alle infrastrutture, dalla salute psicologica della popolazione al rafforzamento delle istituzioni – evidenzia l’importanza di prevenire lo scoppio di guerre per ridurre la povertà.

 

Povertà e rischio climatico

Il cambiamento climatico rappresenta un’altra severa minaccia alla riduzione della povertà, specialmente nei Paesi dell’Africa subsahariana e del Sud-est asiatico, regioni nelle quali si concentrano la maggioranza dei poveri a livello globale.

La Banca mondiale stima che, entro il 2030, tra i 68 e i 132 milioni di persone potrebbe cadere in povertà a causa dei diversi impatti derivanti dal cambiamento climatico. Coloro che vivono in povertà sono infatti particolarmente vulnerabili agli shock come i disastri naturali. Il pericolo è dovuto a una serie di fattori come:

  • una bassa qualità dei beni, intesi sia come patrimonio immobiliare che come investimenti di bassa qualità ovvero utilizzati spesso per comprare case o bestiame, fattori entrambi molto vulnerabili a inondazioni o siccità;

  • una grande presenza di infrastrutture fragili - come strade non asfaltate - che sono più facilmente soggette a rischio interruzioni e deterioramento;

  • una forte dipendenza da mezzi di sostentamento derivanti dall’agricoltura e dagli ecosistemi, entrambi molto vulnerabili ai disastri naturali;

  • un grave rischio di aumento dei prezzi del cibo come conseguenza degli shock subiti dalla catena di fornitura a causa di disastri;

  • un impatto a lungo termine sul capitale umano a causa delle conseguenze negative sull’istruzione e sulla salute, in particolare per la maggiore predisposizione a contrarre malattie correlate al clima come diarrea e malaria.

Senza un’adeguata risposta globale, gli effetti cumulativi della pandemia e della conseguente crisi economica, dei conflitti armati e dell’emergenza climatica richiederanno alti costi umani ed economici in futuro. Date tali condizioni, l’obiettivo di portare il tasso di povertà assoluta sotto il 3% entro il 2030, che era già a rischio prima della crisi, non potrà essere raggiunto se non attraverso una più decisa e poderosa azione politica globale.

 

di Elita Viola

[1] Le stime sulla povertà estrema elaborate dall'Undp sono state pubblicate a dicembre 2020 e sono quindi successive a quelle della Banca mondiale di giugno 2020.

martedì 9 marzo 2021