Un primo reattore a fusione nucleare già nel 2030?
L’Eni è il principale azionista di Cfs, l’azienda Usa che punta a rendere operativa questa tecnologia alla fine del decennio. Perplessità da Greenpeace, ma i prossimi cinque anni saranno cruciali.
di Andrea De Tommasi
“Abbiamo lavorato con il team del Cfs negli ultimi anni perché abbiamo riconosciuto che il loro lavoro è in grado di trasformare il panorama energetico", ha spiegato qualche giorno fa alla stampa italiana l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi al termine della sua missione negli Stati Uniti, durante la quale ha visitato proprio lo stabilimento alle porte di Boston. Commonwealth fusion systems è una startup nata da un gruppo di ricercatori e scienziati provenienti dal Mit, che ha l’obiettivo di velocizzare l’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico. Al centro delle sue attività c’è la fusione nucleare. È il processo mediante il quale due atomi si scontrano e si fondono in un atomo più pesante, generando energia. È ciò che alimenta il sole. La fusione “è il contrario della fissione”, ha sottolineato Descalzi, ricordando che questa nuova tecnologia “non genera radioattività, non produce scorie”.
Nel 2018 Eni ha investito 50 milioni di dollari nella società e ne è oggi il principale azionista attraverso la venture capital Eni Next. A fine 2021, inoltre, ha partecipato al nuovo round di finanziamento di Cfs, nel cui capitale hanno investito anche Bill Gates e Jeff Bezos. Il primo obiettivo di Bradom Sorbom, direttore scientifico di Cfs, e del suo team è arrivare a costruire e testare entro il 2025 il primo impianto pilota. Sparc, questo il nome dell’impianto, a sua volta farebbe da banco di prova per lo sviluppo di Arc: il primo reattore dimostrativo su scala industriale completo dei sistemi per la raccolta dei neutroni e per la produzione di energia. Dagli Stati Uniti Descalzi ha detto che questo reattore sarà operativo nel 2030 e potrebbe essere “una vera rivoluzione. Con una bottiglia d'acqua presa dal mare si potranno produrre 250 megawatt in un anno”.
Negli anni l’interessamento di Eni sul progetto ha attirato un certo scetticismo delle associazioni ambientaliste, che hanno evidenziato potenziali ostacoli sui materiali necessari e sugli effetti del processo. Greenpeace ha ricordato che la carenza del trizio, un elemento essenziale per la fusione, mette in dubbio la possibilità di alimentare una vasta filiera di reattori. Viene contestato anche l’assunto in base al quale la fusione, a differenza del nucleare tradizionale a fissione, non produca scorie radioattive. Secondo Greenpeace, “un reattore a confinamento magnetico, qualora funzionasse, produrrebbe decine di migliaia di tonnellate di materiale radioattivo. Alla prima attivazione tutto il nucleo del reattore diventerebbe inavvicinabile da esseri umani per un periodo di qualche centinaio di anni”.
Negli ultimi mesi Cfs ha annunciato di aver effettuato numerosi progressi verso le centrali elettriche a fusione, inclusa la dimostrazione dello scorso autunno dell'innovativo magnete per il confinamento della fusione del plasma, per la prima volta realizzato con la tecnologia Hts (High temperature superconductor). Nella corsa verso l’energia da fusione commerciale, ha riconosciuto l’azienda, i prossimi cinque anni saranno critici, poiché richiedono un lavoro intenso sulla longevità dei materiali, sul trasferimento di calore, sul riciclaggio del carburante, sulla manutenzione e su altri aspetti cruciali dello sviluppo delle centrali elettriche. Il nuovo accordo con il Plasma science and fusion center (Psfc) del Mit si propone di accelerare l’adozione su larga scala di centrali elettriche a fusione.
fonte dell'immagine di copertina: ansa.it