"Occupare il futuro", o come smettere di inseguire la Silicon Valley
Il nuovo saggio di Roberto Paura ripercorre la storia del campo di studi, dalla futurologia positivista ai future studies, e propone nuove prospettive. Per superare la retorica tecno-utopista, bisogna immaginare futuri diversi.
di Flavio Natale
C’è una coincidenza che, come accade spesso nella storia, tanto coincidenza non è.
Ci troviamo in Brasile, è il 1928: sulle rive del Tapajós, affluente del Rio delle Amazzoni, viene costruita da Henry Ford una città operaia per rifornire il mercato automobilistico della gomma proveniente dalle estese piantagioni di alberi locali. Questa città prende il nome di Fordlandia. Come ricorda Roberto Paura, presidente dell’Italian institute for the future (Iif), nel suo saggio Occupare il futuro (Codice edizioni), di recente pubblicazione, “Fordlandia non era solo una piantagione: doveva essere una città modello, il simbolo del fordismo, emblema della civiltà industriale del 20esimo secolo”. Questo significava una coesistenza (in quartieri separati, naturalmente) di bianchi americani e indigeni brasiliani, una vita scandita dal cartellino da timbrare in fabbrica, qualche festa nel dopolavoro e pochi altri svaghi. Insomma, una città a immagine e somiglianza di Henry Ford, tutta votata all’efficienza, alla logica produttiva, al capitale. Naturalmente, un po’ la distanza dalle sedi centrali americane, un po’ l’improbabile anti-sogno di esportare non solo un modello produttivo ma uno stile di vita in un Paese straniero, fecero collassare in fretta la città su se stessa (Fordlandia ha lasciato, in compenso, dei bellissimi ruderi industriali, e ha ispirato un album del compositore Johann Johannsson, che contiene la suggestiva How we left Fordlandia).
Esattamente 80 anni dopo, nel 2008, nasce sempre in Brasile il solarpunk, un “movimento culturale che interseca politica, estetica e stile di vita e si muove su una prospettiva di superamento del capitalismo, in chiave ottimistica e propositiva nei confronti della tecnologia”. La comparsa del solarpunk, ufficializzata nel 2012 dall’uscita del primo volume di racconti Solarpunk: Histórias ecológicas e fantásticas em um mundo sustentável, viene definitivamente canonizzata nel 2020 dalla pubblicazione di un manifesto, dove si legge: “Siamo solarpunk perché l’ottimismo ci è stato tolto e stiamo cercando di riprendercelo”. Il fatto che un movimento di questo tipo sia nato nello stesso luogo che ha ospitato Fordlandia non può essere un caso, come non è un caso il bisogno, sentito dagli aderenti al solarpunk, di esprimere categorie culturali nuove, che non vedano nel futuro né la reiterazione del presente né uno scenario di annientamento post apocalittico, ma un tempo diverso e in divenire, in cui ambiente, tecnologia e umanità possano coesistere in simbiosi e armonia. Questo genere di pensiero prolifico, innovativo, radicalmente diverso è quello che ci può permettere, semplificando il pensiero al cuore del libro di Roberto Paura, di riprenderci il futuro. Perché l’avvenire, prima ancora che un terreno di sviluppo economico, sociale o culturale, è uno scontro di visioni.
“Oggi le realtà che detengono il controllo del presente sono attente a proporci visioni del futuro che non ammettono alternative”, spiega Paura nel suo saggio. “Come conseguenza, la nostra generale capacità di pensare e immaginare il futuro è venuta meno e il presente è diventato l’unica dimensione possibile. La tesi di questo libro è che il presentismo di cui siamo vittime – o ‘presente esteso’, usando la definizione di Helga Nowotny, per cui il futuro non è che una proiezione esponenziale del presente – sia un effetto di quella che possiamo chiamare colonizzazione del futuro. Il futuro come dimensione del possibile, del non ancora, del radicalmente altro rispetto al presente, ci è stato sottratto ed è oggi colonizzato e monopolizzato dall’1% del mondo”.
Il presentismo, dunque, o incapacità di pensare al futuro come orizzonte di lungo termine, è una delle ragioni alla base dell’atrofia immaginativa in cui siamo immersi, uno spazio vuoto che, in mancanza di altro, è stato colonizzato dalle retoriche tecno-utopiste di un domani ipertecnologico o da quelle colonialiste proiettate alla conquista di altri pianeti, partorite dai guru della Silicon Valley – da cui la necessità di “de-siliconolizzare il mondo”, uscendo fuori dal tracciato dei controversi sogni libertari californiani. Per queste ragioni “abbiamo un bisogno disperato di immaginare nuovi futuri possibili”.
Per farlo, però, bisogna anzitutto comprendere cosa significhi “pensare il futuro”, intercettare le visioni che si sono susseguite nella storia, per poi compiere il nostro “salto in avanti”. Seguendo questa struttura, il saggio di Roberto Paura è diviso in tre parti.
La prima, “Occuparsi del futuro”, ricostruisce la storia di questo campo di studi, partendo dalla futurologia positivista (esemplificata dalla psicostoria di Isaac Asimov, dove metodi matematici e statistici possono prevedere, sia pure solo a livello probabilistico, l'evoluzione di una società) per giungere ai confini dei future studies, dove il futuro diventa “futuri”, e le possibilità iniziano a moltiplicarsi. La sezione “Preoccuparsi del futuro” analizza invece ostacoli e successi in cui sono incorsi i future studies nel corso degli anni (dalle previsioni del Club di Roma, di cui quest’anno si festeggiano i 50 anni, per arrivare, ad esempio, all’accelerazionismo o al presentismo contemporanei). La terza e ultima sezione, “Occupare il futuro”, intende “abbandonare il paradigma della previsione, sostituendolo con quello dell’anticipazione”, per approdare a un’idea di futuro in cui i soggetti possano giocare un ruolo attivo.
Nuovi futuri possibili
Un passaggio fondamentale di questo cammino verso nuovi futuri è contenuto nel libro L’arte della congettura, di Bertrand de Jouvenel. In questo testo, pubblicato nel 1964, il filosofo francese espone la sua cruciale visione sugli studi del futuro, il cui epicentro risiede nella differenza tra facta e futura, “con la quale superava definitivamente la concezione di Wells secondo cui il futuro sarebbe conoscibile tanto quanto il passato”, commenta Paura. Secondo de Jouvenel, infatti, il futuro possiede una natura intrinseca differente dal passato. Mentre quest’ultimo è territorio dei facta, fatti già compiuti, perlopiù conoscibili (l’unico limite sono le lacune nella nostra conoscenza o il passato molto remoto) ma su cui non possiamo intervenire, l’avvenire è “dominio dei futura”, eventi che non sono ancora accaduti ed esistono solo in forma di possibilità. “Perciò, in quanto soggetto agente, l’uomo ha di fronte l’avvenire come campo di libertà e di potenza, e, in quanto soggetto conoscente, come campo di incertezza”, sottolinea de Jouvenel. Inoltre, aggiunge sempre il filosofo, il futuro non può essere basato sul calcolo delle probabilità in termini matematici, perché, come spiega Paura, “i futuri possibili sono fondamentalmente il frutto di un processo immaginativo riguardo al futuro, non estrapolativo”.
Questo processo apre il ventaglio delle possibilità, decolonizzando il futuro dalla singola, massimo duplice, idea che ne abbiamo, estendo le strade dal futuro probabile a quello plausibile a quello preferibile. Già lo scrittore, giornalista e storico austriaco Robert Jungk sottolineava l’importanza di questa visione, ricordando che “attraverso le speranze e aspirazioni dei gruppi sociali è possibile scardinare il processo di colonizzazione del futuro da parte del presente”. Il futuro desiderabile, in questo senso, viene veicolato da narrazioni, immagini e utopie che, generate nel presente, dipingono futuri diversi.
Secondo l’antropologo Marc Augé, “presente egemonico” e colonizzazione del futuro sono strettamente legati alla “cosmotecnologia”, ovvero, con le parole di Paura, “l’insieme di idee che definiscono la nostra comprensione del mondo (cosmologia) attraverso la tecnologia”. Il frutto di questa visione è un presente egemonico in grado di proporre un’idea di futuro esclusivamente in chiave di innovazione tecnologica, privandolo della capacità critica necessaria a mettere in discussione i rapporti di potere esistenti.
Come accade per il futuro terrestre, secondo Roberto Paura, anche il futuro spaziale è stato “occupato”. Principalmente, per tre ragioni:
- “Il turismo spaziale continuerà a lungo a essere un mercato per miliardari e di conseguenza saranno questi ultimi a definire nei prossimi decenni l’utilizzo commerciale dello spazio”;
- “Lo spazio reifica i progetti di dominio dei tecno-utopisti, che sognano di trasferirvi il loro approccio libertario, monopolistico, espansionistico e di sfruttamento a scapito delle democrazie mondiali”;
- “L’immaginario spaziale, dalle origini a oggi, continua a essere occupato da visioni legate all’espansionismo coloniale”.
Anche questo territorio, dunque, ha bisogno di essere riconquistato, proponendo “un orizzonte di aspirazioni, sogni, speranze, che anziché essere trasformato a nostra immagine e somiglianza ci invita a trasformare innanzitutto noi stessi”.
Il punto, dunque, è “de-silicolonizzare il mondo” e abbracciare una visione di futuro che non veda nella società algoritmica l’unica realtà possibile. Per farlo, esistono varie strade. Come suggeriva la filosofa francese Simone Weil, intanto è importante “sostituire le cose che sentiamo con cose che comprendiamo”. Per farlo, è necessario introdurre un nuovo modo di pensare la scienza, “a cui restituire il suo ruolo di strumento per acquisire verità anziché utilità”, scrive Paura, che aggiunge: “l’operaio che impiega la macchina deve essere in grado di comprenderne il funzionamento e le leggi che la regolano”, così come “l’utente che userà una piattaforma digitale dovrà sempre essere consapevole del funzionamento degli algoritmi che la rendono possibile”. Questo è un modo per sottrarre la tecnica al controllo dei tecnocrati, facendone non più “paradigma di oppressione e alienazione” ma “autentico mezzo di progressione ed emancipazione umana”, inserendola in un processo di continuo miglioramento promosso dai suoi stessi utilizzatori.
Altra strada da percorrere, tracciata dal sociologo Alvin Toffler nel suo celebre Choc del futuro (1970) è promuovere una “democrazia anticipatrice”, in cui l’opinione pubblica sia coinvolta in un “ininterrotto plebiscito sul futuro”. L’esempio più celebre è la Commissione parlamentare per il futuro del parlamento finlandese, un organo, istituito nel 1993 ed eletto dai cittadini, capace di orientare le scelte di governo verso piani di lungo termine in modo democratico.
Questo concetto è strettamente legato a un nuovo patto di solidarietà intergenerazionale, “che tenga conto delle aspirazioni di tutti, tanto di coloro che oggi sono prossimi a lasciare questo mondo quanto di coloro che al mondo non sono ancora venuti”, scrive Paura. Un’idea che può essere ben espressa nel concetto di transgenerazionalità, sia futura (la solidarietà tra generazioni presenti e venture) che presente, focalizzata sul legame tra generazioni esistenti.
Queste e altre sono le strade da percorrere per generare nuove visioni di futuro, di cui il saggio di Roberto Paura è autentica fucina, e che servono a ricordarci una volta ancora che l’avvenire, per sua stessa natura, è ancora tutto da scrivere.