Flessibilità? Sì, ma per tutti
Quando il futuro è incerto allenarsi a essere flessibili può essere una buona strategia di sopravvivenza. Purché non significhi lasciare mano libera ai datori di lavoro. 23/03/21
di Annamaria Vicini
Da anni era diventato un mantra, soprattutto quando si parlava di occupazione giovanile: “se vuoi trovare lavoro, devi essere flessibile”.
Flessibilità, la soft skill più amata dai datori di lavoro ma anche dai giovani, soprattutto se di sesso femminile perché vista come la possibilità di conciliare lavoro e vita privata, cioè una famiglia, cioè figli.
Un’abilità che le donne possiedono non in natura ma per necessità. Perché consente di svolgere più mansioni, spesso anche in contemporanea: addormentare il figlio mentre si sta cucinando, portarlo a basket o a calcio tra un impegno di lavoro e l’altro, e così via imparando.
Un auto-addestramento che spesso, anche giustamente, viene vissuto dalle donne come l’avere una marcia in più, una specie di superpotere che consente di avere dalla vita realizzazione personale e affettività, soddisfazioni lavorative e coniugali oltre che materne.
Poi arrivò la pandemia e con essa lo smartworking, in realtà così impropriamente definito perché si tratta per lo più di homeworking o lavoro da casa. E si cominciò a capire che lavoro di produzione e lavoro di riproduzione non sempre sono conciliabili se svolti contemporaneamente.
La Dad, acronimo con cui ormai ci siamo abituati a indicare la scuola non in presenza, peggiorò ulteriormente la situazione, mostrando anche che spesso, pur essendo in casa entrambi i genitori, è la madre quella cui toccano i salti mortali tra un ripristino della connessione per il figlio in modalità a distanza e una call aziendale.
Ben prima della pandemia ci si era resi conto che la flessibilità lavorativa, in anni passati identificata con varie forme di lavoro part-time e successivamente con gli istituti previsti dalla riforma Biagi, poteva rivelarsi una trappola per il genere femminile.
Scriveva Giovanna Artieri sul sito di Italianieuropei il 13 maggio 2008:
“Le nuove opportunità di occupazione flessibile stanno, infatti, producendo tra le donne anche un aumento dei rischi di una marginalizzazione nel lavoro, in seguito alla crescita di una partecipazione lavorativa discontinua e precaria, caratterizzata da redditi parziali e secondari. Una condizione che rafforza di fatto la dipendenza dal partner, in termini di garanzie di reddito e di copertura assicurativa, e impedisce il superamento del modello basato sul maschio lavoratore capofamiglia (strong male breadwinner) e sulla asimmetria dei ruoli nella distribuzione del lavoro tra i generi.”
La grave crisi economica esplosa in quell’anno rendeva però accettabili anche lavori precari e a bassa qualificazione, pur di evitare lo spauracchio della disoccupazione.
Intendiamoci, la flessibilità di orario e sede lavorativi non è un male in sé, anzi. Orari troppo rigidi e spostamenti su lunghe percorrenze, soprattutto in zone ad alta mobilità e pessimi servizi di trasporto pubblico, abbassano notevolmente la qualità della vita.
La pandemia poi ha richiesto dosi di flessibilità in quantità notevole, con i continui cambi di colore e relative disposizioni governative in mutazione da un giorno all’altro.
Quando il futuro è incerto allenarsi a essere flessibili può essere una buona strategia di sopravvivenza.
Purché non significhi però lasciare mano libera ai datori di lavoro e zero tutele per le lavoratrici e i lavoratori.
Scrive Silvia Ventura, avvocata esperta in Diritto del lavoro, che collabora con l’associazione Comma2-Lavoro è dignità.
“Indubbiamente ci saranno molte situazioni in cui l’utilizzo di modelli di lavoro flessibile si traduce in un effettivo miglioramento delle condizioni di vita/lavoro delle persone e delle donne in particolare. È però altrettanto indubbio che la finalità primaria dei modelli organizzativi flessibili sia quella di favorire un mercato più competitivo, con meno costi, meno vincoli, quindi maggiormente capace di affrontare la concorrenza con il resto del mondo. Ciò significa che i lavoratori e le lavoratrici soprattutto, devono essere messi nelle condizioni di contrapporre i propri interessi e necessità, che – contrariamente a ciò che si propone nel discorso pubblico - non vengono soddisfatti automaticamente dal proposto modello flessibile. È quindi necessario interrogarsi su quali dovrebbero o potrebbero essere gli strumenti correttivi di un modello che, se lasciato alla contrattazione individuale, rischia di appesantire maggiormente la condizione lavorativa soprattutto delle donne. Lo smartworking non gode – almeno sino ad oggi – di una paternità condivisa a livello sovranazionale. Esso, infatti, non costituisce oggetto di convenzioni internazionali, né di normativa europea.”
E purché, è bene sottolinearlo ancora, non sia una capacità di adattamento richiesta solo al genere femminile, ma un’abilità pretesa e valorizzata anche per il genere maschile.
di Annamaria Vicini, giornalista pubblicista, ha collaborato con alcune delle maggiori testate nazionali e cura un blog di successo. Ha fondato l’associazione CoderMerate, che promuove l’insegnamento del coding e della robotica educativa a bambini e adolescenti. Ha pubblicato il romanzo Non fare il male, e l’eBook Abbracciare il nuovo mondo. Le startup cooperative.