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Hollywood insegna la creatività al tempo del Covid

Smart working e lavoro culturale. Gli ostacoli non sono nei mezzi, ma nelle possibilità che ogni occupazione offre all'individuo.

di Luca De Biase

Non c’è azienda che non si sia trovata a fronteggiare la pandemia ricorrendo all’utilizzo massiccio delle piattaforme di collaborazione digitale e lo smart working. E non c’è azienda che non si domandi in che modo questa esperienza segnerà il futuro del modo di lavorare. Benché queste piattaforme fossero disponibili anche prima, la necessità di lavorare da casa dovuta alla clausura generalizzata che molti Stati hanno deciso di chiedere ai loro cittadini per fronteggiare la crisi ospedaliera generata dall’epidemia ha creato le condizioni di un enorme esperimento sociale. I risultati sono contrastanti. In generale, i giudizi sono positivi per molti lavori relativamente routinari. Ma per tutto ciò che è creatività, i giudizi sono più critici. La creatività, si direbbe, presuppone collaborazione, scambio di idee e informazioni, reciproco aiuto a unire puntini, fare domande scomode, immaginazione e feedback immediato. Ma un caso aiuta a chiarire che c’è dell’altro.

 

A Hollywood si trovano alcuni dei gruppi di persone più focalizzati sulla creatività. E Fast Company ha svolto una serie di interviste per scoprire come gli Studios hanno cercato di proseguire il lavoro creativo pur essendo prevalentemente in clausura. Ebbene, si è scoperto che i problemi grossi si manifestavano al momento di girare i film: una fabbrica di immagini che non possa mettere sul set i suoi protagonisti senza una quantità di precauzioni devastante, si trova evidentemente in difficoltà. Ma per tutte le fasi della preparazione creativa che riguardano la definizione dei soggetti, la discussione sugli argomenti, la strutturazione delle storie, e così via, le piattaforme di collaborazione a distanza hanno funzionato molto bene, a quanto pare. Eppure, si trattava di riunioni che in assenza di epidemia si sarebbero dovute svolgere dal vivo per fare emergere tutte le forme di comunicazione non verbale che serviva all’intensità della collaborazione. Se quella forma di collaborazione ha ugualmente funzionato, evidentemente, è perché in quei gruppi creativi c’era una motivazione superiore al normale: una motivazione che teneva su l’energia di tutti i creativi che collaboravano alla preparazione dei film e che faceva superare le difficoltà pratiche con un surplus di attenzione e partecipazione.

 

La mancanza di questa motivazione è il problema di una grande maggioranza delle aziende e dei posti di lavoro, secondo un ormai classico sondaggio Gallup (quella ricerca del 2013 diceva che nel mondo i lavoratori impegnati davvero nel loro lavoro erano solo il 13%, gli altri si dividevano tra non impegnati e profondamente demotivati). E non c’è dubbio che con poca motivazione anche il lavoro a distanza diventa difficile. Le componenti della motivazione, probabilmente, sono quelle che riguardano la soddisfazione economica, la possibilità di apprendere e migliorarsi continuamente, la consapevolezza di partecipare a un grande progetto aziendale. A questi ultimi aspetti e alla comunicazione che serve per alimentarli si dedica forse un po’ meno tempo del necessario. Ma la qualità del lavoro e la produttività del futuro, specialmente se molte attività continueranno a distanza, dipenderà molto da quanto le imprese e i manager che le conducono sapranno affrontare costruttivamente queste questioni.

 

di Luca De Biase, giornalista

giovedì 12 novembre 2020