Le sfide dell’economia circolare
Dalle rilevazioni in materia spesso non emergono le reali difficoltà da superare per una situazione di massimo impatto.
di Renato Chahinian
Dopo vari articoli dedicati principalmente alla convenienza economica e finanziaria dello sviluppo sostenibile, uno dei temi più controversi, ma ora abbastanza chiarito ed affermato, questa volta desidero affrontare un aspetto generale della transizione che ancora non è ben inquadrato dall’opinione pubblica nei suoi fini e nei mezzi per raggiungerlo, sebbene sia già estesamente praticato nelle sue forme più consuete. Si tratta dell’economia circolare e dei suoi meccanismi basilari di funzionamento.
L’economia circolare
Sebbene non esplicitamente indicata nel titolo di alcun Obiettivo dell’Agenda 2030, l’economia circolare viene trattata soltanto dai Target 12.3, 12.4 e 12.5 e cioè nell’ambito del Goal 12 Consumo e produzione responsabili (di contenuto molto più ampio) e con il solo fine di ridurre gli sprechi alimentari, i rifiuti ed i loro effetti inquinanti. Inoltre, si trova un breve cenno pure nel Goal 11 Città e comunità sostenibili al Target 11.6, che, nella riduzione dell’impatto ambientale delle città, cita pure la gestione dei rifiuti.
Da tali riferimenti sembrerebbe che principalmente serva una efficiente ed efficace gestione dei rifiuti e in effetti la percezione generale è che sia sufficiente una simile azione per soddisfare i principi dell’economia circolare. In realtà, si parte certamente dalla gestione dei rifiuti, ma si deve arrivare al reimpiego di tutte le materie prime e dei materiali intermedi, già utilizzati con il consumo e presenti nei rifiuti medesimi, per realizzare nuovi prodotti. Quindi, l’obiettivo teorico del rifiuto zero afferma implicitamente che tutto deve essere reimpiegato. D’altro canto, se “nulla si crea e nulla si distrugge”, tanto vale che le risorse originarie utilizzate si trasformino ancora in altre risorse sempre utili all’uomo.

Riuso e riciclo: quattro sfide che l’Europa (e non solo) dovrà affrontare nei prossimi anni
Il regolamento sugli imballaggi ha riacceso il dibattito sull’economia circolare. Le soluzioni tecnologiche possono aiutare ad affrontare le sfide del settore, dallo smaltimento delle batterie elettriche agli impatti della moda, fino alla trasformazione dei rifiuti elettronici.
Pertanto l’economia circolare è un modello economico che, in antitesi al modello lineare (oggi ancora prevalente), intende ridurre al minimo l’uso di risorse con le cosiddette 4 R (riutilizzo, riparazione, rigenerazione e riciclo) dei beni esistenti. Tutto ciò è indispensabile per la stessa sopravvivenza del nostro pianeta, in quanto prioritariamente:
- le risorse originarie offerte naturalmente dalla terra e dai mari (minerali, vegetali ed animali) sono già insufficienti per le nostre esigenze di consumo, soprattutto in relazione al continuo aumento della popolazione e del suo tenore di vita. È nota l’anticipazione progressiva dell’overshoot day ( il cosiddetto “giorno del sorpasso”), in cui annualmente esauriamo le risorse esistenti rigenerabili;
- la continua produzione di nuovi prodotti, per lo più ottenuta con fonti energetiche fossili, alimenta smisuratamente le emissioni di gas serra con tutti i conseguenti impatti negativi per il clima e l’ambiente;
- l’uso di minori materiali e più brevi processi produttivi per i nuovi prodotti determinano invece un costo inferiore degli stessi, con il duplice vantaggio di un maggior utile per le imprese e/o di poter abbassare i prezzi di mercato, permettendo così un maggior accesso al consumo da parte delle categorie economiche più deboli;
- si riducono drasticamente i problemi dello smaltimento dei rifiuti, che è molto impegnativo se deve essere effettuato in condizioni di assoluta salubrità.
Ma perché il sistema economico attuale si trasformi in un sistema circolare efficace come ora descritto, occorre che dalla raccolta differenziata e dall’evitato smaltimento dei rifiuti si arrivi con i medesimi all’effettiva produzione di materie prime seconde, le quali siano in grado di sostituire le materie prime vergini nella produzione di nuovi prodotti. Proprio questa operazione è una tra le più sfidanti del sistema produttivo attuale, da troppo tempo abituato ai processi ormai ampiamente collaudati dell’economia lineare, ma che ora richiedono una revisione radicale e molto particolareggiata settorialmente.
L’attuale situazione del sistema
Se guardiamo alla fase iniziale dell’economia circolare (raccolta differenziata dei rifiuti), l’Italia, diversamente da quanto avviene per gli altri obiettivi ambientali, è leader indiscussa in Europa (e probabilmente nel mondo). Infatti, secondo le ultime statistiche europee, siamo risultati primi nel 2024 con un tasso di riciclo sui rifiuti totali (urbani, speciali ed inerti) di ben l’85,6 %, quota elevata rispetto ad una media europea molto inferiore (48,8%) e pure nei confronti dei secondi (Belgio e Slovacchia) con un tasso del 68,3%. Tale posizionamento è sempre stato favorevole per l’Italia, ma il dato è ancor più significativo se si tiene conto che negli ultimi anni la quantità di rifiuti è aumentata e quindi il riciclo è stato ben superiore. Inoltre, si ha notizia che le pratiche di economia circolare si vanno sempre più diffondendo tra le imprese, soprattutto per il recupero di vari materiali (lungo i processi produttivi) che prima venivano smaltiti tra i rifiuti.
Questa situazione apparentemente eccellente non va sopravalutata. Anzi, non è affatto sufficiente a esprimere una soddisfacente condizione dell’economia circolare. Il dato sfavorevole e decisivo è quello dell’utilizzo circolare della materia, ossia la percentuale di materie prime seconde sul totale di tutti i materiali utilizzati nella produzione, che è pari per l’Italia soltanto al 20,8% (ed intorno al 12% a livello Ue). Anche in questo caso siamo i primi in Europa, ma tali dati preoccupano per l’insufficienza di circolarità nel nostro Paese, ed ancor più a livello europeo e mondiale (ove alcune stime di Deloitte Global arrivano appena al 6,9%).
Infatti, anche se togliamo dal riciclo complessivo rilevato le quote relative a quei rifiuti (generalmente organici) che vengono riciclati in energia attraverso l’incenerimento o il compostaggio e a quelli di riempimento dei terreni a fini di bonifica, rimane sempre disponibile per il riciclaggio in altri prodotti o materiali una quota intorno al 40% in Europa ed al 60% in Italia. Si tratta di un potenziale enorme che finora viene concretamente realizzato soltanto per circa un terzo e quindi ricorrendo alla produzione di nuove materie per circa due terzi di quanto potrebbe invece essere effettivamente prodotto con le vecchie, senza contare ovviamente il fatto che gli attuali rifiuti possono essere ulteriormente ridotti con ulteriori utilizzi potenziali. In altri termini, alle condizioni attuali di recupero in Italia potremmo avere maggiori materiali per realizzare annualmente il 40% della nuova produzione totale (ed in Europa il 30%).
I problemi della nuova produzione circolare
A questo punto, la nuova produzione ottenuta annualmente con i materiali disponibili per il riciclo dovrebbe teoricamente passare dal 20% al 60% in Italia e dal 12% al 40% in Europa. Ciò non avviene per una serie numerosa di problemi, molto differenti tra loro a seconda dei settori e dei particolari processi produttivi.
Innanzi tutto, esistono limiti tecnici obiettivi per cui nelle lavorazioni a ritroso (separazione delle singole sostanze dai prodotti finiti usati) non sempre l’operazione è agevole e soprattutto si possono perdere quantità proporzionalmente significative di materia, quando la consistenza del bene è complessa. Ma, oltre a tali difficoltà, la causa principale di deterioramenti o perdite è data dalle ancora inadeguate conoscenze nei processi di lavorazione standardizzati di molte filiere di riciclo (dal prodotto finito alla materia prima). In generale, raramente l’impresa produttrice di un bene è adeguata anche per disfarlo e pertanto occorrono nuove imprese con una specializzazione inversa, ancora spesso non abbastanza collaudata e diversa da quella lineare.
Allora è necessaria nuova ricerca operativa ed in molti casi servono originali innovazioni che siano facilmente fattibili e replicabili su larga scala. Spesso le conoscenze teoriche ed i brevetti già esistono in materia, ma non sono applicati per il noto scollamento tra ricerca od innovazione e sperimentazioni pratiche diffuse. Il problema generale del ritardo tra scienza e produzione si verifica in maniera ancor più accentuata in questo campo, ove soltanto da poco tempo si è ravvisata l’esigenza di investire massicciamente.
Ma, oltre alla fattibilità tecnica, occorre quella economica. Non potremmo obbligare tutti ad accettare prodotti riciclati che costino molto più di quelli vergini. In realtà, ora succede proprio così, in quanto il mercato si è adattato a questa difficoltà di produzione, tale da causare l’aggravio di maggiori costi per ottenere un prodotto sostenibile, ma nel caso del riciclo ciò non dovrebbe avvenire perché la materia prima già esistente non può logicamente costare più di quella nuova. In linea generale, una materia usata, tra l’altro ceduta gratuitamente dal consumatore al produttore, non può avere un valore maggiore di una materia nuova acquistata da quest’ultimo sul mercato. Una simile situazione può verificarsi soltanto se il processo di separazione della materia prima dal prodotto usato è più dispendioso del processo di acquisizione della nuova materia prima: eventualità reale, ma limitata soltanto a lavorazioni molto complesse nei prodotti finiti.
Per questo, bisogna sperimentare di più ed ampliare il sistema produttivo con le nuove filiere per il riciclo.
Le soluzioni migliorative
In funzione migliorativa dell’attuale sistema esistente, occorre partire innanzi tutto dagli interventi più vicini al prodotto finito. Pertanto, ancor prima del riciclo, si deve puntare al riuso dello stesso prodotto, che si esplica facendolo durare di più e rendendolo idoneo ad un maggior numero di usi. In questo caso, il bene già esistente viene utilizzato molte più volte senza ricorrere a uno nuovo e quindi risparmiando sulla nuova materia prima e su tutti i costi di produzione connessi. Ciò vale per tutti i beni durevoli (per lo più: macchinari ed impianti, mezzi di trasporto, elettrodomestici, articoli per la casa e la persona, ecc.) e per quelli monouso, ma riutilizzabili (imballaggi, contenitori “usa e getta”, ecc.).
Ovviamente, il maggior uso dipende anche dalle abitudini del consumatore, ma una forte responsabilità spetta proprio al produttore, che invece è solito incoraggiare l’eliminazione del bene usato per realizzare nuove vendite, quando poi non si pratica l’obsolescenza programmata, che rende inagibile lo stesso prodotto dopo una certa quantità di utilizzi. In realtà, una politica incentivante verso il consumismo (ancora attuale) rischia non soltanto il più veloce esaurimento delle risorse e l’incipiente crisi climatica, ma anche le ricorrenti crisi settoriali, quando il consumatore, per vari motivi, assume un comportamento più prudente nell’acquisto (come attualmente avviene nella produzione automobilistica). Un atteggiamento più lungimirante del produttore non gli provocherebbe un danno a lungo andare, perché si eviterebbero tutti i predetti rischi e comunque un prodotto che dura di più può spuntare un prezzo maggiore sul mercato. Inoltre, anche quando il consumatore è deciso a rinnovare il bene in suo possesso, si possono creare nuovi mercati dell’usato (che ora sono limitati a pochi generi di prodotti), oltre alla distribuzione sociale agli indigenti per ridurre la dilagante povertà, ancora eccessiva.
Per gli imballaggi, indipendentemente dai vari materiali impiegati, è pure indispensabile un riutilizzo totalitario, anche perché i relativi processi di riciclo sono più collaudati e meno onerosi, mentre le materie prime risparmiate (plastica, vetro, carta o altro) sono molto energivore di sostanze fossili e per la plastica esiste pure l’enorme problema dello smaltimento biodegradabile. Anche se molto è stato fatto al riguardo, mancano iniziative su larga scala per il riuso, come, ad esempio, quella proposta dall’ASviS, AISEC e campagna “A buon rendere” sul deposito cauzionale.
Infine, il riciclo dei materiali nei prodotti più complessi, come detto, è da analizzare caso per caso, ma da attuare comunque, data l’importanza della circolarità per la nostra disponibilità futura di beni. Più spingeremo su questo fronte e più avremo assicurata la continuità del nostro benessere.
Ciò è particolarmente vero ed essenziale proprio in questi tempi, quando le incertezze economiche e geopolitiche planetarie non solo mettono a repentaglio le già scarse risorse naturali esistenti, senza prevedere alcuna cura per queste (ma anzi alimentandone la distruzione con guerre e politiche ambientali insostenibili), ma anche tendono a monopolizzare molte risorse strategiche, per poi distribuirle secondo preferenze e condizioni di tornaconto. In Italia (e pure in Europa) siamo carenti di materie prime, di materiali critici e di terre rare, indispensabili per lo sviluppo delle nostre produzioni più qualificate (digitale, intelligenza artificiale, impianti tecnologici e di energie rinnovabili).
Aver bisogno di ciò in misura crescente, come effettivamente avviene ed avverrà pure in seguito, significa dipendere sempre più dal gradimento di persone e popoli che potrebbero pure negarci l’accesso a tali beni, a loro piacimento. In un’economia marcatamente circolare, invece, il fabbisogno di nuove materie viene molto ridimensionato ed è soprattutto legato al grado di sviluppo delle produzioni aggiuntive, mentre i consumi di sussistenza sarebbero per lo più coperti dal riciclo dell’esistente. Una simile situazione, ovviamente raggiunta dopo l’impegnativo percorso sopra indicato, ci renderebbe quasi completamente indipendenti dalle forniture esterne.
Se poi consideriamo che il nostro Paese gode delle migliori disponibilità naturali di sole e di mare e che queste gratuite risorse possono essere sfruttate al meglio per la produzione di energie rinnovabili, possiamo concludere che dall’impatto combinato della politica energetica con quella dell’economia circolare (se virtuosamente potenziate e coordinate) potremmo inaspettatamente divenire il Paese più autosufficiente al mondo.
Copertina: 123Rf