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Sviluppo sostenibile: chi guadagna e chi perde

Se alla fine potremo guadagnare tutti, durante la transizione i sacrifici necessari possono presentarsi disuguali (anche se sopportabili).

di Renato Chahinian

mercoledì 27 novembre 2024
Tempo di lettura: min

Il titolo è volutamente provocatorio in un clima di incertezza e disorientamento quale l’attuale.

In questo periodo, infatti, da un lato prevalgono tendenze decisamente contrarie allo sviluppo sostenibile: guerre, schieramenti geo-politici contrapposti, disinteresse per le sorti dei più poveri, comportamenti e politiche agnostiche o addirittura incredule nei confronti del cambiamento climatico. D’altro lato, anche i fautori della sostenibilità temono i sacrifici necessari da compiere nel periodo della transizione e quindi sono molto cauti nell’intraprendere nuove azioni sostenibili o le programmano in tempi sempre più dilazionati.

Fortunatamente (e, in parte, inaspettatamente) si sono formate dal basso (ma anche a livelli culturali ed economici medio – alti) tendenze a programmare la propria attività lavorativa tenendo conto, almeno parzialmente, dei fattori Esg. Pertanto il sistema produttivo, artefice essenziale per  uno sviluppo stabile e duraturo, si sta sempre più adeguando a strategie di sostenibilità.

In un simile contesto può essere utile valutare i benefici finali derivanti dallo sviluppo sostenibile per la generalità dei soggetti, sia a livello individuale che di organizzazione, ma soprattutto è imprescindibile controllare la fattibilità dei sacrifici nel periodo della transizione necessaria per raggiungere i suddetti benefici.

I benefici dello sviluppo sostenibile

I benefici che si prospettano in presenza di uno sviluppo sostenibile completo (raggiungimento di tutti i 17 Obiettivi dell’Agenda 2030, con le ulteriori evoluzioni programmate per il 2050) sono innumerevoli e di portata eccezionale. Per sintetizzarli al massimo e citando soltanto quelli decisivi per il benessere collettivo ed individuale di tutti noi, possiamo indicare:

  • la piena occupazione dignitosa, che permette l’annullamento della povertà e di tutti i principali problemi sociali;
  • l’azzeramento delle emissioni di gas serra, che consente il riequilibrio climatico e quindi la protezione nostra e della biodiversità, con la progressiva riduzione di tutti i fenomeni avversi, ora sempre più frequenti e pericolosi;
  • l’adattamento ai mutamenti climatici già in atto, con adeguate opere per la protezione dalle calamità che non si potranno eliminare;
  • una gestione oculata delle risorse naturali, ma in grado di soddisfare tutti i fabbisogni della popolazione del pianeta.

Con l’attuazione di questi obiettivi generali possiamo affermare di avere raggiunto il benessere collettivo, ma anche il benessere individuale di tutti noi.

Tutti lavorano e nessuno è povero, quindi i conflitti sociali si riducono a limitati dettagli.

Tutti sono protetti dalle avversità naturali e quindi non ci sono più vittime, né danni su larga scala.

Tutti, pur con qualche rinuncia a consumi sconsiderati, godono dei beni e servizi che desiderano ora ed in futuro.

Soltanto una ristretta cerchia di persone, oggigiorno molto ricche e potenti, potrebbe avere qualcosa in meno di quello che ora possiede, ma in cambio pure costoro guadagnerebbero in termini di sicurezza da eventi sociali ed ambientali avversi. Tutti gli altri (e non solo i poveri) conseguirebbero vantaggi notevoli, sia sotto l’aspetto ambientale, che sociale, che economico, in quanto è stata dimostrata in precedenti articoli la convenienza anche economica degli investimenti sociali e di quelli ambientali, ma pure in altri interventi di ASviS e di FUTURANetwork si è confermata tale evidenza.

A questo punto, se le prospettive sostenibili sono tanto allettanti, risulta importante valutare i sacrifici per arrivare alla meta, cioè le azioni da compiere nel periodo della transizione.

I sacrifici della transizione

Sempre semplificando la questione, possiamo dire che i sacrifici si traducono in maggiori costi attuali per realizzare gli investimenti necessari allo sviluppo sostenibile ed in un maggiore impegno per programmare e poi attuare una strategia che porti effettivamente a tale sviluppo. Detti sacrifici, anche occupandoci soltanto delle imprese (tralasciando, cioè, altri tipi di organizzazioni), sono molto differenti tra le aziende, in relazione alle condizioni attuali di partenza, sia ai fini degli obiettivi sociali che di quelli economici.

Sotto il primo aspetto, il miglioramento delle azioni, nell’ambito specifico dell’attività d’impresa, passa attraverso un’occupazione dignitosa, da offrirsi non soltanto ai dipendenti, ma anche ai collaboratori autonomi. Mentre, per assicurare il lavoro dignitoso di tutta la supply chain, occorrono condizioni eque di contrattazione sia con i fornitori che con i clienti. Un’azienda che riesca a svolgere al meglio queste azioni può definirsi socialmente sostenibile. Naturalmente ciò comporta un sacrificio (di costi e di impegno) in misura più o meno elevata, a seconda che fino ad ora si sia adottato in pratica tale comportamento e che si sia formato un consenso collaborativo tra gli stakeholder.

In altre parole, un’impresa che già pratichi efficacemente tale prassi non ha da fare niente di più per definirsi socialmente responsabile (semmai potrà valutare qualche miglioramento, sempre possibile, e comunque è importante che comunichi chiaramente all’esterno tale sua eccellenza) ed attualmente sono sempre più numerose le aziende che si prodigano in tal senso. Ma purtroppo la situazione generale è predominata da unità che non hanno ancora iniziato un simile percorso e quindi sono proprio questi i soggetti cui incombono i maggiori sacrifici per la transizione.

Limitando l’analisi ai soli aspetti economici, si devono assicurare salari dignitosi (ossia non inferiori alle soglie di povertà definite nelle statistiche ufficiali dei diversi Paesi) a tutti i lavoratori coinvolti nella produzione dei beni e servizi offerti al mercato. Per far questo, si comprimono ovviamente i margini aziendali e quindi bisogna rinunciare al massimo profitto, accontentandosi così di un equo profitto a breve, che tuttavia alimenterà le condizioni per ottenere un massimo profitto a lunga scadenza attraverso il benessere comune di tutto il sistema.

Ma il problema si presenta più arduo in tante piccole unità che attualmente non hanno margini sufficienti nemmeno per conseguire l’equo profitto e che quindi sopravvivono soltanto mediante un pagamento non dignitoso dei propri dipendenti. In questi casi è essenziale un aiuto esterno soprattutto da parte degli Organi pubblici, ma tale supporto non deve essere meramente finanziario ed “a pioggia”, bensì dovrebbe coadiuvare il management aziendale in direzione di una gestione più efficiente ed efficace, mediante servizi reali di informazione, formazione e consulenza (in realtà, ogni attività produttiva può essere ristrutturata e/o riconvertita in un business più economico). In questo modo, anche attività economicamente precarie possono diventare autosufficienti e sopportare gli oneri della transizione per ottenere uno sviluppo migliore e sostenibile in futuro.

Passando all’aspetto ambientale, la transizione si presenta ancor più onerosa, in quanto gli investimenti necessari per migliorare un ambiente già degradato sono ancor più dispendiosi e l’emergenza climatica è molto urgente, altrimenti rischiamo l’irreversibilità del riscaldamento climatico. In questo campo, la maggior parte delle azioni dovrebbero essere portante avanti dal settore pubblico, per la generalità e le conseguenze globali degli interventi. Ma anche qui la responsabilità ambientale delle imprese è molto elevata per l’insostenibilità attuale dei processi produttivi, molto più diffusa di quella sociale.

Si tratta, per lo più, di investimenti volti a ridurre i consumi energetici ed a sostituire le fonti energetiche fossili con quelle rinnovabili per quanto riguarda:

  • gli edifici produttivi dell’azienda;
  • i mezzi di trasporto occorrenti per l’attività;
  • i processi produttivi aziendali.

Ovviamente, tali azioni vanno estese anche lungo la filiera produttiva a monte ed a valle, concordando gli interventi con gli stakeholder esterni, in modo che si arrivi all’offerta di beni e di servizi finali ad emissioni sempre più ridotte, sino ad azzerarle auspicabilmente entro il 2050.

La portata di tali interventi non deve spaventare eccessivamente, in quanto gli impegni vanno frazionati tra tutti i soggetti coinvolti e soprattutto per il fatto che lo spazio temporale degli investimenti è di ben 26 anni. Ciò significa che:

  • il fabbisogno finanziario totale può essere ripartito in step progressivi di più modesto importo;
  • i singoli investimenti vanno diluiti nel tempo, facendo ricorso sia a capitale di rischio (degli investitori od in autofinanziamento), sia a capitale di credito (anche a lungo termine con rate di rimborso molto dilazionate);
  • gli stessi investimenti, proprio per la loro durata, possono essere ammortizzati con quote annuali modeste e quindi coperte con i primi “ritorni” economici derivanti dai minori costi energetici e dai maggiori ricavi delle produzioni sostenibili.

Allora, possiamo affermare pure in questo ambito che gli oneri della transizione sono sopportabili e che prevedono una riduzione dei profitti ad equità nel breve termine, per godere poi di una loro massimizzazione a lunga scadenza. Anche qui, ovviamente, le piccole imprese marginali avranno bisogno di qualche aiuto, ma sempre in termini di supporti reali alla gestione.

Ma, nel contesto assai diversificato di tutti i settori produttivi, vi sono comunque imprese che hanno problemi elevatissimi, se non insormontabili: si tratta delle imprese molto energivore (produzioni di acciaio, di alluminio ed altri minerali, cementifici, cartiere, ecc.) e di quelle con attività esclusivamente legata ai combustibili fossili (carbone, petrolio e gas), di cui si parla molto poco o per niente.

Le prime abbisognano di una radicale trasformazione, con soluzioni di ricerca e di innovazione molto avanzate: bisogna trovare energie rinnovabili sufficienti per il fabbisogno produttivo e/o riconvertire le produzioni in altre sostitutive (attraverso approfondite ricerche sui materiali), oppure ancora ricorrere all’abbattimento delle emissioni sovrabbondanti con altri mezzi (cattura e stoccaggio della CO2, forestazione aggiuntiva, ecc.).

Per il secondo tipo di imprese, invece, non ci sono alternative. Se dobbiamo azzerare le emissioni di gas serra, dobbiamo chiudere tutte le forniture di combustibili fossili, anche se oggi procurano i maggiori guadagni, proprio per la loro diffusione. Una tale drastica azione, se può essere dannosa (ma non traumatica) per chi conferisce capitale alle aziende in questione (troveranno pur sempre degli impieghi redditizi alternativi), risulta particolarmente disastrosa per il numeroso gruppo di lavoratori che operano lungo tutte le relative filiere produttive (dall’estrazione della materia prima alla distribuzione dei prodotti finiti). Se tutto il sistema opterà per le rinnovabili, gli addetti alle fossili rimarranno senza lavoro.

Come abbiamo rilevato, mancano ancora 26 anni perché ciò accada ed, anzi, date le attuali scarse tensioni verso la sostenibilità, è probabile che ci vorrà ancora molto più tempo nella realtà, ma è bene incominciare a pensarci, soprattutto a livello europeo ove la transizione viene portata avanti con maggiore convinzione.

Innanzi tutto, il termine molto protratto dell’evento permetterà alla maggior parte degli addetti attuali di andare nel frattempo in quiescenza, evitando così il problema. Per le classi più giovani, invece, sorge il disagio della riconversione delle competenze (non più legate al trattamento dei fossili, bensì adeguate a mansioni anche molto diverse), ma pure quello di trovare un nuovo lavoro, a meno che le imprese attuali del settore non riescano a convertire radicalmente le proprie produzioni. Tale eventualità, però, non potrà essere molto diffusa, in quanto le tecniche di estrazione e di lavorazione dei combustibili fossili sono molto specifiche, anche se qualche tentativo si sta già facendo da parte di alcune compagnie petrolifere e del gas, le quali hanno iniziato a sperimentare alcune tecnologie di trivellazione geotermica (che produrrebbero un’energia sostenibile), molto simili a quelle di estrazione dei fossili. Comunque, per molti addetti attuali di tutta la filiera coinvolta, la strada obbligata sarà quella di un nuovo lavoro e questo fatto dovrà essere guidato dai poteri pubblici, pena la creazione di una certa ondata di disoccupazione indotta dalla transizione. Ma, per converso, è da tener presente il concomitante sviluppo produttivo ed occupazionale nel settore delle energie rinnovabili.  

Riflessioni conclusive

In queste brevi note si sono indicate le principali azioni che bisognerebbe intraprendere affinché pure nella transizione nessuno perda e tutti abbiano da guadagnare, per arrivare allo sviluppo sostenibile che poi sarà ancor più prodigo di benessere.

Tuttavia, se vogliamo analizzare più approfonditamente lo scenario di questa transizione, dobbiamo tener conto di un’ulteriore presenza nel nostro contesto sociale: quella del consumatore. Noi tutti siamo contemporaneamente lavoratori (cioè produttori), ma anche cittadini e consumatori e pertanto ogni azione scorretta che intraprendiamo come produttori, ci danneggia come consumatori. Ciò vale sia in campo sociale ed ambientale, sia sotto l’aspetto economico e quindi, se i beni ed i servizi che produciamo devono essere socialmente ed ecologicamente desiderabili, anche il loro prezzo non deve essere eccessivo, per permettere a tutti di poterli acquistare.

Da quanto è stato esposto sin qui risulta già evidente che il consumatore medio, in un percorso virtuoso verso la sostenibilità, ha maggiore potere d’acquisto per il fatto che gode di un lavoro dignitoso anche remunerativamente, ma è importante che pure dal lato produttivo si cerchino soluzioni innovative ed efficienti per moderare il rapporto prezzo / qualità.

Uno degli interventi più opportuni a questo fine è dato proprio dall’economia circolare, la quale, oltre ad assicurare il minor consumo di materiali per la sopravvivenza del nostro pianeta (che abbiamo citato come uno dei fattori indispensabili per lo sviluppo sostenibile), consente pure un considerevole risparmio di costi e/o un incremento di ricavi, che, in parte, dovrebbe trasferirsi in un prezzo più accessibile al consumatore.     

* L'autore è consulente e ricercatore in Economia e finanza dello sviluppo sostenibile