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Strategie sostenibili a livello macroeconomico: quali benefici?

I maggiori vantaggi della sostenibilità si manifestano sul lungo termine anche a livello macroeconomico. I risvolti finanziari giovano a tutta la collettività.

di Renato Chahinian

venerdì 10 maggio 2024
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Nei precedenti articoli mi sono occupato prevalentemente di sviluppo sostenibile a livello aziendale, proprio nell’intento di dimostrare che le strategie di sostenibilità adottate dalle imprese non si limitano soltanto a creare vantaggi in campo sociale e ambientale, ma producono anche maggiori risultati economici a lunga scadenza.

Nell’ambito della descrizione degli impatti prodotti da investimenti sostenibili (sia sociali che ambientali), infatti, sono emersi vari effetti favorevoli che compaiono dopo un certo lasso di tempo dall’esecuzione dell’investimento medesimo e soprattutto riguardano vantaggi di natura macroeconomica, dai quali finiscono poi per trarne beneficio pure le stesse imprese attuatrici delle iniziative.

Ma se molti risultati economici aziendali derivano da positivi andamenti macroeconomici, a maggior ragione questi ultimi costituiscono gli elementi portanti dello sviluppo di una società nel suo complesso. Pertanto, ogni azione sostenibile (ovviamente in condizione di equilibrio economico) intrapresa da qualsiasi organizzazione (impresa, non profit, ente pubblico) finisce per produrre positivi risvolti economici esterni per l’intera collettività, oltre a quelli interni per la propria situazione aziendale.

A questo punto, però, giova notare che l’ente pubblico (ossia la Pubblica amministrazione in generale) non deve curare soltanto il proprio equilibrio economico, ma ha il compito fondamentale di accrescere anche l’economia della comunità che amministra. Allora, l’investimento sostenibile, da qualsiasi soggetto realizzato, diviene pure fonte di sviluppo macroeconomico e soddisfa l’interesse primario di tutta la PA, la quale può raggiungere tale fine (oltre a quello sociale e ambientale) proprio investendo direttamente in azioni sostenibili oppure promuovendo le stesse azioni (con incentivi vari) in altri soggetti privati.

Ciò significa che lo Stato e tutti gli altri enti pubblici (regioni, province, comuni e altri) dovrebbero attuare e promuovere lo sviluppo sostenibile nel proprio territorio di competenza, come mezzo essenziale anche per conseguire il benessere economico della comunità di riferimento. Ma questo è pure l’obiettivo principale degli enti pubblici sovranazionali (come, ad esempio, l’Unione europea e l’Onu) e, al riguardo, si può osservare che la stessa Ue ha adottato una propria strategia di crescita sostenibile, ossia di una crescita macroeconomica, ovviamente inserita in un quadro integrato con la sostenibilità ambientale e sociale (si veda più diffusamente il Quaderno dell’ASviS n. 10, redatto da Luigi Di Marco “Obiettivi di sviluppo sostenibile e politiche europee. Verso il patto sul futuro”).

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Strategie pubbliche per uno sviluppo sostenibile e macroeconomico

Sebbene la maggior parte delle strategie di sostenibilità, se ben programmate e gestite, possano portare a uno sviluppo macroeconomico nel lungo termine, ci soffermiamo qui brevemente soltanto su quelle pubbliche più efficaci, sia di natura sociale che ambientale.

Per quanto riguarda le politiche del primo aspetto, è stato affermato in precedenti articoli che il Goal otto dell’Agenda 2030 si presenta come il più produttivo e incisivo per la sostenibilità e quindi tutte le strategie volte alla piena occupazione dignitosa consentono pure una crescita economica e il massimo vantaggio per lo sviluppo sociale. Infatti, con il lavoro dignitoso si permette a tutti di vivere in maniera autosufficiente, debellando così i problemi sociali legati alla povertà, mentre il valore aggiunto derivante dalla piena occupazione[1] (ogni lavoro, se produttivo, determina un valore aggiunto maggiore del suo costo) produce una crescita economica massima.

Pertanto, ogni ente pubblico, nell’ambito delle sue competenze settoriali e territoriali, dovrebbe

tendere alla piena occupazione della popolazione:

  • assumendo il più possibile nei propri organici, per soddisfare pienamente tutti i fabbisogni di capitale umano in grado di ottimizzare l’efficacia e l’efficienza dell’attività istituzionale, anche dal punto di vista della sostenibilità;
  • incentivando le attività private vigilate o regolate a svilupparsi qualitativamente e/o quantitativamente ed a creare occasioni di lavoro dignitoso per nuovo personale qualificato.

Con riferimento alla dimensione ambientale, invece, la strategia prioritaria va alla mitigazione ed adattamento al cambiamento climatico (Goal 13), assieme alle connesse politiche energetiche (Goal 7) e idriche (Goal 6). Anche in questo campo, soddisfacendo globalmente le principali esigenze per il raggiungimento integrato dei tre obiettivi, si consegue un risultato finale massimo, sia per la sopravvivenza ambientale nel nostro pianeta, sia dal punto di vista macroeconomico (sempre a lunga scadenza). Infatti, il cambiamento climatico è causa della maggior parte anche di altri disagi ambientali ed è pure autore di tante avversità e catastrofi (sempre più numerose e crescenti), sia presenti che future, le quali comportano danni economici progressivamente maggiori, oltre a perdite e disagi umani e a costi energetici sempre più rilevanti. Con gli interventi di transizione per la neutralizzazione di tali effetti negativi, invece, i relativi investimenti iniziali, seppur ora molto rilevanti per ottenere un congruo risparmio energetico, per acquisire sufficienti impianti di energie rinnovabili e realizzare le opere pubbliche necessarie, verranno tutti coperti dalle ridotte spese future per l’approvvigionamento energetico e gli evitati disastri ambientali.

Naturalmente tutto ciò deve essere valutato con un approccio “oltre il Pil”, ma, tutto sommato, può andar bene anche l’utilizzo di questa grandezza, se, oltre a contabilizzare il Pil prodotto, sottraiamo da questo il Pil distrutto dalle calamità, nella stima dei possibili scenari futuri. Allora, con l’opzione della sostenibilità ambientale, otterremo un patrimonio macroeconomico notevolmente superiore a quello accumulato in assenza di tali politiche e ciò sarà evidente soprattutto alla fine dell’intera transizione ecologica. Inoltre, è pure da tener presente che le maggiori assunzioni di personale citate per conseguire gli obiettivi sociali dovrebbero servire anche per realizzare gli interventi ambientali, arrivando a concepire così sinergiche politiche socio-ambientali di sviluppo.

Comunque, anche qui la strategia dell’ente pubblico può riguardare sia l’investimento ambientale interno all’attività istituzionale, sia gli incentivi pubblici per agevolare gli interventi di terzi privati nelle medesime problematiche ecologiche.

A tutto quanto sinora esposto vanno pure aggiunti gli effetti indotti e moltiplicatori degli investimenti sostenibili, per il fatto che detti interventi sono addizionali a quelli attuati per la normale attività di ogni soggetto e quindi ciò determina maggiori attività produttive e maggiori consumi successivi rispetto a quelli usuali, aumentando ancor più la crescita macroeconomica di lungo periodo.

La sottovalutazione degli impatti favorevoli e la politica pubblica conservatrice

Nonostante la prospettiva dei benefici sommariamente descritti, si procede molto poco in questa direzione, sia nel nostro Paese che altrove. Soltanto l’Ue e qualche Paese del Nord Europa hanno intrapreso più decisamente un simile percorso, ma pure questi con alcune incertezze e recenti ripensamenti.

Non è qui il caso di approfondire le ragioni di tale comportamento, ragioni che vanno ricondotte per lo più ai seguenti tre motivi:

  • esiste ancora una scarsa convinzione che la sostenibilità sia conveniente anche economicamente;

  • nessun partito politico ha come fine prioritario lo sviluppo sostenibile (e quindi altri fini condizionano pure l’interesse su quest’ultimo);

  • nessun Paese ha ancora raggiunto tale sviluppo ed il relativo processo di transizione è quasi ovunque all’inizio (e pertanto non si sono ancora verificati i notevoli benefici che si manifesteranno gradualmente soprattutto verso la fine del percorso in esame).

In una tale situazione, tutti sono prudenti e temono l’impatto dei costi rilevanti dell’investimento iniziale, come pure l’esito incerto finale per le difficoltà in corso d’opera. Si aggiunga poi il fatto che la PA è generalmente impreparata a governare un processo così complesso, proprio perché il liberismo economico imperante dagli anni Ottanta del secolo scorso ha lasciato assumere per lo più al mercato le decisioni strategiche sulla direzione di sviluppo da intraprendere (direzione orientata, come noto, al massimo profitto).

Eppure i benefici che si prospettano con la sostenibilità sono enormi. Non si tratta soltanto di evitare il pericolo di una catastrofe climatica e di eliminare la povertà e le disuguaglianze eccessive, ma anche di stare tutti economicamente molto meglio. Proprio l’aspetto macroeconomico, che è quello cruciale di cui si preoccupano maggiormente tutti i governi, sarà quello che darà i maggiori benefici al termine del processo di transizione, evitando tutte le spese sociali e ambientali che si profilano all’orizzonte in assenza di una decisa politica di sostenibilità.

La realizzazione di studi (almeno per Paese, ma molto utili pure per Regioni) di impatto macroeconomico futuro dei più importanti interventi di sviluppo sostenibile (piena occupazione dignitosa, lotta al cambiamento climatico ed efficienza energetica e idrica), oggi rari e poco conosciuti, dovrebbe convincere l’opinione dominante e la classe politica a mutare propositi e a intraprendere un percorso più deciso. Proprio un simile indirizzo è stato proposto dal direttore scientifico dell’ASviS, Enrico Giovannini, nel suo recente rapporto sulle nuove regole fiscali europee.

Draghi, Letta e Giovannini su competitività e investimenti sociali per il futuro dell’Europa

I materiali disponibili sulle relazioni dei tre italiani all’High level conference di La Hulpe. Con un’idea comune: l’Unione europea può sopravvivere nella competizione globale solo con una maggiore integrazione.

 

Inoltre, bisogna pure tener presente un ulteriore effetto d’impatto favorevole specifico per la PA che effettua gli investimenti di sviluppo, effetto che invece non si verifica se la spesa pubblica è improduttiva o di tipo assistenziale. I redditi aggiuntivi generati dallo sviluppo sono tassati sia con imposte dirette (al momento della percezione), sia con imposte indirette (al momento del consumo). Tale entrata tributaria addizionale si verifica per i redditi di lavoro e per quelli di capitale ed è pari in media alla cosiddetta pressione fiscale, che oscilla annualmente sempre oltre il 40% del Pil. Da ciò si può dedurre che ogni nuova assunzione pubblica costa allo Stato meno del 60% e ogni nuovo investimento produttivo (anche privato) consentirà al medesimo il recupero del 40% dei redditi annuali esterni generati. In sintesi, se gli effetti macroeconomici sono discreti (non necessariamente ottimali) gli investimenti pubblici sostenibili vengono totalmente recuperati dalla PA medesima nell’arco di una decina d’anni e, se tali effetti permangono, si tramutano in veri e propri utili di bilancio pubblico.

Anche questo favorevole impatto non viene affatto rilevato nei conti pubblici, in quanto non si tengono contabilità per analisi costi-benefici e quindi succede frequentemente che dette maggiori entrate siano ridotte o annullate da minori entrate derivanti invece da spese improduttive o addirittura da fenomeni di evasione o elusione fiscale.

Politiche di bilancio pubblico per favorire lo sviluppo sostenibile

A questo punto, l’ulteriore problema soprattutto per il nostro Paese è quello della scarsità delle risorse di bilancio in rapporto ai notevoli investimenti necessari per attuare lo sviluppo sostenibile.

In altri termini, anche se il Governo attuale fosse completamente convinto della validità economica della transizione sostenibile, non ci sarebbero fondi sufficienti per intraprendere le adeguate strategie richieste.

Ciò è verissimo, ma si possono individuare soluzioni idonee al superamento di tale difficoltà, ovviamente con un grado elevato di competenza e impegno. In pratica, è decisiva una revisione della spesa pubblica (spending review) orientata esclusivamente a sostituire le spese inutili ed assistenziali non necessarie con quelle dedicate ai prioritari investimenti di sviluppo sostenibile.

Senza entrare nei dettagli, numerose ed elevate poste di bilancio riguardano sussidi e contributi a persone disoccupate che sono in grado di lavorare: tutti questi supporti vanno tramutati in oneri di lavoro per nuove assunzioni pubbliche e/o in contributi ad aziende che assumono e che investono nella transizione ecologica. In questo modo, si ottiene il triplo beneficio di:

  • diminuire la disoccupazione, incrementando il lavoro dignitoso (sviluppo sociale);

  • accelerare lo sviluppo ecologico (ambientale);

  • creare nuova crescita macroeconomica (che in buona parte alimenterà le entrate tributarie degli anni successivi).

A parità di bilancio, quindi, si possono fare spese che si tramuteranno in sviluppo ed entrate future.

Ma certamente questa azione, pur presentando vantaggi sorprendenti, non basterà ancora per coprire tutti gli investimenti necessari ad uno sviluppo sostenibile completo ipotizzato per il 2050.

Allora la maggiore spesa pubblica indispensabile può essere, se rigorosamente programmata e controllata, anche finanziata a debito. Nonostante l’eccessivo indebitamento pubblico italiano (attualmente generato per lo più da spese improduttive), si può andare oltre, se gli importi aggiuntivi hanno la garanzia (almeno fiduciaria) di una loro restituzione a medio – lungo termine e, proprio per tutti i benefici futuri qui prospettati, effettivamente i creditori dei finanziamenti destinati alle strategie in esame potrebbero essere rassicurati della restituzione del prestito.

Purtroppo il recente Patto di stabilità e crescita a livello europeo non prevede tale possibilità di sforamento e ciò dipende per lo più dal fatto che i Paesi intransigenti non sono abbastanza convinti del ritorno economico degli investimenti sostenibili, non rendendosi conto che essi stessi potrebbero meglio raggiungere gli obiettivi di sostenibilità con vincoli di bilancio più flessibili. Ma una strategia italiana impostata rigorosamente in questa direzione (e sufficientemente dimostrata con analisi di fattibilità economica) potrebbe affermare la validità e virtuosità di un’innovazione così dirompente. Dopotutto, lo sforamento avverrebbe soltanto per pochi anni, in quanto, subito dopo i primi impatti macroeconomici positivi, sia il debito che il disavanzo di bilancio comincerebbero a rientrare percentualmente, perché rapportati a un Pil in consistente aumento.                         

 

[1] Attualmente, anche se l’occupazione in Italia è in crescita, siamo ben lontani dalla piena occupazione, in quanto, nei più recenti dati disponibili di marzo, l’Istat ha registrato una disoccupazione del 7,2% pari a 1.855.000 persone. Se poi consideriamo tutti gli inattivi (ossia anche le persone che non cercano nemmeno occupazione, pur essendo in età da lavoro, cioè dai 15 ai 64 anni) la cifra sale spaventosamente a 12.278.000 unità, pari al 33% della relativa popolazione. Si tratta di italiani che consumano, ma non producono (per svariati motivi, anche legittimi) e quindi costituiscono una rilevante limitazione alla crescita del Pil.  

Copertina: Towfiqu barbhuiya/unsplash