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Dibattito pubblico e democrazia partecipativa: il modello francese e il confronto con l’Italia

Intervista a Ilaria Casillo, vicepresidente della Commission nationale du débat public: la Francia è molto più avanti e siamo preoccupati di come la procedura si sviluppa in Italia.

a cura di Andrea De Tommasi

“Quello che sta accadendo in Italia sul dibattito pubblico è una vergogna”, dice Ilaria Casillo, vicepresidente della Commission nationale du débat public (Cndp), guardando al drastico ridimensionamento della procedura nell’ambito della riforma del Codice degli appalti. “Si parla di opere che struttureranno il Paese per anni, e avranno una ricaduta sulle persone e sulla mobilità. Perché renderlo così inefficace? È come se si avesse paura delle parole dei cittadini”.

Comunque vada, l’Italia è indietro nella capacità di condividere le grandi scelte.

Su scala nazionale questo manca quasi completamente. Ed è paradossale perché il Paese ha un fermento di attivismo urbano e rurale: l'Italia delle regioni rosse, le reti cristiane, il movimento dei beni comuni, e tutti i lavori sull’attivismo da Floridia a Bobbio. Esempi che ci raccontano una realtà fatta di cittadini che si impegnano nella gestione della cosa pubblica, anche se in circuiti informali e spontanei. A livello regionale il discorso è diverso: l’Emilia-Romagna è molto avanti e ha scelto di pilotare direttamente le procedure di partecipazione, la Toscana ha l’autorità regionale della partecipazione. Ma non c'è stata mai una vera e propria politica di istituzionalizzazione dell’azione partecipativa.

Un processo che è invece avvenuto in Francia. Da dove viene questa attenzione?

Negli anni Novanta in Francia la democrazia partecipativa si sviluppa come risposta a tre crisi: quella della rappresentazione, quindi l'astensionismo crescente, la sfiducia nella classe politica, che ha toccato tutti i Paesi europei; la crisi ecologica, con la consapevolezza che le azioni di oggi impattano nel lungo termine sulle generazioni future; la crisi democratica, nel senso del distacco che c'è stato tra il legale e il legittimo. In sostanza i movimenti di protesta iniziano a respingere l’idea che tutte le procedure definite e concepite come legali siano anche legittime, è quello che ha fatto ad esempio Occupy Wall Street.

Trent’anni fa in Francia cresce anche il numero di conflitti ambientali e urbani intorno alle grandi opere infrastrutturali.

La nostra Commissione nasce a seguito del conflitto sulla linea ferroviaria ad alta velocità nell'arco Mediterraneo. Uno Stato dal modello centralizzato come la Francia inizia a porsi la questione di come offrire una risposta democratica sui progetti. Ecco allora i consigli di quartiere per tutti i comuni al di sopra degli 80mila abitanti, il codice dell'urbanistica che si è poi ampliato al codice ambientale, con una legislazione che discende direttamente dall’ingiunzione internazionale. Il postulato di base è che non c’è preservazione dell’ambiente senza partecipazione democratica. L’Italia non ha avuto questo percorso, connotata com’era da conflitti politici. Le lotte urbane e ambientali sono arrivate su scala più piccola in un secondo momento. Se pensiamo a una protesta ambientale forte, ci viene in mente la Tav, che ha fatto scuola anche in termini di semantica e iconografia. Ma l’Italia ha reagito a questi conflitti militarizzando i cantieri, ossia creando dei vuoti partecipativi.

Nel resto d’Europa prendono piede esperimenti di democrazia deliberativa, dai mini-pubblici alle giurie popolari. Ne abbiamo parlato recentemente in un nostro focus. Che pensa al riguardo?

A livello europeo qualcosa si sta muovendo. La Germania fa tanto nella democrazia partecipativa in ambito urbano, ha una serie di dispositivi che funzionano molto bene a livello di quartiere. La stessa Commissione Ue ha dato vita alla Conferenza sul futuro dell'Europa. Sarei molto attenta però all'uso di queste questi dispositivi che si chiamano “mini-pubbblici”. Hanno il vantaggio di mettere le persone nella condizione di essere informate e accompagnate. Ma si tratta di campioni costituiti su base volontaria. Muovono dall'idea di fondo che si debba avere una persona rappresentativa di una determinata classe sociale, come se noi non fossimo altro che il riflesso meccanico della classe sociale di appartenenza. Tutto questo non coglie la diversità della società.

La vostra Commissione che metodo utilizza?

Un approccio che chiamiamo “maxi-public”: prevede una parte di cittadini estratti a sorte, ma anche altre forme come il sito Internet aperto a tutti e riunioni sul territorio. Usiamo molto il dibattito mobile, andiamo nei quartieri popolari verso le popolazioni più escluse perché sono quelle che pagano più di altri gli impatti dei progetti e perché hanno meno risorse in termini di capitale sociale, economico e culturale. Abbiamo fatto un'assemblea civica sull'agricoltura con 134 persone, riunito 400 cittadini sulla politica energetica, e a fine gennaio insieme al governo abbiamo riunito 200 giovani sulla transizione energetica. La Commissione ha il vantaggio di essere un'autorità indipendente, può dire le cose che servono, anche se danno fastidio, ed è per questo tra l'altro che non siamo stati implicati nell'organizzazione della Convenzione cittadina sul clima.

Lei nel convegno nazionale dell’Associazione futuristi italiani del 2022 ha dichiarato che quell’esercizio di democrazia partecipativa ha creato conflitti col mondo politico.

All’epoca i parlamentari hanno vissuto malissimo questa Convenzione, si sono trovati a dover legiferare su idee che non erano le loro. Possiamo dire si sia trattato di un esercizio deliberativo ben riuscito, ma che ha creato problemi al governo nella sua implementazione politica.

Si parla spesso di transizione ecologica giusta, che non lasci nessuno indietro, ma abbiamo visto che in Italia e non solo i meccanismi di partecipazione dei cittadini non sono così sviluppati. Cosa vede in prospettiva?

Le tensioni della transizione ecologica e di quella energetica impongono di decidere con un approccio democratico. Gli obiettivi europei di risparmio energetico al 2050 sono sfidanti e richiedono che tutti i cittadini siano coinvolti nelle scelte. In altre parole, la transizione non si fa soltanto con i decreti o con il Pnrr, ma solo se c’è un effetto di massa critica.

fonte dell'immagine di copertina: scenarieconomici.it

martedì 21 febbraio 2023