Napoli e il suo futuro
Turismo, urbanizzazione, governance pubblica: limiti strutturali o possibilità di rilancio? Un’analisi sull’evoluzione passata, presente e futura di Napoli, tra “Città fallita” e “Città possibile”.
di Roberto Paura
Nella tarda primavera di quest’anno, il Napoli vincerà il campionato di calcio conquistando il suo terzo scudetto, trentatré anni dopo il precedente titolo. Ora, dopo aver perso metà dei lettori – quei napoletani scaramantici che avranno chiuso questo articolo appena letta la prima frase – possiamo entrare nel merito del tema chiarendo che questa è probabilmente l’unica previsione abbastanza certa che può essere fatta sul futuro di Napoli. Ovviamente, la città e la sua squadra di calcio non sono la stessa cosa; ma nell’immaginario popolare il legame è indissolubile e in effetti le due uniche grandi tendenze positive che Napoli ha vissuto nell’ultimo decennio o giù di lì sono il successo calcistico e il turismo di massa: due tendenze che giocano sull’immaginario e non toccano se non in modo marginale la sostanza della città e le sue dinamiche strutturali.
Chiudiamo subito, come lo abbiamo aperto, il discorso sul calcio, il più semplice da trattare, evidenziando solo due punti: il primo riguarda l’aspirazione al futuro, che da molti anni a questa parte è ormai limitata, tra la maggioranza dei napoletani, all’aspirazione a riconquistare lo scudetto dopo i fasti dell’era di Maradona, il che la dice lunga sulla visione di futuro della città (ne è testimonianza il fatto che i suoi stessi assessori, sui social, passano più tempo a commentare i match che a dar conto della gestione urbana); il secondo punto da evidenziare è che, a dispetto del fatto che la maggior parte dei proventi della società sportiva presieduta da Aurelio De Laurentiis derivino dai tifosi cittadini, tolta qualche piccola attività di beneficenza la società nulla apporta allo sviluppo sociale ed economico del territorio napoletano, come prova plasticamente il solo dato di quasi cinque milioni di euro che deve al Comune per lo Stadio Maradona (così ridenominato nel 2020), continuamente ristrutturato e riqualificato da fondi comunali e regionali: un punto intorno al quale più avanti si proverà tracciare un parallelismo con l’altra grande tendenza, quella del turismo di massa.
Napoli tra immagine e realtà
La città che a metà 2023 festeggerà questo importante evento simbolico dovrà però affrontare di lì a poco un autentico tsunami in due ondate. La prima ondata consiste nella graduale dismissione del reddito di cittadinanza, che riguarda 165mila persone in città (quasi il 17% della popolazione) e 422mila nella più vasta area metropolitana, che conta circa tre milioni di abitanti (dunque il 14%): più di tutto il Nord Italia. In tempi diversi ma molto stringenti una vasta platea di queste persone si troverà senza sussidi. Nemmeno il tempo di provare a restare a galla che una seconda ondata rischierà di portarli a fondo, insieme a una più ampia fetta della popolazione: è quella dell’autonomia differenziata che, se applicata secondo le direttrici dell’attuale governo, vedrà la Campania incapace di sostenere la spesa del welfare, innescando un’accelerazione della grande emigrazione verso il Nord Italia, ripresa negli ultimi decenni. Già nel 2023 il disaccoppiamento tra Nord e Sud riprenderà ad aumentare, con il Nord che crescerà dello 0,8% del Pil secondo le stime e il Sud che prederà invece un altro 0,5%. Cosicché, anche quelle ottimistiche previsioni riportate nel 1972 dal Corriere della Sera in un articolo diventato virale in tempi recenti, secondo cui “solo nel 2020” si sarebbe colmato il divario Nord-Sud, sono ormai destinate a restare speranze disattese. A trend invariati, lo Svimez prevede addirittura che il Pil del Sud Italia crolli a -38,8% nel 2065 rispetto al dato pre-pandemico: una decrescita infelice, un autentico tracollo, che significa ulteriore aumento della disoccupazione, impoverimento generale, mancanza di servizi essenziali.
Eppure, chi giungesse a Napoli in questi mesi, sbarcando da un treno ad alta velocità nella rinnovata stazione di Napoli Centrale, con centinaia di negozi, bar e ristoranti disposti su tre livelli e la grande Galleria Garibaldi nella piazza ridisegnata da Dominique Perrault, oppure da un aereo proveniente da una delle oltre cento destinazioni collegate con l’aeroporto di Capodichino, il secondo migliore in Italia per servizi dopo Milano Malpensa secondo un’indagine recente, difficilmente si farebbe l’idea di una città in declino: i numerosi cantieri, l’enorme flusso di turisti, l’animazione e la vivacità, la rapidità con cui nascono nuovi esercizi commerciali, bar e ristoranti, confermano l’immagine popolarizzata da film e serie televisive che negli ultimi anni hanno promosso tanto in Italia quanto nel mondo l’idea di una città unica nel suo genere. Ma per la verità si tratta di un ritorno al passato, più che di un nuovo inizio: Napoli è stata meta turistica in tempi non sospetti, già dal Settecento designata come tappa irrinunciabile del Grand Tour, e tra tutte quella che più ha evitato la turistificazione di massa che ha invece stravolto Roma, Firenze, Venezia. Questo turismo una volta d’élite ora è nazional-popolare, in buona parte proveniente dalle linee aree low-cost che sbarcano coppie giovani per un weekend, o durante la bella stagione crocieristi che sbarcano dalle grandi navi che approdano al Molo Beverello e ritornano a prendere il largo in serata, prova ne è che l’accoglienza turistica è diffusa tra migliaia di case vacanze e B&B mentre solo da pochissimo alcune grandi catene alberghiere internazionali hanno iniziato a progettare l’apertura di hotel di lusso in centro in grado di competere con gli ormai vetusti casermoni del lungomare di via Partenope. Napoli ha sempre avuto l’ambizione di vivere di turismo e, da poco più di dieci anni a questa parte, ha iniziato a veder realizzarsi il suo sogno, che però tale sembra essere destinato a restare se è vero che le uniche professioni in crescita in questi anni sono state quelle dei barman, dei camerieri e dei receptionist improvvisati delle case vacanze, un nuovo sottoproletariato spesso a nero e senza prospettive.
Un passato che non passa
Certo, se si guarda al passato la situazione presente può apparire gravida di promesse per il futuro. Napoli era uscita devastata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale prima e dal sacco edilizio degli anni Cinquanta e Sessanta poi, che ne aveva deturpato la bellezza in virtù dell’esigenza di contenere una popolazione in continua crescita al punto che, nei progetti mai approvati di piani regolatori di quegli anni, si prospettava la costruzione di una seconda Napoli nell’area flegrea, lo sventramento di parti del centro storico per far spazio a rioni più capienti e l’apertura di enormi assi viari che avrebbero dovuto anche spezzare in due il bosco di Capodimonte. Aveva poi vissuto, la città, una stagione di maggiore lucidità e di coscienza civica nel primo quinquennio della “giunta rossa” di Maurizio Valenzi, tra il 1975 e il 1980, in cui si tentò di superare la vergogna dell’epidemia di colera scoppiata nel ’73 con grandi iniziative sociali e la riapertura al pubblico dei grandi monumenti (Castel dell’Ovo, Maschio Angioino, Castel Sant’Elmo) chiusi da tempo. Ma il terremoto in Irpinia del 1980, che pure colpì la città solo di striscio, aprì una lunga stagione buia in cui agli edifici vetusti e lesionati del centro storico puntellati dai tubi Innocenti e alla costruzione in periferia di strutture per ospitare gli sfollati, destinate a triste fama (il Bronx di San Giovanni, il Parco Verde di Caivano, mentre le Vele di Scampia venivano occupate abusivamente), si aggiungeva la guerra tra la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia, scatenata dagli enormi appetiti del business della ricostruzione e del traffico di droga che in quegli anni sostituì il contrabbando di sigarette.
In tutto ciò andava in crisi il modello industriale che utopicamente Napoli aveva cercato di perseguire fin dalla Legge speciale del 1904 voluta da Francesco Saverio Nitti, che deturpò definitivamente le aree costiere a Ovest (Bagnoli) e a Est (San Giovanni a Teduccio) della città in nome dello sviluppo economico attraverso l’industrializzazione di massa. Progetto velleitario perché a causa di limiti strutturali delle aree individuate le grandi industrie entravano in crisi fin dalla fine degli anni Sessanta e chiudevano nell’area Est già alla fine dei Settanta, mentre l’enorme buco nero dell’Ilva-Italsider a Bagnoli continuò a bruciare capitali per tenere in vita fabbriche ormai non più competitive fino al 1990. Una breve parentesi che tuttavia per qualche tempo diede a Napoli l’impressione di essere una città operaia (i quartieri industriali facevano volare in quegli anni il Pci nelle urne) e per tempi molto più lunghi (fino ai giorni nostri) ha lasciato nelle élite di potere formatesi nelle segreterie di partito la convinzione che Napoli abbia bisogno di politiche industriali per rilanciarsi, senza tenere conto del fatto che ormai i tempi sono cambiati e la città, con l’Italia e l’intero Occidente, è entrata da tempo nell’epoca post-industriale. Epoca mai compresa e mai governata da chi è venuto dopo, il cui simbolo resta il Centro Direzionale, con la sua svettante cortina di grattacieli che ha cambiato il volto della città negli anni Ottanta senza riuscire mai ad afferrare la grande crescita del terziario avanzato che spinse l’Italia in quel decennio, e che oggi resta una cattedrale nel deserto destinata a svuotarsi al tramonto, popolata durante la giornata più da telefonisti di call center che da yuppie rampanti, finché, con il graduale trasferimento del Tribunale dalla storica sede di Castel Capuano al moderno Palazzo di Giustizia la zona ha iniziato a popolarsi della più tipica specie autoctona della middle class partenopea, quella degli avvocati.
Si parlò di “rinascimento” quando Antonio Bassolino inaugurò nel 1993 l’epoca dei sindaci a elezione diretta. E a distanza di anni, passate e archiviate le vicende giudiziarie del Bassolino governatore regionale, si può riconoscere che rinascimento in effetti fu: la riapertura di centinaia di siti artistici e culturali chiusi per decenni (in parte per l’effetto del terremoto), il completamento della prima tratta della nuova metropolitana, la pedonalizzazione dell’iconica piazza del Plebiscito e dell’elegante via Scarlatti aprivano una stagione nuova per la città, che rialzava la testa e indicava come suoi riferimenti le grandi metropoli europee, alle quali intendeva assomigliare e nei cui confronti non si riteneva più seconda a nessuna. Mancò il vero successo turistico, un po’ per fattori interni – troppo forte era ancora lo stigma di una città povera e degradata – un po’ per fattori esterni – il turismo low-cost era ancora di là da venire – ma i napoletani riscoprirono la città e il loro orgoglio. Sotto l’amministrazione Jervolino, all’inizio del nuovo secolo, giunse all’apice la programmazione urbanistica, che si dotò di piani ambiziosissimi: dai campi da golf al posto delle discariche di Pianura all’acropoli archeologica da far risorgere sotto gli edifici del vecchio Policlinico a Caponapoli, fino alla riconversione post-industriale di Bagnoli. Ma si vide allora all’opera un fenomeno destinato a caratterizzare gli anni a venire e a costituire una pesante ipoteca per i progetti futuri della città: ogni qualvolta Napoli cercava di fare il passo più lungo della gamba, limiti strutturali la portavano a schiantarsi. La storica inefficienza della macchina comunale portò quasi tutti i progetti a impantanarsi nelle sabbie mobili delle gare d’appalto e della progettazione europea, allora sconosciuta a un esercito di amministrativi gonfiatosi nel decennio d’oro dello statalismo e che ora si rivelava non più al passo coi tempi. Le speranze di ospitare l’America’s Cup tramontarono e bisognò accontentarsi del Forum delle Culture, che passò del tutto inosservato. La Grande recessione del 2008 falciò ogni speranza di ripresa economica, innescando nuovi processi di emigrazione dei giovani verso le città del Nord o d’Oltralpe. In quello stesso periodo, l’emergenza rifiuti consegnò al mondo l’immagine di una città immersa fino ai piani bassi degli edifici di monnezza e che riportava in auge la vergogna del colera. L’esplodere di una nuova guerra di camorra, questa volta tra il clan Di Lauro e il gruppo degli Scissionisti, scolpì nell’immaginario popolare quelli che l’allora sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, chiamò “i grandi quartieri della paura”.
La svolta populista della stagione di Luigi De Magistris, pur favorita dal declino della criminalità organizzata e dall’insperato successo turistico, non risolse i problemi strutturali, abbandonò praticamente ogni ambizione di rinnovamento urbanistico e scelse invece di puntare sull’eccezionalismo napoletano attraverso iniziative orientate a fare di Napoli una “Città Autonoma”, dotata di una sua valuta (il Napo) e di un modello socio-economico alternativo a quello dominante, inclusiva e accogliente. Era, a suo modo, un progetto che guardava al futuro: da un lato perché intendeva immaginare un’alternativa alla tradizionale governance urbana delle grandi metropoli europee, strizzando l’occhio al David Harvey delle Città ribelli; dall’altro perché nel promuovere l’eccezionalismo napoletano intendeva affrancare la città dal suo complesso d’inferiorità ascritto ai guasti dell’Unità d’Italia, strizzando però l’occhio al movimento neoborbonico anziché a quello più propriamente meridionalista. Vale quindi la pena soffermarsi un attimo su questi due punti.
C’è un passo di grande impatto nel romanzo di Elena Ferrante Storia della bambina perduta (2014), quarto e ultimo romanzo della saga L’amica geniale (l’opera che più ha fatto riscoprire Napoli in anni recenti al pubblico internazionale), in cui la voce narrante della protagonista scrive: «Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte». Nell’opera Lila, l’amica della protagonista, lavorerà per breve tempo in una fabbrica di San Giovanni, sperimentando l’abiettezza della condizione operaia al di là della retorica. Il fallimento di quel progetto di sviluppo e i limiti del modello post-industriale vanamente rincorso hanno segnato la storia di Napoli. Si può dunque sostenere che non sia di per sé fuori fuoco il sogno di fare di questa città un punto di partenza per immaginare un altro futuro; senonché, ovunque a Napoli scorgiamo i segni non di un’apertura al futuro, ma di un ripiegarsi sul passato. E questo ci conduce al secondo punto. Sul connubio tra meridionalismo e neoborbonismo ha scritto un testo definitivo in questi mesi Carmine Conelli, un giovane studioso di matrice gramsciana e post-coloniale. Il rovescio della nazione racconta – come spiega il sottotitolo – della “costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno”, individuando in questo processo i semi delle problematiche presenti dell’identità meridionale e più specificamente napoletana. Inserendosi nel dibattito contemporaneo sull’Unità e la guerra al brigantaggio che ne scaturì nel Sud Italia, Conelli rigetta le letture passatiste che raccontano di una Borbonia felix, “il più ricco reame del mondo”, prive di qualsiasi riscontro storico, evidenziando invece come il processo unitario accentuò la narrazione di un Sud arretrato e ancestrale, raccontato nei documenti di governo come “l’Affrica in casa”. Fu questa narrazione a creare la “questione meridionale”, spingendo Francesco Saverio Nitti (ancora lui) ad affermare che i meridionali non avevano che da scegliere tra diventare emigranti o briganti. Il rapporto con il passato non è affatto questione secondaria nel discorso sul futuro di Napoli poiché il ripiegamento sul passato che caratterizza la città è espressione di questo conflitto irrisolto che risale all’Unità e che oggi è al centro del dibattito pubblico. Amministrazioni meridionali meno populiste di quella di De Magistris hanno per esempio in anni recenti rimosso dalle loro città i simboli della spedizione garibaldina o della dinastia sabauda, in un processo di cancel history considerato necessario per poter “riappropriarsi del futuro”. Conelli tiene invece a ricordare come l’altro Risorgimento, quello dei movimenti insurrezionali meridionali che puntavano al riscatto dei contadini e all’affermazione degli ideali repubblicani, sia stato relegato all’oblio, con pesanti conseguenze, poiché anziché «trarre ispirazione da un movimento che proprio nel Meridione aveva lottato per la libertà e la giustizia sociale, a sud negli ultimi decenni si è concesso spazio mediatico e politico a una vittimizzazione acritica dei Borbone», mentre «i veri sconfitti furono coloro che lottarono per un mondo diverso». Non essere riusciti a saldare il desiderio di un nuovo modello di sviluppo con un richiamo a quanti avevano lottato in passato, dal Sud, per un mondo diverso, è stata una delle tante occasioni perdute del dibattito contemporaneo su Napoli, come riassume Conelli: «Nella “retrotopia” borbonica e nella celebrazione dell’epopea brigantesca abbiamo situato contemporaneamente la nostalgia di un passato derubato e le nostre speranze di miglioramento per il futuro. Abbiamo intravisto nell’idealizzazione di un’identità meridionale collocata alle nostre spalle una possibilità di riscatto culturale, sociale ed economico del Mezzogiorno (…) giustificando implicitamente le condizioni di immiserimento delle classi subalterne in cui i Borbone prosperavano (…), focalizzando l’attenzione unicamente sullo sfruttamento esterno del Mezzogiorno, e chiudendo un occhio quando è il momento di riconoscere chi sono gli sfruttati e chi gli sfruttatori nei rapporti di potere che contraddistinguono oggi le regioni meridionali».
Un presente che immobilizza
È bastato poco più di un anno per vedere volatilizzate le speranze di cambiamento rappresentate dalla giunta Manfredi, nata sull’onda del draghismo con l’idea di contrapporre alle sirene populiste il “governo dei professori”. Nulla in realtà è cambiato. Sotto De Magistris l’occasione di riqualificare il patrimonio artistico del centro storico rappresentata dal Grande Progetto Unesco, finanziato per 80 milioni di euro, andò completamente disattesa, con cantieri aperti e mai chiusi e molti altri nemmeno mai appaltati, per una perdita di oltre 40 milioni di euro. Oggi un analogo destino sembra attendere i progetti del Pnrr, completamente al palo anche a causa della congiuntura economica che ha lasciato deserte molte gare d’appalto per gli importi troppo bassi previsti dall’amministrazione comunale. L’insipienza e l’inadeguatezza della macchina comunale non è stata colmata dall’expertise della classe professorale reclutata principalmente dall’ateneo di cui l’attuale sindaco fu rettore, e che sconta il limite di governare la città part-time, continuando nel frattempo a ricoprire posizioni direttive in ordini professionali e dipartimenti universitari. Con il preciso intento di contrapporre all’avventurismo della precedente amministrazione un’ordinata gestione ispirata ai princìpi del management, la giunta ha paralizzato la città in un “presente esteso” dove tutti i suoi problemi sono rimasti irrisolti e ogni visione di futuro è scomparsa dal discorso pubblico.
Di fatto, l’unica grande operazione urbanistica realizzata negli ultimi anni è stata quella resa possibile dal superbonus edilizio, che ha permesso di ristrutturare centinaia di edifici di pregevole qualità artistica nel centro storico di Napoli dopo secoli di degrado. Da quando, nel 2016, fu chiuso il Progetto Sirena, grande intuizione della giunta Jervolino, che attuò una innovativa strategia di partenariato pubblico-privato per la ristrutturazione degli edifici storici, la situazione dell’edilizia napoletana, già compromessa da lunghissima incuria, non ha fatto altro che peggiorare, con cadute di calcinacci che hanno provocato più di una vittima, segnale di una città in deterioramento. Stessa sorte è toccato al verde pubblico, talmente abbandonato che negli ultimi dieci anni, complici da un lato epidemie di parassiti infestanti e dall’altro l’aumentata violenza dei fenomeni meteorologici, si è dato libero corso a un abbattimento indiscriminato di alberi secolari per evitare che la loro caduta rappresentasse un rischio per la cittadinanza, come più di una volta è purtroppo capitato. Cosicché la città, bisognosa di rimboschimento per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, è andata invece incontro a un processo di desertificazione i cui maggiori effetti sono oggi visibili a Posillipo, il cui caratteristico panorama incorniciato da pini domestici è stato reso irriconoscibile da una devastazione senza precedenti.
A dispetto di tutto ciò, Napoli resta una città viva che sta godendo di un’enorme popolarità grazie al turismo, che come anticipato rappresenta il più grande trend di trasformazione della città sul lungo termine. Una trasformazione che sta cambiando i connotati del centro storico, dove ai tradizionali bassi (i monolocali al livello della strada in cui in precedenza abitavano nuclei familiari anche di 5-6 persone) si sostituiscono botteghe artigiane, negozi di souvenir, bar e rosticcerie, mentre molti appartamenti un tempo in pessimo stato manutentivo si sono trasformati in bed & breakfast. Una trasformazione che avviene mese dopo mese, metro dopo metro: iniziata da Spaccanapoli, lo storico Decumano inferiore, ha poi coinvolto il Decumano superiore (via dei Tribunali), ha scavallato il muro divisorio rappresentato da via Duomo e via Foria lambendo l’area di Castel Capuano a est e la Sanità a nord, mentre a ovest da tempo i Quartieri Spagnoli hanno abbandonato la nomea di quartiere malfamato per conquistare un ruolo da protagonista nelle foto su Instagram. Tendenza destinata a proseguire man mano che, scomparendo le vecchie generazioni di residenti, le nuove troveranno maggior convenienza a riadattare abitazioni e vecchi esercizi commerciali a uso turistico. Il fenomeno è stato talmente rapido nella sua crescita da aver prodotto anche sporadici movimenti di resistenza che finora non hanno ottenuto risultati di sorta nel cercare di contenere la gentrificazione, scenario per la verità molto prematuro, poiché al momento e ancora per molti anni la persistenza di numerosi nuclei popolari nel centro cittadino non sarà messa in discussione. Ma se da un lato gli effetti positivi vanno rintracciati nella rigenerazione del centro storico (senza che il Comune abbia assunto alcun ruolo), in una modesta crescita economica e in una maggiore attitudine all’internazionalizzazione, dall’altro cresce il rischio che proprio ciò che rende Napoli meta diversa dalle altre – la sua autenticità – la cristallizzi in una rappresentazione oleografica fuori dal tempo, come rilevano segnali di una vera e propria “invenzione della tradizione”, dal caffè sospeso alle tombole scostumate.
In Appugrundrisse. Tornare a Napoli, saggio di recente pubblicazione del giornalista Paolo Mossetti, il racconto dell’adolescenza e della prima giovinezza trascorsa a Napoli tra gli anni Novanta e Duemila si salda con quello del ritorno in città dopo la pandemia, trovandola da un lato completamente trasformata e dall’altra sempre uguale a sé stessa. Solo chi non ricorda lo stigma della Napoli del passato può rimpiangere i tempi precedenti all’avvento del turismo di massa, ci ricorda Mossetti; e tuttavia l’autore ha saputo evidenziare il paradosso di una città in cui l’esplosione turistica è stata lasciata completamente in mano all’iniziativa privata, mentre l’amministrazione che a parole si dichiarava nemica del turbo-capitalismo rendeva Napoli la più avanzata forma di sperimentazione di una trasformazione urbana neoliberista dove pizzerie, pasticcerie e musei privati si sono appropriati di intere strade, privatizzandole di fatto, nell’indifferenza del regolamentatore pubblico. Come nelle scene di Gomorra dove, a fronte del degrado delle case popolari di Scampia, si aprono scorci di appartamenti interni arredati con il lusso più pacchiano, anche in pieno centro è possibile oggi trovare appartamenti extralusso riadattati per uso turistico all’intero di palazzi fatiscenti, in una plastica rappresentazione della convivenza tra totale indifferenza per la cosa pubblica e capitalismo domestico. Il turismo, insomma, non cambia davvero le strutture sociali, ma consolida forme di disuguaglianza. «Del resto», riassume Mossetti, «non si capisce a quale modello di sviluppo dovrebbe aspirare una città che è sempre stata povera, ora in pieno revival meridionalista ma con risorse limitatissime e nessuna visione di lungo periodo».
Il problema sta proprio qui, nei limiti strutturali che impediscono di fare di questo trend in crescita un’occasione di sviluppo. Sulla carta, Napoli ha tutto: una rete di trasporti pubblici capillare, un porto di primo livello internazionale, ottimi collegamenti ferroviari e aerei, un patrimonio storico-artistico senza pari, la vicinanza ai più grandi siti turistici del Sud Italia, di cui rappresenta lo snodo di comunicazione: Pompei, Ercolano, Reggia di Caserta, Capri, Sorrento, Ischia. Nella sostanza soffre di un enorme debito pubblico, una popolazione con un tasso di disoccupazione altissimo (circa un cittadino su quattro), una povertà endemica, immense periferie tagliate fuori da ogni promessa di sviluppo, una conurbazione di tre milioni di abitanti cresciuta in deroga a ogni piano regolatore e priva di collegamenti pubblici efficienti con la metropoli, un apparato amministrativo vetusto e inefficiente. A fronte di tutto ciò, cercare di immaginare evoluzioni di lungo termine appare compito arduo. Mossetti ha provato a farlo nel suo libro partendo dal presupposto che le giovani generazioni della media borghesia produttiva e intellettuale sopravvivono a Napoli solo grazie ai patrimoni accumulati dai loro genitori, dilapidati i quali si apriranno tre possibili scenari: nel primo «da parte dei figli della borghesia attuale ci sarà una progressiva diserzione dalle sfide del futuro», trasformando i loro appartamenti in case per studenti o case vacanze, con la conseguenza che la città «si svuoterà ancora più velocemente di come ha fatto finora, ridotta a una forma museale sempre più artificiosa, con una società sempre più divisa tra una casta di garantiti e una massa di insicuri e problematici che si arrabatta»; nel secondo scenario, in cui l’autore immagina una nuova crisi del capitalismo, che renderà lo Stato incapace di pagare i sussidi e garantire posizioni di rendita, «la classe media diventerà la mafia del futuro»: un’imprenditoria improvvisata si darà al malaffare, attraverso truffe sui progetti europei, business dei migranti, evasione fiscale, corruzione endemica; nel terzo e ultimo scenario, i sogni velleitari di eccezionalismo della borghesia napoletana che ha visto alle ultime elezioni politiche la città unico fortino del Movimento 5 Stelle in un mare di consensi a destra abdicherà a qualsiasi utopia liberal-progressista, facendo della città un laboratorio politico del sovranismo più sfacciato, «rigettando per sempre la nomea di città portuale tollerante e aperta [per] farla diventare la punta più avanzata di un nuovo corso reazionario e vendicativo».
Dalla “Città fallita” alla “Città possibile”: quattro scenari per il futuro di Napoli
Non si può negare a questo pessimismo una certa dose di realismo; e d’altronde le due opere qui citate (quella di Conelli e quella di Mossetti), scritte da autori appartenenti a una nuova generazione di intellettuali politicamente impegnati, mostrano una capacità di lettura dei fenomeni della città che la precedente generazione ha ormai perso, come evidenzia la mancanza di idee, visioni e strumenti d’interpretazione della realtà che emerge da recenti testi orientati a immaginare il futuro di Napoli quali Napoli 2025, testo curato dal sociologo Domenico De Masi (2015), o Napoli 1990-2050. Dalla deindustrializzazione alla transizione ecologica a cura dell’architetto e urbanista Attilio Belli (2022); giudizio che non va interpretato come un’accusa a una generazione o a un ceto sociale, ma come la banale constatazione che fenomeni nuovi richiedono voci nuove per essere narrati e compresi.
Si può piuttosto provare a partire da queste analisi – a cui va ascritto il merito di aver aperto nuove piste di lettura di Napoli e del Sud Italia – per tentare di elaborare più complessi scenari futuri. Come tradizione di un’analisi di scenario, proviamo allora a individuare quali possono essere le due principali incertezze critiche da incrociare per costruire i futuri alternativi. La prima sembrerebbe essere quella che riguarda lo sviluppo economico: il turismo sarà in grado di innescare un processo di sviluppo autentico, duraturo, strutturale, di cui beneficino anche le periferie, oppure ripiegherà su un modello consumistico mordi-e-fuggi che non scalfirà la povertà endemica della città? La seconda incertezza critica può essere individuata nella governance pubblica, fonte negli ultimi decenni di buona parte dei problemi di Napoli: la macchina amministrativa saprà efficientarsi, introducendo forme virtuose di gestione della cosa pubblica attraverso cui governare il cambiamento, o riprodurrà costantemente nel tempo la sua storica inefficienza? Intorno a queste due variabili possiamo costruire quattro scenari. Il primo, che possiamo denominare La città fallita, sul modello degli “Stati falliti” della teoria politica (come la Somalia o il Sud Sudan), vede rispondere negativamente a entrambe le domande: non ci sarà sviluppo socio-economico né miglioramento della gestione pubblica, cosicché gradualmente assisteremo alla chiusura progressiva delle linee di trasporto pubblico, delle scuole e degli asili, al peggioramento dei livelli assistenziali, al crescere della disoccupazione, all’abbandono della manutenzione stradale, al ritorno dell’emergenza rifiuti, finché di fronte a questo disfacimento gli stessi turisti preferiranno guardare altrove e Napoli ripiomberà indietro di quarant’anni, ai tempi del post-sisma. Nel secondo scenario, La città neoliberista, l’imprenditoria locale riesce a intercettare i flussi di denaro del turismo per realizzare una crescita economica sostenuta, a fronte di una totale deregulation a causa della mancanza di controllo della pubblica amministrazione: uno scenario che vede acuirsi le tendenze in atto e in particolare le disuguaglianze sociali, con un centro storico in grado di raggiungere i livelli turistici di Firenze, trasformato in una meta gettonata e gentrificata, e il resto della città che sopravvive solo grazie al trickle-down della ricchezza generata dal centro. Il terzo scenario, La città statalista, vede fallire il modello di crescita economica trainato dal turismo a fronte di una forte iniziativa delle istituzioni locali, regionali e nazionali per sostenere i redditi e i lavori pubblici, con una totale dipendenza dai fondi europei e straordinari (sul modello del Pnrr), il che, se da un lato riduce le sperequazioni sociali, rende il modello vulnerabile alle cicliche crisi del capitalismo avanzato nel corso delle quali i sostegni al welfare e alle opere pubbliche sono sistematicamente tagliati (una situazione simile a quanto visto durante il quinquennio in cui la Campania fu governata dalla giunta Caldoro in piena recessione globale). Infine, lo scenario che potremmo chiamare La città possibile vede un processo di sviluppo socio-economico affiancato da un’efficiente e innovativa governance delle istituzioni, che attraverso sperimentazioni moderne è in grado di cogliere le grandi tendenze del futuro e sostenere la vitalità dell’imprenditoria e del terzo settore nel loro sforzo di proiettare Napoli in una dimensione nuova della sua storia.
Cosa bisognerebbe fare per cercare di realizzare questo scenario? Evidentemente, tutto ciò che finora non è stato fatto. Per esempio una politica ambientale radicale, con una vera e propria riforestazione della città, abbattimento di edifici e aree urbane degradate per far posto a grandi parchi pubblici e opere pubbliche per adattare la città agli impatti dei cambiamenti climatici (in Campania il 91% dei comuni ricade in aree a elevato rischio idrogeologico, un terzo della popolazione di Napoli è a rischio per fenomeni climatici estremi e secondo l’Enea a fine secolo i mari si alzeranno di oltre un metro, allagando piana del Volturno e del Sele, Costiera amalfitana e Cilento). Una chiusura completa del centro antico alle auto, con una nuova “cura del ferro” estesa a tutta la città metropolitana, tagliata fuori dalle linee di trasporto pubblico su ferro, per rendere il pendolarismo sostenibile e abbattere i livelli di traffico e smog. Un grande piano di rifunzionalizzazione degli edifici pubblici abbandonati o sottoutilizzati da destinare ad attività innovative, come quello che il precedente governo nazionale ha promosso a partire dall’Albergo dei Poveri, uno dei più grandi edifici d’Europa, sulla cui destinazione d’uso si continua però a non avere le idee chiare, con il rischio di farne contenitori vuoti (questo rischio si è già concretizzato in passato con la Galleria Principe di Napoli, la cui vaga destinazione a funzioni varie e non sostenibili si è tradotta in un pressoché totale abbandono). La rinuncia a richiami vetero-industriali per Bagnoli e Napoli Est, declinati ora nella vuota formula dell’industria 4.0, a favore di grandi parchi pubblici affacciati sul mare, resi possibili da una completa ridefinizione delle priorità dei bilanci comunali a favore della manutenzione del verde con efficienti forme di partenariato pubblico-privato; in queste aree rese finalmente fruibili alla popolazione si potranno sviluppare in autonomia attività imprenditoriali votate all’intrattenimento come all’innovazione tecnologica e sociale, senza che sia però la mano pesante del dirigismo pubblico a guidarne il corso costruendo nuove cattedrali nel deserto (come è stato nel caso della Città della Scienza negli anni Novanta a Bagnoli) ma definendo solo priorità e vincoli, vigilando sul rispetto delle norme. Per questo servirà un’amministrazione “leggera”, tutto il contrario di quella elefantiaca del passato (e del presente), che rinunci per esempio alla pretesa di gestire in forma diretta ma del tutto inefficiente tesori artistici come il Maschio Angioino, Castel dell’Ovo, Castel Capuano, l’Albergo dei Poveri, abbandonati da anni all’incuria, e si ispiri a modelli di successo come quelli del Museo Archeologico Nazionale o della Reggia di Capodimonte. Infine, piuttosto che insistere su zone economiche speciali per attirare multinazionali, sarà importante creare spazi di lavoro moderni dove sperimentare forme di south working per frenare l’emorragia di giovani verso le aziende del Nord (negli ultimi vent’anni più di due milioni di residenti hanno lasciato il Mezzogiorno, il 50% giovani sotto i 35 anni, di cui quasi un laureato su tre si è trasferito al Centro-Nord e uno su sei all’estero).
Non sfuggirà forse a chi legge queste proposte il tentativo di individuare una via di mezzo tra un’abdicazione al capitalismo estrattivo e la tentazione atavica del Mezzogiorno a un dirigismo asfissiante. Difficile dire se da questa strada passi quel nuovo modello di sviluppo che da tempo si auspica. Certo è che occorre guardare ai limiti delle soluzioni intraprese nel passato. A lungo il problema di Napoli è stato identificato nella mancanza di occupazione, a cui si è cercato di supplire con l’industrializzazione, con i risultati che abbiamo riassunto. In seguito, esauritasi la parentesi delle partecipate comunali e dei carrozzoni politici in cui si è provato ad assorbire (soprattutto negli anni Ottanta e Novanta) la forza lavoro rimasta orfana delle grandi industrie, si è visto nel mancato passaggio al terziario avanzato il risultato di una carenza di formazione superiore, a cui si è cercato di supplire con imponenti progetti di riqualificazione professionale, maestri di strada e sperimentazioni scolastiche. Se però si guarda ai megatrend che caratterizzeranno i prossimi anni, emerge con chiarezza il rischio che l’accelerazione dell’automazione tecnologica renda vani tutti gli sforzi dirigisti di inseguire i lavori di tendenza del momento, destinati a essere superati prima ancora che si possano formare le persone adatte a svolgerli. Occorre piuttosto guardare alle forme innovative di welfare che, anziché sul lavoro, puntano sul reddito. Ciò è tanto più importante in un contesto come quello napoletano che, come ricordavamo in apertura, vede livelli record di disoccupazione e di percettori di sussidi. Tagliare questi sussidi potrebbe rivelarsi un errore fatale per lo sviluppo della città. Migliorare invece le condizioni economiche della popolazione attraverso l’intervento pubblico, lasciando all’iniziativa privata il compito di sviluppare forme nuove di produzione di valore sincronizzate con i tempi rapidi dei cambiamenti che stiamo vivendo, rappresenterebbe senza dubbio una novità nell’annosa “vicenda Napoli”, i cui risultati potrebbero sorprenderci, proprio per l’altissima densità che qui si concentra di talenti che povertà e disoccupazione hanno lasciato ai margini del discorso del futuro, ma che se messi nelle condizioni di decidere in autonomia il loro destino potrebbero tornare a lottare – come i loro predecessori di un secolo e mezzo fa – per un mondo diverso.