Quarant’anni di studi sui megatrend
Se oggi la nostra conoscenza delle grandi tendenze è più precisa, la capacità di tradurla in atti è ridotta. Nel nuovo numero di Futuri, la rivista pubblicata dall'Italian institute for the future, si parla di “presentismo esteso” e della necessità di uscire dalla paralisi dell’azione.
di Roberto Paura
Lo studio dei megatrend compie quarant’anni. Era il 1982 quando John Naisbitt, consulente cinquantaquattrenne esperto di relazioni pubbliche, pubblicò Megatrends: Ten New Directions Transforming Our Lives: un best-seller da 14 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Nel settore nello studio dei futuri, Naisbitt entrava come un outsider: aveva una buona formazione universitaria, era un lettore accanito, dotato di una straordinaria capacità di individuare connessioni nascoste tra i fenomeni, ma non operava nel campo della ricerca sociale e la sua capacità consisteva piuttosto nel rendere le informazioni appetibili e venderle. Era arrivato in questo campo abbastanza tardi nel suo percorso professionale, ma aveva saputo afferrare in corsa la grande onda degli anni Ottanta: le imprese, indaffarate in una crescita a ritmi sempre più veloci, non avevano più tempo da perdere con i ricercatori universitari, cercavano dati immediatamente spendibili, scenari direttamente trasformabili in strategie innovative. Naisbitt era pronto a offrirglieli, ovviamente al giusto prezzo: per una presentazione da parte di un membro del Naisbitt Group la quotazione arrivava a diecimila dollari, per un talk del guru in persona se ne potevano spendere anche quarantamila. Ma funzionò.
La grande intuizione di Naisbitt fu quella di sviluppare ampie sintesi di processi complessi in corso, che chiamò appunto megatrend. L’idea gli venne dalla sua passione per i saggi di storia, che cercavano di individuare, al di là della cronaca dei fatti, le tendenze di lungo termine che producevano le grandi svolte storiche. Era un po’ quello che la scuola storiografica francese delle Annales aveva iniziato a fare a partire dagli anni Trenta, superando l’impostazione della cosiddetta “storia evenemenziale” – concentrata sui fatti – per individuare piuttosto le grandi dinamiche trasformative economiche, sociali e culturali. Naisbitt pensò di fare la stessa cosa all’inverso: studiare il presente per cercare di anticipare quelle dinamiche e proiettarle nel futuro. Per riuscirci sviluppò un metodo che aveva appreso dalla sua esperienza in marina durante la Seconda guerra mondiale: raccogliere i giornali e studiarli per cercare le connessioni tra i fatti e individuare quelli che oggi chiamiamo “segnali deboli”, spie di possibili mutamenti radicali prossimi a emergere. Con l’andare del tempo il lavoro di raccolta delle informazioni dei giornali fu sempre più esternalizzato ai collaboratori del suo gruppo sparsi in tutto il mondo, in un processo che Naisbitt chiamava content analysis: oggi è in buona parte un processo automatizzato, ma allora era del tutto manuale e Naisbitt si riservava sempre il compito di trarre le conclusioni ultime dalle schede inviate dai suoi collaboratori.
Che l’analisi dei megatrend abbia rappresentato una svolta nello studio dei futuri lo dimostra non solo il perdurante successo degli studi di Naisbitt (morto lo scorso anno a 92 anni), ma anche la sua estensione tanto nei grandi gruppi di consulenza (un esempio è PwC, una delle Big Four della consulenza d’impresa, che analizza cinque megatrend globali) quanto a livello istituzionale (la Commissione europea ha creato un hub nell’ambito del suo Joint Research Centre che analizza 14 megatrend). Si può senza dubbio affermare che l’analisi dei megatrend rappresenti oggi la base imprescindibile di ogni studio di futuro. La sua utilità consiste nel ridurre l’incertezza sulla variabilità dei “futuribili” e quindi limitare l’ampiezza di probabilità di determinati scenari. Tuttavia, oggi è sempre più evidente quanto l’analisi dei megatrend non possa mai restare fine a sé stessa; in questo Naisbitt fu sicuramente un pioniere, perché si rese conto che studiare le dinamiche future non era che il primo passo di un processo di trasformazione strategica che doveva coinvolgere imprese, istituzioni, interi Stati. La sua attività consulenziale spingeva esattamente in questa direzione. Poco, però, è stato fatto in questi anni: se oggi la nostra conoscenza delle grandi tendenze è sempre più solida e precisa, la nostra capacità di tradurre questa conoscenza in azioni è significativamente ridotta. Nell’era del “presentismo esteso”, siamo come paralizzati: vediamo davanti a noi sfide immense che richiedono determinazione nell’affrontarle – aumento delle zoonosi, cambiamenti climatici, invecchiamento della popolazione, disoccupazione tecnologica – ma non riusciamo ad agire. È intorno a questo problema che ruota questo numero di Futuri.
Per esempio Riccardo Campa e Carolina Facioni, nei loro articoli, mostrano da quanto tempo siamo consapevoli delle dinamiche dei cambiamenti climatici e del declino demografico, senza però che questa conoscenza ci sia servita a cambiare rotta: per Campa la colpa è anche dei sociologi, che si sono interessati tardivamente del riscaldamento globale e nel modo sbagliato (come a dire: non sempre il problema è solo dei decisori); mentre Facioni ci ricorda di non cadere nell’errore di offrire soluzioni semplici a problemi complessi: il declino demografico non si risolve solo con più asili nido. È una lezione che ritorna anche nel contributo di Salvatore Monaco, che riprendendo il tema della transizione ecologica sottolinea l’urgenza di affrontare in modo sistemico una serie di problemi connessi alla transizione che spesso vengono dimenticati: diseguaglianze sociali, economia circolare, protezione delle specie animali e vegetali, agricoltura biologica diversificata. Più a lungo termine guardano invece gli studi di Veronica Moronese, che prende in considerazione le tendenze della New Space Economy e le loro implicazioni sul diritto spaziale, e di Gabriele Giacomini e Luna Bianchi, che guardano invece ai rischi di un’ulteriore privatizzazione del digitale da parte del Metaverso: analisi che spingono il decisore a una normazione anticipante anziché a rincorrere le conseguenze sociali dell’innovazione. Il tema della trasformazione del turismo è affrontato da Corbisiero e Berritto con uno studio Delphi dedicato al futuro del turismo post-Covid in Italia, e da Aliprandi e Fattorini che si concentrano sulle sfide a cui i musei come organizzazione sono chiamati ad affrontare. Se infine si vuole avere un preciso esempio di come l’analisi dei megatrend rappresenti solo la precondizione di uno studio di futuro orientato alla trasformazione strategica, il contributo di Scolozzi, Delrio, Pieratti, Rizio e Petrucci sulla definizione partecipativa della Strategia provinciale di Sviluppo Sostenibile della Provincia autonoma di Trento rappresenta una perfetta sintesi di questo discorso.
Chi accetterà di avventurarsi in scenari dall’esito tutt’altro che scontato dell’interazione tra innovazione tecnologica e condizione umana troverà ricchezza di spunti nella sezione Scenari, con contributi di De Feo sull’evoluzione della danza nell’epoca postumana, di Fattori sulle conseguenze della nuova condizione iperreale prodotta dall’esondazione del digitale nel mondo post-Covid, e di Somma sulle sfide comunicative dei nuovi ecosistemi digitali. Il racconto di Randy Lubin vi trasporterà infine in un possibile futuro in cui gamification, metaverso, gig capitalism e disoccupazione tecnologica sono diventati realtà.
Leggi il nuovo numero di Futuri
di Roberto Paura, presidente dell'Italian institute for the future