Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Giovannini su crescita e sviluppo sostenibile, progresso e felicità

In questa intervista, il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili esamina le premesse economiche e sociali per una politica che richiede valori e misure diverse e racconta come sta lavorando per il futuro.

a cura di Donato Speroni

Negli anni ’90 Enrico Giovannini era responsabile della contabilità nazionale dell’Istat. Da lui dipendeva il calcolo del Prodotto interno lordo, il magico Pil al quale si guardava come unico parametro di valutazione della performance del Paese. Quando però si è trasferito a Parigi, come chief statistician dell’Ocse, ha potuto dar corso a un’idea che coltivava da tempo: stimolare la nascita di una più ampia batteria di indicatori del benessere collettivo, anche perché questi dati erano indispensabili per poter passare da un concetto di mera crescita economica a un concetto di sviluppo sostenibile, che richiede misurazioni più complesse. Nel 2004, a Palermo, ha organizzato il primo Forum mondiale dell’Ocse Statistics, knowledge and policy che ha dato l’impulso fondamentale agli studi sul tema “beyond Gdp”, oltre il Pil, proseguiti grazie ai Forum dell’Ocse ogni due o tre anni, con i lavori della Commissione Stiglitz voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy, alla quale anche Giovannini ha partecipato, e con le tante iniziative dell’Ocse, della Commissione europea e dell’Onu.

Ritornato in Italia come presidente dell’Istat, assieme al Cnel ha fatto nascere il Bes, la batteria di indicatori per il Benessere equo e sostenibile; poi, dopo l’esperienza di ministro del Lavoro nel governo Letta, ha fondato l’ASviS e l’ha rappresentata per cinque anni come portavoce, affrontando tutte le problematiche che condizionano il raggiungimento in Italia dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030, alla cui predisposizione aveva contribuito su richiesta del Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon. In questa intervista, Giovannini fa il punto sul lavoro compiuto e sulle prospettive, anche nella sua attuale posizione ministeriale.

Crescita economica e sviluppo sostenibile: ancora oggi c’è qualcuno che ci rimprovera, confondendo i due termini e ci dice: “Voi volete lo sviluppo, che è incompatibile con le condizioni del Pianeta”. Forse l’equivoco risale al 1972, quando il titolo di “The limits to growth”, lo studio commissionato al Mit dal Club di Roma, fu tradotto in italiano in “I limiti dello sviluppo”.  Partiamo da qui: vogliamo ridefinire crescita e sviluppo?

La differenza fondamentale è che lo sviluppo è un concetto più ampio della crescita. Quando si parla di crescita, implicitamente si fa riferimento al Prodotto interno lordo, al reddito nazionale. O al reddito pro capite, come sarebbe più corretto fare. Infatti, il Pil di un Paese può crescere perché è aumentata la popolazione, anche se la condizione dei singoli cittadini in termini di reddito pro capite non cambia. Ricordiamo poi che il Pil può crescere perché tanti beni di investimento giungono a fine vita e quindi bisogna rimpiazzarli. In questo caso bisognerebbe invece guardare al Prodotto interno netto, cioè al netto degli ammortamenti. Si tratta di temi che sono stati affrontati con chiarezza dalla Commissione Stiglitz più di dieci anni fa, nella quale proponemmo, come indicatore sintetico del benessere economico delle persone, il reddito disponibile delle famiglie (cioè al netto delle tasse), aggiustato per i servizi resi agli individui dal settore del no-profit.   

Invece lo sviluppo...

Lo sviluppo è un concetto più ampio e ha a che fare con le dimensioni sociali, quelle economiche e quelle ambientali. Insieme al miglioramento della condizione reddituale di una persona si guarda alla condizione fisica, di salute, si guarda alla sua educazione, si guarda alla qualità della vita, sulla quale incide la qualità dell’ambiente che lo circonda. Si guarda allo stile di vita: ad esempio, sappiamo che il tempo passato nel traffico è il peggiore della giornata. In altri termini, si considerano i numerosi elementi che, a parità di reddito, rendono la vita migliore o peggiore, il che spesso si trasforma in buona o cattiva salute.

Quando “The limits to growth” fu tradotto come “I limiti dello sviluppo” c’era chiaramente un’ambiguità. Ti sembra che ci sia ancora o che oggi la distinzione venga percepita meglio?

Il cosiddetto paradosso di Easterlin, che mette in relazione la felicità e il livello di reddito, mostra chiaramente che nelle fasi di basso sviluppo e quindi di condizioni materiali totalmente insoddisfacenti, l’aumento del reddito e quindi del Prodotto interno lordo è fortemente correlato con l’aumento della felicità. Al crescere del reddito questa correlazione si riduce, fin quasi a non esistere più. Quindi in un Paese come l’Italia, uscita dalla guerra, col miracolo economico degli anni ‘50 e soprattutto dei primi anni ‘60, in cui tante persone potevano permettersi finalmente una qualità dei consumi, della salute, della vita nettamente migliorate, l’idea che la felicità fosse strettamente connessa allo sviluppo economico era forte, dominante. D’altra parte, non si aveva la percezione dei limiti planetari, anche perché la crescita economica era appannaggio soprattutto dei Paesi sviluppati. Dopo, quando, con la globalizzazione, il modello occidentale viene esportato a tutto il mondo, con una domanda generalizzata di beni di consumo, soprattutto di beni materiali, applicata a una popolazione che nel frattempo è diventata di otto miliardi, allora si è capito appieno il senso e l’insuperabilità dei limiti planetari di cui parlava, già nel 1972, il rapporto del Club di Roma.

Soffermiamoci sulla crescita economica. Come la immagini nei prossimi anni? Nei Paesi sviluppati forse rallenterà, ma quelli in via di sviluppo hanno ancora bisogno di crescere, di molti beni materiali.

La situazione è molto diversificata. Nei Paesi sviluppati la quantità di beni che abbiamo a disposizione è elevatissima e quindi mi aspetto, ma questo sta già avvenendo da molto tempo, una terziarizzazione del sistema economico e quindi un peso crescente dei servizi, il che può condurre a una relativa “smaterializzazione” del Pil. Ricordiamo che la definizione di “valore aggiunto dei servizi” insito nel System of national accounts, la Bibbia dei conti nazionali, dice che il valore di un servizio dipende dal cambiamento che la fruizione di quel servizio produce nel consumatore. Se io faccio un viaggio in bicicletta e ne traggo un particolare piacere, il valore aggiunto di quell’azione è elevato, e quindi il Pil aumenta, senza incidere sui consumi di materia.

Non capisco. Il Pil non percepisce questa differenza. Il Pil registra semplicemente che hai speso per fare un viaggio.

Se faccio un viaggio molto bello sono anche pronto a pagarlo molto, così come assistere a uno spettacolo teatrale di alta qualità, e potrei fare molti altri esempi. Nel momento in cui aumenta la mia willingness to pay, cioè la disponibilità a pagare in funzione del piacere che io percepisco, questo fa aumentare il Pil.  È chiaro che il contenuto di materia dei servizi è inferiore al contenuto di materia dell’agricoltura o della manifattura, quindi è possibile in teoria una crescita del Pil complessivo con minore pressione sull’ambiente. Inoltre, il Prodotto interno lordo tende a smaterializzarsi se si riduce l’uso di materiali con l’economia circolare.

Ma questo processo non ha degli aspetti traumatici per la crescita? Per esempio. nel momento in cui i giovani preferiscono il car sharing rispetto all’acquisto delle automobili, cioè cambiano i modelli di consumo, tutto questo non tende a riverberarsi in un calo del Pil?

Dipende dal modo in cui si combinano l’effetto reddito e l’effetto sostituzione. Il car sharing comporta meno auto prodotte, cioè meno persone impiegate nella costruzione delle auto, ma nel momento in cui quelle auto venissero usate molto di più, tenendo presente che noi usiamo le auto individuali per una frazione limitata del tempo, servono più manutentori. Questo è un esempio banale per dire che in termini di numero di posti di lavoro l’effetto netto non sempre è chiaro. Bisogna vedere qual è la produttività dei singoli lavori, nel senso che se un’ora di lavoro del manutentore è pagata meno dell’ora di lavoro dell’operaio che costruisce la macchina, a parità di ore lavorate il reddito diminuirà.

Però io ricordo tue conferenze in cui dicevi che c’è consenso tra gli economisti sul fatto che nei Paesi sviluppati è molto difficile ottenere un ritmo di crescita del Pil che vada oltre il 2% e che questo è comunque insufficiente per il trickle down, cioè per far discendere i benefici a favore dei più poveri.

Il tasso di crescita del sistema economico è diminuito al crescere del reddito. Questo ormai è abbastanza evidente, perché una parte dei consumi non può aumentare indefinitamente, quindi c’è un limite alla soddisfazione dei desideri, che tende a ridurre la domanda supplementare. Se poi a questo si unisce l’invecchiamento della popolazione è chiaro che c’è una riduzione dei consumi individuali anche per un fattore puramente demografico: l’anziano viaggia di meno, compra meno auto e così via. Se poi ancora sommiamo il fatto che a causa di un progresso tecnico che tende a rallentare, anche la produttività tende a rallentare, questo vuol dire che si riduce anche il ritmo di crescita dei salari e quindi dei consumi e del Pil.

Perché dici che il progresso tecnico tende a rallentare? Abbiamo tutti la sensazione di un’accelerazione.

Ci sono studi come quelli di Robert Gordon che mostrano come il progresso tecnico degli ultimi anni sia un progresso più incrementale che rivoluzionario, come può essere stata invece l’invenzione del motore a scoppio, dell’energia elettrica, dell’aereo. Prendiamo gli aerei. È un campo in cui c’è un continuo progresso tecnico, ma sempre un aereo usiamo, come sessanta anni fa, anche se più veloce, più confortevole e più sicuro.

L’ultimo grande salto tecnologico è stato Internet. Non ha determinato salti di produttività?

Internet certamente stato un grande salto. È da dimostrarsi quanto di questo salto abbia inciso sulle attività che rientrano nel Pil. E questo ci porta al tema del rapporto tra Pil e sviluppo sostenibile. Io e te in questo momento non contribuiamo al Pil, eppure con questa intervista pensiamo di fare una cosa utile. Si pensi ai mesi di lockdown: attraverso Internet abbiamo da un lato lavorato, ma dall’altro siamo rimasti in contatto con i nostri familiari, i nostri amici, e tutto questo non entra nel Pil. Allo stesso modo, quando usufruiamo di una serie di servizi di consultazione di siti per il nostro piacere, tutto questo si riflette nel Pil solo nella misura in cui questi siti riescono a raccogliere pubblicità. La soddisfazione che io ricavo dal navigare alle dieci di sera gratuitamente è probabilmente superiore al valore della pubblicità che quel particolare sito riesce a raccogliere: quindi, ci sono tante attività non di mercato, non contate nel Pil, che migliorano la qualità della vita delle persone. Non rientrano nel concetto di crescita economica, ma rientrano nel concetto sviluppo.

C’è dunque un consenso tra gli economisti sul fatto che non ci si aspetta grandi salti tecnologici nei prossimi anni?

È una delle grandi domande. Gordon ha provato spiegare perché la produttività non ha quei tassi di crescita così elevati come in passato. Oggi abbiamo innovazioni tecnologiche incrementali piuttosto che disruptive, come dicono gli anglosassoni. Inoltre, alcune di queste innovazioni vanno a beneficio del capitale intensivo, e questo ci porta al tema della distribuzione della ricchezza. Una distribuzione fra tanti soggetti fa bene alla crescita, mentre la concentrazione del reddito nelle mani di poche persone, visto che la capacità di trasformare quella ricchezza in consumi e reddito è limitata dal tempo che ognuno di noi ha a disposizione, tende ad aumentare il risparmio e non il consumo.

Finora abbiamo parlato dei Paesi sviluppati. Però i Paesi in via di sviluppo hanno comunque bisogno di crescere, anche nel loro consumo di beni materiali. Questo non pone una grande sfida, anche considerando l’aspetto demografico e i limiti planetari? Si può ipotizzare un cambiamento così significativo dei livelli di consumo da riportare l’Earth overshoot day al 31 dicembre? Cioè tornare a consumare ogni anno le risorse che il Pianeta produce, e non quelle di oltre un Pianeta e mezzo, come avviene attualmente?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare tutta una serie di distinguo. Se i Paesi in via di sviluppo seguono i modelli di consumo dell’Occidente e l’Occidente continua a seguire i modelli degli ultimi trenta - quarant’anni, è chiaro che si determina una situazione incompatibile con i limiti planetari. D’altra parte, sappiamo che se tutti gli Stati Usa avessero un approccio al tema energetico come quello della California, gli Stati Uniti ridurrebbero del 30% il loro consumo di energia. Quindi c’è tanto spazio per l’efficienza e il cambiamento delle tecniche nei Paesi sviluppati. Se poi i Paesi in via di sviluppo copiano il nostro percorso invece di fare immediatamente il salto verso le nuove tecnologie, è chiaro che non c’è speranza. Provo a farti due esempi. In Cina, dove si è passati dalle biciclette alle auto, sappiamo che il traffico delle città e l’inquinamento sono assolutamente drammatici. La Cina però sta diffondendo molto rapidamente motorini elettrici, quindi facendo un forte salto tecnologico che riduce le emissioni. Lo stesso avviene con le autovetture elettriche. Questo, a parità di altre condizioni, riduce l’impatto sull’ambiente in modo molto consistente. Intendo dire che i Paesi hanno varie opzioni, alcune delle quali però non sono praticabili a causa dei prezzi molto elevati delle tecnologie.

È lo stesso discorso delle energie rinnovabili. Noi vorremmo che i Paesi in via di sviluppo le impiegassero di più, ma si fatica a raccogliere il fondo internazionale destinato a questa transizione.

Appunto. Se l’Occidente continua a vendere loro tecnologie che in Occidente non possono più essere usate perché dannose all’ambiente, invece di dare le tecnologie avanzate, è chiaro che non c’è speranza. Se invece i Paesi in via di sviluppo crescessero modificando i loro modelli di consumo in linea con quello che oggi tutti sappiamo, e che nel 1972 solo pochi scienziati avevano compreso, riusciremo a determinare un decoupling, un disaccoppiamento molto significativo tra crescita ed emissioni, inquinamento, consumi di materia.

Parliamo adesso di sviluppo sostenibile, che è un tema strettamente legato alle prospettive del beyond Gdp, cioè agli studi per misurare il benessere collettivo “oltre il Pil”. Si tratta di un discorso che tu hai affrontato con forza fin dal 2004, quando eri all’Ocse, organizzando la Conferenza di Palermo, e che in questi anni è andato molto avanti. Ma con quali risultati? Sicuramente oggi abbiamo, sia a livello nazionale che a livello internazionale, una batteria di indicatori di sviluppo sostenibile molto più articolata di quella che poteva essere ipotizzata vent’anni fa. Si tratta di indicatori ampiamente utilizzati, ma forse ancora di limitato impatto politico. Possiamo fare un consuntivo di questo processo?

Distinguiamo tre fasi. La prima fase, lo dico anche sulla base della mia storia professionale, tra il 2001 e il 2009, in cui abbiamo provato, anche all’Ocse, a costruire dei conti nazionali estesi ad aspetti ambientali e sociali, ma ci siamo scontrati con il fatto che tanti fenomeni ambientali e sociali non hanno dei prezzi “ombra”, come si dice, sufficientemente robusti per poter trasformare tutto in termini monetari, così da poter sottrarre o aggiungere al Pil elementi negativi o positivi attualmente non inclusi. In parallelo si è andata sviluppando, dall’evento di Palermo in poi (ma il fenomeno era già in atto, solo che nessuno aveva scoperto che c’erano così tante iniziative in giro per il mondo) l’idea di produrre altri indicatori, oltre a quelli della contabilità nazionale. D’altra parte, il movimento degli indicatori sociali scandinavo datava dagli anni ‘70.

Quindi il secondo tentativo è stato quello di misurare i nuovi fenomeni mettendo insieme un set di indicatori distinto dalla contabilità nazionale, abbandonando l’idea di poter sintetizzare tutto in un unico numero da aggiungere o sottrarre al Prodotto interno lordo. E la terza via?

È stata quella già sperimentata dallo Human development index fin dal 1980, cioè di calcolare degli indici aggregati, combinando tanti indicatori di natura diversa. Questa idea ha fatto proseliti e quindi abbiamo visto nel mondo crescere la quantità di indicatori compositi. Queste tre metodologie, conti nazionali estesi (soprattutto in campo ambientale), set di indicatori, magari sintetizzati in indicatori compositi, si sono molto sviluppate e coesistono.

Tuttavia, si è rinunciato al tentativo di avere un unico numero da contrapporre al Pil.

Però ci sono tanti indicatori compositi per ciascun dominio del benessere collettivo, perché la tecnica ormai è abbastanza consolidata anche grazie al lavoro che facemmo tra Ocse e Joint research center della Commissione europea. Dopodiché sono arrivati i Sustainable Development Goals che, ricordo, nell’ultimo target dell’ultimo Goal (17.19) indicano:

Entro il 2030, costruire, sulle base delle iniziative esistenti, sistemi di misurazione dell’avanzamento verso lo sviluppo sostenibile che siano complementari alla misurazione del Pil e sostenere la creazione di capacità statistiche nei Paesi in via di sviluppo.

Tema del quale si è discusso anche quest’anno nella Commissione statistica dell’Onu, ma con pochi progressi condivisi.

Esatto. Comunque, questo approccio è andato avanti, anche grazie agli SDGs. Il vero tema è la trasformazione di questi set informativi in decisioni politiche, in valutazioni dei risultati. Non c’è dubbio che l’Unione europea, in termini di dimensioni, sia l’area geopolitica che ha fatto più progressi, perché la Commissione, in particolare questa di Ursula von der Leyen, ha introdotto gli SDGs nel sistema di valutazione delle politiche europee e nazionali, ha modificato il cosiddetto semestre europeo, introducendo indicatori basati sugli Obiettivi dell’Agenda 2030 anche in termini di valutazione dei risultati delle politiche. Le pubblicazioni di Eurostat, quelle delle varie direzioni generali, a cominciare dalla Dg EcFin che dipende da Paolo Gentiloni, così come l’Ocse, hanno scelto l’Agenda 2030 come schema di riferimento per valutare lo sviluppo dei Paesi.

Questo vale a livello sovranazionale. Ma nei singoli Paesi che succede?

La varietà di approcci usati a livello nazionale fa sì che sia difficile cogliere la penetrazione di questo approccio nei vari Paesi, anche perché la situazione evolve continuamente in funzione anche della sensibilità delle forze politiche. In Spagna c’è una vicepresidente del consiglio, Yolanda Dìaz, che sovraintende all’attuazione dell’Agenda 2030. È chiaro che con scelte di questo tipo la sensibilità dell’opinione pubblica su questi aspetti aumenti. Invece in un altro Paese, e penso alla Gran Bretagna, con Boris Johnson questi temi da centrali sono diventati quasi marginali. Insomma, l’attenzione allo sviluppo sostenibile dipende dalla congiuntura politica, ma c’è un elemento culturale di base che rende la politica generalmente più attenta al tema, in linea con quello che fanno i cittadini. Ovviamente, la tradizione culturale fa la differenza: ci sono Paesi che si sono dotati negli anni di metodi e modelli con cui fare valutazioni ex ante ed ex post delle politiche, penso all’Olanda, mentre altri che sono storicamente più indietro.

Come l’Italia?

Sì, ma credo che negli ultimi anni il nostro Paese stia facendo dei progressi importanti. Ad esempio, l’aver spinto il Cipess, il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, a valutare i progetti infrastrutturali in base all’impatto sugli SDGs è importante. Analogamente, se l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) raccoglierà seriamente, come è stato richiesto dalle Commissioni bilancio del Parlamento, l’impegno a fare valutazioni delle politiche del governo basate sui 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, il dibattito sulle politiche pubbliche potrà cambiare in modo significativo. Anche nelle analisi dell’Istat e della Banca d’Italia sulle politiche le dimensioni sociali e ambientali sono sempre presenti. Insomma, ci sono evidenti segnali di cambiamento. 

Dal punto di vista statistico, la misura della sostenibilità è l’aspetto più difficile nella elaborazione di indicatori “oltre il Pil”. La ricerca in questo campo è andata avanti?

Conosciamo queste difficoltà da quando pubblicammo il primo rapporto sullo sviluppo sostenibile all’Ocse nel 2002. La sostenibilità ha a che fare con la possibilità delle generazioni future di avere le stesse possibilità delle generazioni attuali. Dato che l’elemento che lega il lascito da una generazione all’altra è il capitale, bisognerebbe misurare le diverse forme di capitale per vedere che cosa una generazione lascia all’altra.

Infatti, si parla di capitale economico, ambientale, sociale e umano, ma con notevoli difficoltà di misurazione.

Al di là della misurazione del capitale economico, molti progressi sono stati fatti sulla misurazione del capitale naturale, meno sul capitale sociale. Insomma, non siamo ancora riusciti ad avere una misura unica, però sulla misura della sostenibilità sono stati fatti passi avanti.

Il discorso dello sviluppo sostenibile è anche legato alla misura della felicità. Anzi, per alcuni economisti basterebbe questa misura per fotografare il progresso sostenibile. In questo campo però mi sembra che siamo fermi alle misure della Gallup che chiede a un campione di intervistati in oltre 150 Paesi quanto sono soddisfatti della loro vita, su una scala da zero a dieci. Si fanno classifiche, ma mi sembra che la percezione sia diversa nelle diverse culture, quindi i dati non sono comparabili...

Qualche settimana fa è uscito l’ultimo rapporto sull’happiness index. Queste misure sono entrate sempre più nella statistica ufficiale. Non c’è un’indagine mondiale diversa dalla Gallup, che comunque continua a fornire indicazioni molto interessanti, ma molti istituti nazionali di statistica, a partire dall’Istat, che ha fatto scuola a livello internazionale, raccolgono dati su questi temi.

... ma che hanno un valore significativo quando si guarda alle serie storiche della stessa popolazione, meno quando vai a confrontare culture diverse.

Quello che emerge è una straordinaria comunanza di sentire.

Certo, gli elementi che determinano il benessere sono ovunque gli stessi: salute, istruzione, sicurezza economica tra gli altri. Però ho sempre pensato che gli asiatici facessero fatica, rispetto per esempio ai latinoamericani, ad attribuirsi un voto molto alto in soddisfazione nella vita, a parità di condizioni. Forse anche in Italia ci sono delle differenze tra diverse regioni, questione di scaramanzia...

La Gallup mette in rilievo che gli elementi che fanno la felicità sono molto simili in tutto il mondo. Ma tornando al tema delle politiche pubbliche, perché mi deve interessare particolarmente, al di là di un titolo di giornale, confrontare la percezione di un cinese e di un italiano? Quello che è più importante è capire se le politiche che sono attuate in Cina o in Italia aumentano la felicità dei residenti in quei Paesi.

Quattro anni dopo il tuo libro sull’utopia sostenibile, se lo scrivessi oggi useresti un tono diverso?

Sono già quattro anni? Ti confesso che qualche mese fa ho ripreso il libro e ho fatto la lista delle proposte che vi erano contenute. Che poi, in molti casi, erano una sintesi delle proposte dell’ASviS. Ho notato tanti passi avanti: molte delle cose che suggerivo a livello europeo e nazionale si sono realizzate dal punto di vista della governance e in alcuni casi anche delle politiche di sviluppo sostenibile. Nel frattempo, il mondo in questi quattro anni ha vissuto una concentrazione di shock senza precedenti.

Forse solo con la Seconda guerra mondiale...

Sì, ma la Seconda guerra mondiale era stato uno e un solo shock drammatico e devastante. L’Europa ha subito nel 2008-2009 la crisi di Lehman brothers, nel 2011 -2012 la crisi dei debiti sovrani, nel 2015 la crisi delle migrazioni massicce e delle richieste d’asilo, poi il Covid, adesso la guerra, con la crisi energetica e potenzialmente quella agricola che per noi ne consegue. Ovviamente, la guerra in Ucraina colpisce particolarmente l’Europa: non credo che gli americani la sentano come un problema loro. E anche gli africani non sono particolarmente scioccati. Anche se ne risentiranno fortemente dal punto di vista degli approvvigionamenti alimentari, non credo che in questo momento abbiano la stessa percezione del dramma che abbiamo noi.  

Quindi tu dici: abbiamo fatto dei progressi, ma al tempo stesso le sfide sono anche diventate più difficili.

Esattamente. Però il mio libro già conteneva l’intuizione del fatto che le crisi sarebbero state ripetute e gravi. La necessità di pensare alle politiche in modo diverso ha avuto una drammatica conferma.

Ma nel Paese c’è questa percezione? Siamo a un anno dalle elezioni, forse anche meno. A livello politico ci si rende conto della gravità delle sfide di medio e lungo termine?

Certamente sì; non ho dubbi sul fatto che la percezione della dimensione delle sfide e delle interrelazioni si sia accresciuta.

Che cosa manca allora?

Da un lato, la capacità di rispondere, che però non è solo una questione di politica. Nel momento in cui, di fronte a questa situazione, un pezzo importante del mondo imprenditoriale dice che dobbiamo rallentare i cambiamenti invece di accelerarli, questi è un errore dell’imprenditoria italiana, non della classe politica. Pensiamo alla transizione ecologica: la reazione di tanti alla guerra è stata “mettiamo da parte l’ecologia”, un errore gravissimo.

Mi vengono in mente due episodi.  Il primo: il libro dei Club di Roma è uscito nel 1972. L’anno dopo è scoppiata la guerra del Kippur, con la crisi energetica. Ero troppo giovane per sapere quello che allora si discuteva nel mondo della politica, però fondamentalmente la reazione fu: “Dobbiamo affrontare un’emergenza, non perdiamoci in chiacchiere come quelle del Club di Roma”. Secondo esempio: l’Europa vara il Green Deal nel 2019, poi arriva la pandemia e adesso arriva quest’altra botta. Di nuovo la tentazione di dire “queste cose le mettiamo da parte, ci penseremo domani” è fortissima. In questo senso, la reazione attuale non è molto diversa da quella che emerse in occasione della prima crisi petrolifera.

Tu ti sei battuto per creare un istituto pubblico per il futuro ma finora senza risultato...

Però ti dico anche che l’esperienza che sto facendo in questo ministero mi consente di guardare avanti. Per tre settimane sono rimasto inchiodato a casa a causa del Covid. Non mi sono fermato, ma certo non c’è stata l’interazione con gli altri ministri, le riunioni del Consiglio. Questo mi ha fatto riflettere. Nel frattempo, ci sono ministri, penso a Guerini, Di Maio, Cingolani e non solo, che sono in prima linea nella gestione dell’emergenza. Io no e quindi mi sono ancora più concentrato sulla pianificazione del futuro, con la preparazione dell’Allegato Infrastrutture al Documento di economia e finanza.

Stai dicendo che sei meno esposto nelle battaglie quotidiane?

Questo è un grande privilegio che mi deve far lavorare ancora di più, per pensare al futuro. Questo ministero, anche se questa cosa non è del tutto percepita, sta definendo quale sarà il futuro della logistica, della mobilità nelle città, delle politiche urbane, della sicurezza idrica. Ovvio che il Paese si accorgerà (spero positivamente) di tutto ciò tra un po’, quando non si troverà nelle situazioni in cui si sarebbe trovato se non avessimo fatto queste scelte. Sento di avere la possibilità di pensare al futuro più di quanto avrei potuto fare se fossi stato in altri ministeri.

Qualcuno dice che siamo in ritardo nell’attuazione del Pnrr perché non vede i cantieri. Ma prima di aprire i cantieri bisogna procedere con la progettazione delle opere e lo si sta facendo con criteri di sostenibilità molto innovativi rispetto al passato. E questo farà la differenza nei prossimi decenni.

Dunque, è un work in progress...

Grazie al Pnrr l’accelerazione che stiamo dando agli investimenti è davvero molto forte. Così come al modo di realizzare infrastrutture sostenibili. Ma, giustamente, il Paese se ne accorgerà solo quando le nuove ferrovie, i nuovi porti, i nuovi sistemi di mobilità sostenibili, i nuovi acquedotti entreranno in funzione. Allora, spero, si renderà conto che mettere la sostenibilità al centro delle politiche non è un vezzo, ma un’assicurazione sul futuro di tutti noi e delle future generazioni.  

 

*Fonte dell'immagine di copertina: mit.gov.it

martedì 19 aprile 2022