La difficoltà di immaginare il futuro e di tenere conto delle future generazioni
Non ci potrà essere un domani migliore se non sapremo imprimere il giusto verso alle tendenze in atto, rifuggendo dalla retrotopia, dal ritorno alle tribù e alla disuguaglianza, con coraggio utopico.
di Carla Collicelli
Le situazioni complesse, nuove, caotiche (nel senso filosofico del termine), inducono a pensare che sia impossibile progettare il futuro, o anche solo cercare di indagarne i tratti evolutivi. In realtà il disordine che caratterizza i periodi di cambiamento si rivela poi molto spesso foriero di trasformazioni importanti, in molti casi positive, e di una attenzione nuova nei confronti del tempo futuro.
Da un punto di vista filosofico, in antichità il tempo non era lineare, ma circolare e ciclico, e non si associava di conseguenza all’idea di progresso. È con l’affermarsi delle religioni monoteistiche e con l’avvento dell’era moderna che prende piede un approccio al tempo ed all’esistenza umana di tipo lineare e progressivo, con valorizzazione della dimensione escatologica e progettuale rispetto al futuro. Un approccio che si rafforzerà sempre più con lo sviluppo tecnologico e sociale degli ultimi secoli; un approccio che spinge ad immaginare il futuro, a cercare di prevederlo, e a indirizzare notevoli sforzi nella direzione della costruzione di un mondo migliore per sé, per l’umanità e per il pianeta. In questo contesto il tempo, assieme allo spazio, diventa elemento fondativo della convivenza umana, vero caposaldo per l’interpretazione dei processi sociali, politici e antropologici, nonché per la trasformazione del caos in qualcosa di conoscibile e orientabile secondo valori e principi elaborati dalla mente umana e dalla cultura collettiva, in contrasto dell’entropia e a sostegno di uno sviluppo evolutivo guidato dall’uomo.
Tra le diverse discipline scaturite da quella filosofica la sociologia, in particolare, si è posta sin dalle origini come strumento di lettura della realtà governato dalla ragione, e come tentativo di studiare, con metodi empirici guidati dalla formulazione di ipotesi, i fenomeni, i processi e i rapporti tra soggetti della vita associata e la loro evoluzione futura. Infatti la sociologia nasce come disciplina autonoma quando, nel corso del 1700, le analisi sui fenomeni sociali vengono assoggettate a procedimenti scientifici e a tecniche di misurazione ed inferenza statistica. Max Weber ed Emile Durkheim sono i sociologi che più di altri e prima di altri contribuiscono a gettare le basi della ricerca sociologica di tipo scientifico, formulando ipotesi, studiando i fatti e cercando le dimostrazioni e prove dei loro argomenti. Ed è così che si arriva a concepire la scienza sociale come strumento principe per la definizione delle politiche future, oltreché per risolvere i problemi concreti.
Da questa impostazione scaturisce il filone degli studi sociali empirici, che tanta parte hanno avuto e stanno avendo nel supportare le decisioni da prendere, a cominciare da quelli della London School of Economics & Political Science di Londra - nata per studiare le cause dei conflitti e trovare rimedio alla ingiustizia sociale ed economica -, a quelli tedeschi del Verein für Sozialpolitik di Berlino, dove insegnava il grande Max Weber.
In tutta la sua storia, e soprattutto dalla metà del '900 in poi, la sociologia oscilla tra la fiducia nella possibilità di studiare la società e la sua evoluzione senza condizionamenti, da un lato, e il pericolo di venire condizionata a giustificazione del modello di società vigente e dei suoi valori, dall’altro. Da cui la ricchezza delle posizioni e dei contributi empirici e teorici sulle contraddizioni degli studi sociali, sulla loro possibilità di influenzare realmente il futuro, e sul rapporto tra descrizione e prescrizione. Il cosiddetto pensiero divisionista sostiene a questo proposito la necessaria distinzione fra enunciati con significato descrittivo (dichiarare come stanno le cose) ed enunciati con significato prescrittivo (indirizzare, dare giudizi di valore), mentre altre correnti sostengono che la sociologia debba e possa essere sempre relazionale, nel senso di una relazione stretta tra descrizione della realtà e prefigurazione di piste di sviluppo migliorative.
Da un punto di vista del metodo, inoltre, in sociologia si distingue tra approccio micro e approccio macro, il primo tipico degli studi sociologici empirici, particolarmente diffusi in area anglo-sassone e con dovizia di mezzi - specie negli Usa -, il secondo tipico di molta parte della riflessione sociologica francese e di correnti analoghe in altri paesi, e che guarda all’insieme delle questioni nelle loro interconnessioni e al futuro del mondo e dell’umanità.
Soprattutto la sociologia francese degli ultimi 70 anni, pur partendo dai fatti e dall’osservazione della realtà, si dedica con particolare impegno alla interpretazione e alla indicazione di scenari per il futuro. Dando concretezza al sostegno delle teorie secondo le quali, come sostiene in primis lo storico della scienza Thomas Kuhn (nel suo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” del 1962), le scienze sociali, come quelle esatte, almeno nella loro parte più evoluta, non possono fare a meno di coltivare, oltre alla descrizione della realtà, anche la sua interpretazione, e soprattutto lo studio dei processi di cambiamento e di trasformazione dei paradigmi di riferimento.
Transizioni, eterogenesi, utopie e distopie
In Italia il Censis ha contribuito in modo particolare negli ultimi decenni del '900 e a inizio 2000 ad alimentare la funzione di affiancamento nella scienza sociale della capacità previsionale a quella descrittiva. E lo ha fatto svolgendo un numero molto ampio e vario di indagini sociologiche e socio-economiche sul campo, con la caratteristica di premettere sempre una analisi del contesto e una definizione di ipotesi, e di concludere con una interpretazione (aspetto interpretativo) e con la formulazione di raccomandazioni (aspetto normativo).
Ad esempio nel 2004 è stato pubblicato un testo dal titolo “Le transizioni sommerse degli anni '90” (Rubbettino 2004), dedicato al tema del passaggio di millennio 1900-2000, nel quale l’ottica adottata è quella volta a capire l’evoluzione della società italiana a seguito della stagione di grandi cambiamenti sociali e politici della seconda metà del secolo. In particolare l’analisi muoveva le mosse dalla domanda se il Paese e l’occidente fossero in declino o in ripresa, considerando che, a ben vedere, il '900 si concludeva, e il 2000 si apriva, con una prevalenza di valutazioni di taglio negativo, che sottolineavano le storture del secolo trascorso, i fallimenti dei suoi principi, e il venire a compimento, a volte tragicamente e spesso con delusione, dei processi sociali, economici e politici che lo avevano caratterizzato. Si era diffusa così la convinzione che la fine del secolo e del millennio segnasse il venire a compimento di numerosi filoni di sviluppo e modelli di convivenza dimostratisi involutivi e occlusivi anche rispetto ai loro stessi obiettivi iniziali, oltre che in considerazione delle sfide del futuro.
Tra i diversi contributi interpretativi citati in quel testo, vale la pena ricordarne alcuni. Secondo Marco Revelli (Oltre il Novecento, Einaudi, 2001) si trattava spesso di una vera e propria “eterogenesi dei fini” e di ciò che lui definisce “la danza immobile”, con una finta uscita verso il futuro (“uscire in un interno”), e con una unica speranza, quella dell’”uomo solidale” e del volontario. Secondo Giorgio Ruffolo (I paradossi della crescita nell’era del turbocapitalismo, in Lettera Internazionale, n. 67/2001) un importante spartiacque del secolo passato si colloca negli anni tra il 1970 e il 1975, quando le tendenze del benessere sociale e della crescita economica cominciano a divaricarsi radicalmente, producendo aporie e problemi di ogni tipo. (…) tra torbidi e belle époque, l’età attuale “è “un’età di torbidi, senza grandi speranze né spinte di entusiasmo”.
Posizioni analoghe venivano citate a proposito di molti autori del contesto europeo, da Beck a Giddens, a Lasch. Ulrich Beck, ad esempio, si dichiara sostenitore di una linea interpretativa che vorrebbe collocarsi a metà tra la speranza e il declino, ma in realtà punta i riflettori soprattutto sul declino. È quella che Massimo Cacciari chiama la mancanza di un progetto collettivo. L’homo democraticus et consumans, da lui evocato, “si agita per avere meno ingerenze del pubblico e del governo, …e al tempo stesso avverte l’insicurezza e chiede tutela…”. Ma sostanzialmente rifugge da qualsiasi forma di “fini condivisi”. Con il risultato di autoridursi a mera funzione, e di perdere ogni possibile soggettività, nella rete telematica, come nel lavoro, come nel sociale. Nascono così i 'non luoghi' (Marc Augé), le 'occasioni mancate', lo sradicamento, i 'netslaves' (gli schiavi della rete)”.
Prigionieri del presente e retrotopia
Rispetto alle tematiche citate, un aspetto molto caro al pensiero moderno è quello relativo al senso del tempo presente e in particolare all’accentuarsi nella modernità del cosiddetto presentismo. Un libretto di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo (Prigionieri del presente, come uscire dalla trappola della modernità, Einaudi 2018) è dedicato proprio a questo fenomeno. Vi si parla di una vera e propria “crisi antropologica” dell’uomo occidentale, che “non riesce più a governare la modernità e ha smarrito la sua bussola più preziosa: il rapporto con il tempo lineare, l’unico in grado di preservare la nostra identità. Da qui la sottomissione a un eterno presente, il tempo circolare, frantumato in un’incessante sequenza di attimi”. “Il tempo è per sua natura lineare, ha una continuità che dalle radici del passato porta fino ai sogni del futuro. Ridurlo a una dimensione circolare significa snaturarlo, privarlo di significato. E significa non camminare più nella storia, ma riuscire solo a zoppicare nel presente.”
E ancora: “Un tempo senza memoria (passato) e senza slanci (futuro) diventa liquido, e poi evapora, incastrato nell’affanno dell’attimo breve, brevissimo (presente). Sfumano le radici, solide ancore durante la navigazione della vita, e si appannano le aspettative, i sogni, le energie che fanno davvero crescere, on solo in senso anagrafico. Nella prigione del tempo snaturato, a un’unica dimensione, la civiltà occidentale deve misurarsi con un nuovo assioma: tutto è presente, esclusivamente presente.” Nel medesimo dibattito si inserisce magistralmente Zygmunt Bauman, con il suo ultimo libro pubblicato postumo con il titolo "Retrotopia" (Polity Press Cambridge 2017 e Laterza 2017), nel quale si descrive la tendenza a ricorrere al passato nel pensare al futuro (“Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna”). E lo fa a partire da una citazione di Walter Benjamin dalle “Tesi di Filosofia della storia” a commento dell’Angelus Novus di Paul Klee: “L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe (…) il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo”. In questo contesto la nostalgia prende il sopravvento ed il pericolo sta secondo Bauman “in quella versione <restauratrice> della nostalgia che caratterizza i <risvegli nazionali e nazionalistici in corso in tutto il mondo, dediti alla mitizzazione della storia in chiave anti-moderna>”. “Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia”.
Retrotopia è per Bauman dunque “una visione situata nel passato perduto/rubato/abbandonato ma non ancora morto”, mentre come dice Oscar Wilde, “quando saremo sul punto di raggiungere la terra dell’Abbondanza dovremmo puntare lo sguardo ancora una volta sull’orizzonte più lontano e issare di nuovo le vele. <Il progresso è la realizzazione dell’utopia>” e Bauman ricorda che già Marx “svelava la logica psicosociale che spinge a cercare nel passato un aiuto nell’aprire le porte del presente”.
Ma soprattutto Bauman ha il grande pregio di articolare la riflessione sulla retrotopia attraverso quattro grandi esempi.
- Il ritorno a Hobbes. Nel Leviatano (figura biblica mostruosa) del 1651 Hobbes teorizza l’importanza della nascita dello Stato moderno (in realtà Stato e Chiesa), che avvia un processo di civilizzazione volto a domare” la crudeltà innata negli esseri umani” e a superare “una vita che altrimenti sarebbe misera ostile animalesca e breve”. Ma gli atti di violenza sono stati celati, non eliminati dalla natura umana, e con la tecnologia moderna e la globalizzazione la capacità delle istituzioni di regolare la vita pubblica si è affievolita. “Un leviatano dai confini territoriali porosi e facilmente permeabili non può che essere una palese contraddizione in termini”. Dopo una lunga trattazione sulla violenza nella società moderna, Bauman sostiene che nella percezione diffusa “il nostro mondo (…) è tornato ad essere un teatro di guerra: di una guerra combattuta da tutti contro tutti”.
- Il ritorno alle tribù. Il venir meno del Leviatano e della sua funzione regolatrice porta alla ricerca della “sicurezza nell’appartenenza”, nel tribalismo, nel “vicinato” come “piccolo Stato”. E si dà spazio ai “politici della rabbia” che insistono sulla razza, l’identità, l’etnia, le “popolazioni locali ancorate al suolo”, le “comunità che offrono rifugio e protezione”. E queste sono le realtà che si manifestano nei nazionalismi di ultima generazione, negli smembramenti ad Est, nei sovranismi.
- Il ritorno alla disuguaglianza. Che la povertà soprattutto relativa aumenti è evidente. Dopo il “trentennio glorioso del secondo dopoguerra “(‘50-‘80) abbiamo assistito all’aumento della distanza tra ricchi (sempre più ricchi) e poveri. Avidità del capitalismo, capitalismo finanziario, forme di liberalizzazione economica, debolezza dell’azione di contrasto delle democrazie sociali occidentali, hanno riportato indietro le lancette del tempo, ad un periodo precedente a quello fondativo dopo la Seconda guerra mondiale.
- Il ritorno al grembo materno. Da un punto di vista antropologico e psico-sociale, prevale il rancore, il narcisismo. “Pericoli e incertezza, sensazione di vuoto interiore nascono dalle condizioni inumane che permeano la società americana” dice Bauman riprendendo parole di Lasch, per cui “ormai conta solo essere sé stessi e pensare a sé stessi” e l’unica compagnia raccomandata al sé solitario è quella che si può acquistare sul mercato dei consulenti e terapeuti”. “E tutto ciò sgorga sostanzialmente dalla stessa fonte: dal terrore del futuro, incorporato nell’imprevedibile, esasperante e incerto presente”.
L’utopia sostenibile di Enrico Giovannini
A fronte di questa deriva retro-topica, il movimento legato agli obiettivi dello sviluppo sostenibile ed ai principi dell’Enciclica Laudato Si’ rappresenta una alternativa importante. Partendo dalla responsabilità nei confronti del futuro e delle future generazioni, il contributo di Enrico Giovannini, con il suo “L’utopia sostenibile” (Laterza 2018), pone l’accento sull’importanza dell’immaginazione e del pensiero utopico, parlando proprio di “immaginazione utopica”.
La “tempesta perfetta”, prevista già dal Club di Roma nel 1972 (The limits of Growth, Universe Press NY 1972), e poi da vari altri studiosi e scienziati, consiste in “un tracollo della civiltà” a seguito degli shocks estremi cui il mondo è sottoposto, così estremi che le capacità di adattamento vengono meno e le soluzioni non sono facilmente individuabili e perseguibili. Un tracollo che deriva dalla impossibilità di perseguire il “soddisfacimento dei bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (Rapporto Brundtland, Our common future, 1987). Per cui, arrivati a questo punto occorre immaginare un cambiamento di paradigma vero e proprio.
I 17 Obiettivi dell’Agenda Onu 2030 vengono sintetizzati con una serie di statements che si aprono con “Noi immaginiamo”. Una vera e propria Utopia, contro la Distopia dilagante e che vede solo le negatività. Utopia sostenibile in vari sensi: per le generazioni future, per il globo intero e per la sua realizzabilità. Mentre è evidente, come si dice nel testo, che sta ora all’umanità ed alle istituzioni recepire questo monito e trovare le soluzioni per contrastare la deriva presentista, distopica e retro-topica che ha caratterizzato gli ultimi decenni, a cominciare dal rapporto tra generazioni.
Il futuro del rapporto intergenerazionale
Volendo applicare questa impostazione alla questione del rapporto tra generazioni, sia ai nostri giorni che per il futuro, appare evidente che esistono poche insindacabili certezze e molte incertezze ed ambiguità, e che dunque anche in questo caso molte sono le piste che possiamo intraprendere per dare un senso nuovo e più positivo alla realtà delle cose. Le certezze, da cui non si può prescindere sono sostanzialmente quelle della demografia, che ci mostra con pochissimi margini di errore l’evoluzione dell’occidente verso la crescita della componente anziana della popolazione e la drastica riduzione di quella giovanile, e dunque verso una rottura degli equilibri consueti del passato in termini economici, sociali, familiari e di welfare. Il che ha indotto non pochi analisti ed osservatori a ipotizzare una situazione di crescente conflitto intergenerazionale e di tracollo economico e sociale.
Ma a ben vedere, per quanto riguarda il resto, non tutto è definito nella evoluzione futura del rapporto tra generazioni, ed esistono molte variabili in gioco su cui è possibile intervenire a favore di una immaginazione utopica che rimetta al centro dello sviluppo la giustizia ambientale, climatica, economica e sociale. Vicoli ciechi che possono trasformarsi in strade aperte nella misura in cui sapremo imprimere il giusto verso alle tendenze in atto. Ed ecco alcuni esempi.
- Il fantasma dello scontro generazionale o del distacco tra generazioni è messo radicalmente in crisi dalla realtà dei fatti che ci indica come vi siano molti segnali di segno contrario: dalla soddisfazione per i propri rapporti familiari, espressa sia da giovani che da anziani, al valore crescente della convivialità nella vita quotidiana all’interno delle famiglie e dei nuclei di convivenza primaria, spesso a carattere intergenerazionale, al peso degli aiuti forniti in ambito familiare da parte degli anziani nei confronti dei giovani, ma anche viceversa.
- I dati assai problematici specie in Italia dei giovani che non lavorano e non studiano (i cosiddetti Neet) vanno letti alla luce della realtà assai cospicua e degna di maggiori attenzioni dei tanti giovani che svolgono attività di volontariato, di associazionismo civile, di testimonianza e di impegno sociale. Il che rimanda ad un quadro interpretativo dal punto di vista sociologico che deve cercare di dare un nuovo impulso al tentativo di andare oltre il tema del disagio giovanile e delle cosiddette “passioni tristi”, per rivalutare l’impegno giovanile e le passioni positive (dal Movimento Fridays for future, alle Sardine, al tantissimo volontariato laico e religioso).
- Il tema della fragilità degli anziani, della non autosufficienza, delle pluri-cronicità, dell’aumento delle patologie degenerative e della solitudine anziana va controbilanciato con l’attenzione per il fenomeno del cosiddetto “invecchiamento attivo”, vale a dire per quella realtà di grande vitalità, impegno, partecipazione che tante persone, che hanno superato la soglia universalmente considerata come l’inizio dell’età anziana, vivono. La formazione permanente, l’associazionismo anziano e la partecipazione al mondo della cultura di tante persone over 64 fa parte di questo quadro assai articolato di “non fragilità”.
- È sicuramente vero che viviamo in un’epoca di crescente individualismo e solitudine, e questo riguarda tutte le generazioni. Ma è altrettanto vero che mai come oggi solitudine e individualismo sono controbilanciati da crescenti momenti di socializzazione, specie tra i giovani ma non solo, da forme nuove e più intense di comunicazione interpersonale e di gruppo, con i social network ma non solo, e soprattutto da un bisogno intrinseco in ogni persona di relazioni umane e sociali significative, che non sempre trova risposte adeguate ma che pure esiste ed è forte.
- I fenomeni di chiusura nei confronti del diverso da sé, degli stranieri, dei migranti e dei profughi, ma anche dei poveri che vivono accanto a noi, sono sicuramente in crescita e costituiscono un elemento particolarmente preoccupante delle tendenze al ritorno al passato ed all’odio sociale, ma al tempo stesso non bisogna dimenticare quanto i processi di incontro tra culture e società, di globalizzazione nel campo della produzione e della fruizione culturale, specie musicale, di ibridazione tra culture, filosofie e società siano anch’essi in netta espansione.
Molti altri esempi si potrebbero fare sul lavoro che manca e sui lavori nuovi che si stanno sviluppando e prefigurando; o sulle disuguaglianze di genere ed i progressi che hanno investito la componente femminile della popolazione negli ultimi decenni e nonostante le spinte contrarie.
Sta quindi a noi, alle società dell’oggi, agli individui, alle istituzioni, ai referenti dei vari mondi dell’economia, della cultura, dello sport, della politica, porsi seriamente l’obiettivo di analizzare la realtà con i suoi rischi e le sue opportunità, e compiere le scelte giuste per il bene comune dell’umanità, del pianeta, di tutte le specie viventi, rifuggendo dalla retrotopia, dalla nostalgia, dalle forme di guerra di tutti contro tutti, dal ritorno alle tribù chiuse ed alla disuguaglianza, con coraggio utopico. Ed i principi enunciati nel Progetto Next generation Eu, assieme ad i segnali che è possibile cogliere nei movimenti per l’ecologia globale ed il consumo responsabile, per la generatività e per l’intelligenza creativa applicata a una tecnologia umanizzata ed umanizzante fanno ben sperare.
di Carla Collicelli, sociologa del welfare e della salute, Associate Researcher presso Cnr – Cid Ethics, docente Sapienza Combiomed, Senior Expert di ASviS per le Relazioni Istituzionali e Referente per il Goal 3