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Il confronto planetario per i metalli rari

Sono poco conosciuti dal grande pubblico, ma sono alla base della produzione dei beni più importanti utilizzati dalle società avanzate, dai computer agli smartphone, dai pannelli solari alle pale eoliche. Domina il mercato la Cina, che ne produce il 95% del totale mondiale. In un quadro di dipendenza di tutti gli altri Paesi che potrebbe innescare conflitti. Specie con gli Stati Uniti.

di Enrico Sassoon 

Da qualche mese la ripresa economica mondiale è pienamente in atto. Si tratta di un rimbalzo forte, inevitabile dopo il crollo del Pil del 2020, generato dalle chiusure delle attività in tutti i Paesi colpiti dalla pandemia. Ma non meno reale e benvenuto. Qualche preoccupazione per gli effetti collaterali di una ripresa così forte è però rapidamente emersa. La ripresa dopo-pandemia genera soddisfazione per gli elevati tassi di crescita che si registreranno nel 2021, ma anche timori per tassi d’inflazione che non si vedevano da decenni. E, per l’inflazione, l’attenzione è rivolta ossessivamente verso le decisioni della Fed, alle analisi dei suoi comitati, alle dichiarazioni più o meno velate dei suoi responsabili, a partire dal suo presidente, Jerome Powell. si teme che troppa inflazione porti a indesiderati aumenti dei tassi che ridurranno la crescita.

Minore attenzione viene però dedicata a una componente fondamentale dell’inflazione: il rincaro delle materie prime su scala mondiale, che genera timori presso gli esperti ma certamente viene meno osservato dall’opinione pubblica. La ripresa del 2021 si poggia su questo rincaro che ha portato i prezzi di molte commodity ad aumenti senza precedenti e gli indici a triplicare in pochi trimestri. Dunque, se la prospettiva d’inflazione preoccupa, uno dei segmenti più delicati è rappresentato proprio dai prezzi delle commodity. Ma è un timore con ogni probabilità destinato a rientrare. I rincari sono infatti il risultato di ragioni specifiche emerse proprio a causa delle chiusure di attività nel periodo acuto della pandemia. A causa di queste chiusure si sono creati colli di bottiglia nella produzione di molte materie prime e, quando la domanda è ritornata, le limitazioni produttive si sono fatte sentire. Una situazione che i più ritengono temporanea. I colli di bottiglia sono in via di superamento e gli stessi rincari rappresentano il motore di convenienza che spinge ad aumentare la produzione delle materie prime in sofferenza. Non a caso, l’indice citato prevede un ritorno ai livelli del 2017 già dal 2023, con una discesa dei prezzi che avrà inizio già dai primi mesi del 2022.

In questi termini la questione potrebbe sembrare chiusa. E questa è probabilmente l’opinione prevalente. Ma non potrebbe essere più sbagliata. È ben vero che i rincari del 2020 e 2021 sono destinati a rientrare in tempi relativamente brevi, ma la questione ha dimensioni ben più vaste di quanto si veda a prima vista. Il fattore di norma trascurato ha a che fare non tanto con le più note e diffuse materie prime come quelle citate, ossia ferro, rame, alluminio e legname, né con fonti di energia come petrolio, gas o carbone, bensì con quel gruppo di risorse che va sotto il nome di metalli rari e di terre rare come ad esempio il litio, il cobalto, il neodimio, il gallio, il germanio o il tantalio. Ma anche altri metalli assai meno noti e con nomi spesso misteriosi ed esotici: lantanio, cerio, promezio, gadolinio, erbio, disprosio e altri ancora. Sono sostanze che vengono utilizzate, sia pure in proporzioni minime, in moltissimi prodotti che sono alla base della società contemporanea, e lo saranno sempre più in futuro: laser, schermi per ogni applicazione, smartphone, computer, dispositivi di telecomunicazione, ma anche magneti, motori elettrici e armi di nuova generazione.

All’insaputa di molti, dunque, e cinquant’anni dopo i primi allarmi sul possibile esaurimento fisico delle risorse lanciato dal Club di Roma con il famoso rapporto I limiti allo sviluppo, siamo grandiosamente entrati in una nuova era tecnologica condizionata dalle terre rare.

Prendiamo come esempio lo smartphone, dispositivo ormai insostituibile per l’altissimo e sempre crescente numero di funzioni che svolge. Nato come telefono portatile, e già questa fu una rivoluzione, è oggi posizionatore globale, navigatore, banca dati, riproduttore musicale, macchina fotografica, registratore di suoni e immagini, calendario e agenda, timer, cronometro e altro, solo restando in un campo tradizionale. Ma è ormai divenuto anche conto corrente, sistema di pagamento, strumento d’investimento, dispositivo di connessione con l’amministrazione pubblica e, nell’insieme, depositario della nostra completa identità digitale. Bene, in questo strumento è presente la quasi totalità dei metalli rari: le batterie sono fatte di cobalto, estratto prevalentemente in Congo, e litio, che viene quasi interamente dalla Cina; nella componente elettronica si trovano il gallio che arriva dal sud della Cina, il tantalio del Mozambico, e il gadolinio di origine brasiliana. Nello schermo ci sono parti di ittrio, indio e disprosio. Altre terre rare, in proporzioni minori, entrano nel telaio e nelle connessioni interne. Senza questa serie di metalli rari possiamo dimenticarci questo strumento magico.

Prendiamo casi forse meno eclatanti ma altrettanto fondamentali. In un’auto elettrica troviamo lantanio e cerio nelle batterie ibride; cerio, lantanio e zirconio nel convertitore catalitico, neodimio nei magneti del motore elettrico e nei fari, europio e ittrio nello schermo di bordo, ittrio nei sensori, neodimio, praseodimio, disprosio e terbio nel generatore e motore elettrico. La situazione è analoga per alcune delle tecnologie su cui punteremo sempre di più negli anni e nei decenni, specie nel campo della transizione energetica e nella sostituzione di energie fossili con energie rinnovabili. Pale eoliche e pannelli solari richiedono materiali sempre più sofisticati, ma anche molto rari e costosi e fortemente inquinanti, sia in fase di produzione che di consumo. È certamente il costo da pagare per un contrasto al cambiamento climatico che impone il passaggio accelerato a nuove fonti di energia e la decarbonizzazione di quelle più utilizzate, ma è una realtà di cui rendersi consapevoli.

Il punto fondamentale, di norma è poco considerato, è proprio questo. Le terre rare sono l’elemento centrale della nostra epoca ma da un lato si trovano in uno o pochi Paesi produttori e da un altro lato sono caratterizzate da processi produttivi fortemente inquinanti, che è anche il motivo per cui si producono solo in alcuni Paesi. Semplificando, si può ben dire che se la Gran Bretagna ha dominato il XIX secolo grazie al carbone e gran parte degli eventi del XX secolo sono riconducibili al predominio sul petrolio di Stati Uniti e Arabia Saudita, il XXI secolo si focalizza su metalli rari e terre rare, e qui lo Stato indubbiamente predominante è la Cina, sia sul proprio territorio che altrove, per esempio in Africa. Poiché l’industria tecnologica, a partire da quella informatica, e l’industria delle rinnovabili sono i primi utilizzatori di metalli e terre rare, non possono essere trascurate o sottovalutate le implicazioni economiche e strategiche di quella che si avvia a essere una dipendenza eccessiva dalla Cina stessa.

L’altro elemento è quello produttivo. La famiglia di circa trenta metalli rari di cui stiamo parlando ha in comune una caratteristica che è alla base della denominazione di metalli rari e di terre rare. Sono presenti in quantità minime associate di norma a metalli più abbondanti o nelle rocce terrestri, e la loro estrazione richiede processi costosi e molto inquinanti. Vanno purificate otto tonnellate e mezza di roccia per produrre un chilo di vanadio, sedici per un chilo di cerio, cinquanta per un chilo di gallio e duecento per un chilo di lutezio. I processi di separazione richiedono l’utilizzo di acido solforico e altre componenti chimiche fortemente inquinanti, con effetti sul territorio ma anche sulla salute sia di chi lavora alla produzione sia delle popolazioni circostanti. Motivo per il quale, chiarisce l’Unione europea, la maggior parte di queste attività avvengono o in Cina o in alcuni Paesi dell’Africa e dell’America Latina dove i requisiti ambientali sono più bassi.

Appunto la Cina. Ogni anno l’United States Geological Survey (USGS) pubblica un rapporto di grande importanza, il Mineral Commodities Summary, che analizza la situazione delle circa 90 materie prime indispensabili per le nostre economie. L’ultimo rapporto rivela una situazione allarmante relativa alla Cina, che risulta il produttore del 44% dell’indio consumato nel mondo, il 55% del vanadio, il 65% della fluorite e della grafite naturale, il 71% del germanio, il 77% dell’antimonio, il 61% del silicio, il 67% del germanio e l’84% del tungsteno. E le terre rare? Qui si tocca il vertice con il 95% di tutto ciò che è prodotto al mondo.

Dal punto di osservazione europeo è una situazione piuttosto scomoda. Ancor di più se si considera che la Repubblica Democratica del Congo produce il 64% del cobalto, il Sudafrica l’83% del platino, dell’iridio e del rutenio, il Brasile il 90% del niobio, la Russia il 46% del palladio. L’Europa dipende poi dagli Stati Uniti che producono il 90% del berillio.

In una situazione di normalità questa distribuzione di risorse non comporta né particolari problemi di approvvigionamento né sensibilità di tipo geo-strategico. In fondo, è dall’esportazione di materie prime che dipende la prosperità di molti Paesi che, dunque, hanno poco interesse a creare situazioni di scarsità o a utilizzare le risorse come strumento di ricatto per ottenere concessioni o bilaterali o multilaterali. Certo succede, ma di norma i mercati mondiali svolgono con regolarità la funzione di equilibratore dei flussi e dei prezzi. Il problema si può invece porre in frangenti meno normali. Per esempio, in una crisi come quella pandemica, che ha imposto per un certo periodo la chiusura delle attività economiche in quasi tutti i Paesi e il crollo degli scambi interazionali. Ma ancor più nel caso di un conflitto sia di tipo tradizionale, sia di tipo nuovo. Non necessariamente, dunque nel caso di una guerra ma anche nel quadro di una crisi strategica di ampia portata.

Non a caso, infatti, quando si parla di materie prime e del predominio cinese, gli scenari di conflitto guardano sempre più alla Cina e al Mar Cinese Meridionale come teatro di scontro. Da lì passano infatti il 60% degli scambi mondiali e in quell’area si affacciano molti Paesi asiatici con interessi spesso in contrasto con quelli cinesi. È, d’altra parte, nel South China Sea che gli strateghi americani collocano i loro game war e che gli analisti dirigono i loro studi. E persino i romanzieri: un bestseller negli Stati Uniti è il romanzo 2034, di due ex ammiragli americani che si immaginano in quell’anno lo scoppio della terza guerra mondiale innescata da uno scontro in quei mari tra la flotta cinese e quella americana. Sottotitolo del libro è infatti, significativamente, A novel of the next world war.

Non si arriverà, sperabilmente, a tanto, ma non c’è dubbio che la nuova realtà geopolitica e geoeconomica abbia oggi e in futuro un punto focale che ruota attorno ai metalli rari e al predominio cinese su di essi, così come nei decenni passati il baricentro delle crisi era collocato in Medio Oriente e basato sul petrolio. Un quadro destinato a crescere di importanza che, con ogni probabilità, attirerà sempre di più non solo l’interesse degli esperti, ma anche l’attenzione consapevole di un’opinione pubblica finora poco informata su queste poco conosciute realtà.

di Enrico Sassoon, Direttore responsabile di Harvard Business Review Italia.

mercoledì 29 settembre 2021