Essere cacciate dallo spazio pubblico, questa la posta in gioco
Occorre promuovere un ragionamento pacato e razionale sulle quote di genere. Nonostante i difetti, possono aprire una strada alle donne verso ruoli di prestigio.
di Annamaria Vicini
L’immagine di Ursula von der Leyen seduta su un divanetto laterale come fosse un’ospite inattesa e sgradita mentre Erdogan e Charles Michel, accomodati su due poltrone affiancate, occupano il centro della scena, resterà a lungo nel nostro immaginario come plastico esempio di arroganza di un potere fondato sul patriarcato.
Il fatto poi che sui social molti e molte abbiano commentato criticando la presidente della Commissione europea perché ha accettato di rimanere invece di abbandonare polemicamente la scena, non fa che rinforzare questa immagine. Le donne, qualunque cosa facciano, sbagliano. Quindi è meglio che se ne stiano a casa, o comunque in luoghi defilati e marginali, in ogni caso fuori dalla scena pubblica.
Perché questa è la posta in gioco: restare, e restarci in modo sempre più importante e significativo, sulla scena pubblica, o essere ricacciate nel privato, ancelle della famiglia anche quando le famiglie si sgretolano e non si fanno più figli.
Ma le donne sono consapevoli della partita che si sta giocando?
Il dubbio sorge perché spesso si levano proprio dalle donne reazioni inorridite al solo pronunciare il termine “quote rosa”, espressione forse non felicissima che quindi sostituiremo con “quote di genere” anche se il contenuto non cambia (ma bisogna fare attenzione a non creare suscettibilità, di questi tempi).
Anche recentemente (era il giorno di Pasqua), durante un dibattito organizzato dalla casa editrice Laterza, una nota giornalista de La7 e una altrettanto nota accademica hanno duettato respingendo l’idea delle quote di genere “perché io non vorrei mai sentirmi una quota, ma vorrei essere scelta per merito”.
E non è una posizione isolata.
Verrebbe da chiedersi in quale società vivano, considerato che in Italia la mancanza di meritocrazia costringe ogni anno migliaia di giovani (ragazzi e ragazze) ad andare all’estero, dove trovano aziende che sanno apprezzare il loro corposo corso di studi e le loro competenze in ambito tecnologico. Quelle competenze che le aziende italiane non hanno saputo apprezzare, salvo poi lamentarsi perché non trovano figure specializzate.
Ma trattandosi spesso di donne scolarizzate e colte, come sicuramente sono le due partecipanti al dibattito, deve esserci qualcosa che va al di là della mera conoscenza dei dati di fatto.
Forse è quel senso di inferiorità che le donne si portano dietro e che non sembra essere mai del tutto superato, che le fa sentire sempre inadeguate e le spinge a voler dimostrare di essere più brave dei colleghi maschi i quali spesso non si pongono affatto il problema di essere scelti per meriti e competenze. Un senso di inferiorità e una paura di sbagliare che, mescolati con un’aspirazione alla perfezione, creano la giusta miscela per tenere le donne rinchiuse nel privato o, quando coraggiosamente decidono di mettersi in gioco nel pubblico, di occupare solo strapuntini scomodi e periferici.
Sarebbe auspicabile un ragionamento pacato e razionale sulle quote di genere, che sicuramente hanno dei difetti ma in mancanza di altre misure atte a garantire la parità di accesso nei luoghi dello spazio pubblico possono comunque aprire una strada. Come in effetti l’hanno aperta nei consigli di amministrazione delle imprese quotate grazie alla legge Golfo-Mosca, anche se una valutazione critica della stessa porta a dire che non basta garantire l’accesso se poi rimangono precluse le posizioni-chiave.
L’Europa, dove mai come in questo momento alcune donne stanno occupando ruoli prestigiosi, ci dice per esempio che nei Paesi del Nord dove le quote di genere sono state utilizzate appieno il modello di società è decisamente più paritario. Anche perché alle quote si è affiancato un sistema di welfare che facilita la conciliazione tempi di vita/tempi di lavoro e non solo per la componente femminile ma per entrambi i membri della coppia.
Più recentemente altri Paesi stanno progredendo in quella direzione, come la Spagna dove la legge elettorale stabilisce una presenza minima del 40% (e massima del 60%) sia di uomini che di donne nelle liste, ma anche dove ben sette partiti hanno adottato un proprio sistema di quote volontarie.
Anche l'Italia dispone di quote sia legislative che volontarie, ma tra i partiti rappresentati in Parlamento uno soltanto le ha istituite al proprio interno prevedendo il 50% di presenza femminile nelle liste elettorali.
Pur avendo fatto qualche progresso, la situazione nel nostro Paese resta complessivamente ferma al palo, in particolare per quanto riguarda l’accesso al mondo del lavoro.
In un recente documento della Camera dei deputati si legge:
“I punteggi dell'Italia sono inferiori a quelli dell'Ue in tutti i settori, ad eccezione di quello della salute. Le disuguaglianze di genere sono più marcate nei settori del potere (48,8 punti), del tempo (59,3 punti) e della conoscenza (61,9 punti). L'Italia ha il punteggio più basso di tutti gli Stati membri dell'Ue nel settore del lavoro (63,3). Il suo punteggio più alto è nel settore della salute (88,4 punti)”.
Di fronte a una fotografia così poco attraente forse è il caso di abbandonare la predisposizione alla tifoseria che tanto ci affligge (quote sì, quote no) e cominciare a ragionare su “quote sì, ma…” o “quote no, ma…”, trovando correzioni laddove servano o alternative valide in caso di totale inadeguatezza: per esempio, nonostante la legge 20 del 2016 volta a garantire l’equilibrio tra donne e uomini nei consigli regionali, la presenza femminile sia nei consigli che nelle giunte risulta ben al di sotto del 30%.
E sarebbe utile anche allargare lo sguardo oltre i nostri confini, guardando le donne che in Europa si stanno mettendo in gioco, come la presidente von der Leyen, senza tenere il dito puntato per sottolineare ogni loro minimo (vero o presunto) sbaglio, ma sostenendole nell’affrontare compiti giganteschi se consideriamo anche la situazione di pandemia che stiamo vivendo.
di Annamaria Vicini, giornalista pubblicista, ha collaborato con alcune delle maggiori testate nazionali e cura un blog di successo. Ha fondato l’associazione CoderMerate, che promuove l’insegnamento del coding e della robotica educativa a bambini e adolescenti. Ha pubblicato il romanzo Non fare il male, e l’eBook Abbracciare il nuovo mondo. Le startup cooperative.