La schiavitù della bellezza
Nella nostra società vige ancora la “supremazia” di un modello che spinge a desiderare un determinato aspetto anche chi, per origine, ne possiede un altro, con un costo psicologico e sociale molto alto. Bisogna "decolonizzare" la bellezza.
di Victoria Romano
In tutto il mondo, il concetto di supremazia razziale ha influenzato negativamente la vita di milioni di persone. Negli Stati Uniti, sono soprattutto gli afroamericani a essere stati vittimizzati sulla base del colore della loro pelle e per molti autori di colore la letteratura è diventata un importante veicolo per rappresentare questa situazione, esponendone la disuguaglianza e l'ingiustizia sociale. The Bluest Eye, scritto da Toni Morrison, una delle mie scrittrici preferite, mette in luce come lo standard di una perfetta bellezza bianca, capelli biondi e occhi azzurri, abbia influenzato la vita di una generazione di ragazzine afro-americane, votandole a un ideale irraggiungibile, e portandole a disprezzare il proprio aspetto e a ignorare la propria bellezza.
Nel romanzo, Toni Morrison (pseudonimo di Chloe Ardelia Wofford) propone una nuova interpretazione dell'identità femminile afroamericana, esaminando il problema di crescere neri e femmine in una società che equipara la bellezza al bianco degli occhi azzurri. La protagonista, Pecola Breedlove, vive un'infanzia di abusi e violenze, e la sua ossessione per quella bellezza ideale la porta tragicamente all'autodistruzione. Il romanzo segue il periodo di tempo dell'infanzia di Morrison, l’America degli anni ‘40, e descrive la realtà di un contesto culturale emarginato che probabilmente ha vissuto in prima persona da bambina.
L'ideale dominante della bellezza bianca e della perfezione estetica derivava dalla cultura pop americana degli anni '30 e '40, in cui la pubblicità dei media spesso inducevano gli afroamericani a mettere in dubbio il loro valore. Tutti i personaggi del romanzo sono costantemente sottoposti a immagini di irraggiungibile bellezza bianca propugnata nei film, libri, riviste, giocattoli e persino attraverso il packaging della maggior parte dei beni di consumo disponibili in quel periodo. Shirley Temple e la sua bellezza simile di bambola bionda sono un motivo ricorrente e un'ossessione per i protagonisti del libro. La signora Breedlove trascorre le sue giornate disperate al cinema ammirando le attrici bianche, desiderando invano di poter accedere al loro mondo, perpetuando il suo senso di inferiorità e commiserazione.
La storia mette in luce l’etnocentrismo istituzionalizzato del logos dei bianchi e il modo in cui gli standard bianchi sono intrecciati nella trama stessa del tessuto della storia americana. Ho trovato molto interessante questo libro, la cui lettura è a tratti sconvolgente per la crudezza di certe descrizioni di violenza. Il punto di vista che offre sull’immagine di sé delle giovani donne afroamericane del secolo scorso aiuta a capire fenomeni attuali ancora oggi.
Purtroppo nella nostra società, vige ancora la “supremazia” di un modello di bellezza che spinge a desiderare un determinato aspetto anche chi, per origine, ne possiede un altro. Spesso con un costo psicologico e sociale molto alto.
Molti credono ancora che la pelle chiara sia simbolo di successo, fortuna, soldi, e popolarita'. Per questo, si sottopongono a trattamenti inutili e pericolosi, che promettono una carnagione più chiara, in linea con i modelli propugnati dalla pubblicità e dai social. I rischi sanitari legati all'uso di questi prodotti cosmetici sono elevatissimi.
Perché, dopo anni di battaglie razziali, sostenute oggi anche da grandi leader moderni come Michelle e Barack Obama, Oprah Winfrey e la splendida Amanda Gorman, i giovani di colore fanno fatica ad accettare la loro identità e a celebrarla?
Il mondo ha davvero fatto dei passi avanti da quando un idolo come Michael Jackson, adorato da milioni di fan in tutto il mondo, sentiva ancora la schiavitù di sottoporsi a interventi di chirurgia plastica che promettevano di renderlo più "ariano"? Purtroppo, no. È come se certi canoni estetici fossero iscritti nel Dna della nostra cultura, derivando da secoli di imposizioni frutto di un potere dominante fortemente razzista e suprematista.
Io credo che la bellezza non dovrebbe mai essere soggetta a uno stereotipo generalizzato, a un ideale di perfezione a cui aspirare, per nessuno di noi. Per fortuna a livello nazionale e internazionale, si moltiplicano le voci sulla necessità di "decolonizzare la bellezza" e anche nel mondo della pubblicità, della moda e del make-up qualcosa sta cambiando.
Spero in un futuro in cui tutti possano riconoscere la varietà che crea bellezza nel mondo: ogni singola caratteristica personale, tutto ciò che ci rende veramente unici e speciali, fa parte della bellezza che ognuno di noi può trasmettere, a prescindere dalla sua provenienza, dai tratti somatici o dal colore della pelle.
di Victoria Romano, 17 anni, di nazionalità neozelandese e italiana, è appassionata di scrittura e film. Contribuisce a U-Blog dal 2020