Un nuovo modo di sentirci umani: l’Ubuntu
Percepire la propria esistenza come connessa a quella di tutti tramite una rete di legami. Il termine zulu Ubuntu può insegnarci come modificare il nostro stile di vita dopo la pandemia, non più “penso dunque sono” ma “condivido dunque sono”
di Valeria Vaccari
La pandemia e i suoi effetti economici e sociali stanno provocando una drammatica rottura rispetto alle abitudini, agli stili di vita e alle sicurezze precedenti. È vero, tuttavia, che le crisi comportano difficoltà e pericoli ma anche opportunità. Aggiungendosi a fattori quali l’alterazione del clima, il sovrasfruttamento delle risorse, le migrazioni, il diffondersi del virus ha costretto l’intera umanità a interrogarsi sul proprio futuro giusto nel momento in cui la globalizzazione degli scambi e la condivisione delle informazioni consentono, o potrebbero farlo, una collaborazione efficace a vari livelli. Si sta facendo strada l’idea di un destino comune, al di là di opposti interessi e conflitti, con l’ambizioso quanto vitale obiettivo di un nuovo, efficace, condiviso umanesimo. Papa Francesco, con il consueto acume, ha incentrato su questo argomento la sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, stigmatizzando per prima cosa l’individualismo che permea la nostra civiltà. Com’è noto, questo costituisce un serio problema che alimenta l’indifferenza, la corruzione, le tendenze antidemocratiche, l’accumulazione predatoria che si diffonde a livello globale.
D’altra parte è la stessa globalizzazione che permette l’interscambio fra le culture favorendo una fertile cross-pollination di idee nell’ambito della scienza, dell’arte, della musica. E siccome l’individualismo è ormai diventato una Weltanschauung, una visione del mondo che partendo dall’occidente sta contagiando tutto il mondo, abbiamo pochi strumenti culturali per contrastarlo. Perché dunque non conoscere e sperimentare princìpi più funzionali di convivenza? A tale scopo è molto significativo quello africano di ubuntu. Il termine non è nuovo soprattutto perché collegato alla fine dell’apartheid in Sudafrica e alla elaborazione delle profonde ferite che essa aveva creato. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, promossa dal vescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace 1984, e da Nelson Mandela, riconoscendo l’interdipendenza reciproca fra gli esseri umani di ogni colore, ascoltò le testimonianze delle vittime così come dei perpetratori ponendo le basi della futura convivenza.
L’ubuntu è anzitutto una qualità personale di gentilezza, disponibilità, generosità, empatia. Il termine appartiene alla lingua del popolo zulu, che fa parte del grande gruppo dei bantu dislocato prevalentemente nell’Africa sudorientale. Ha dunque numerosi equivalenti nei vari paesi: gimuntu in Angola, muthu in Botswana, maaya in Costa d’Avorio e Sierra Leone, botho in Zimbabwe, bato in Cameroon e si apparenta anche alla ujamaa che negli anni ’60 del secolo scorso ispirò a Julius Nyerere, uno dei padri del movimento indipendentista dell’Africa orientale e primo presidente della Tanzania (all’epoca Tanganika) dopo la fine della colonizzazione britannica, l’idea di ‘socialismo africano’.
Le qualità descritte dall’ubuntu non sono soltanto modalità relazionali con cui un essere umano si rapporta agli altri ma costituiscono uno stile di vita, una scelta etica, una filosofia. Immaginiamo il piccolo villaggio africano tradizionale: ogni membro è strettamente legato agli altri negli affetti, nella quotidianità, nelle difficoltà da superare, negli eventi felici o infausti. La frase solitamente usata per spiegare l’ ubuntu è: “umuntu ngumuntu ngabantu” che si può tradurre come “io esisto perché gli altri esistono” oppure “la persona è una persona attraverso altre persone”. Si tratta, fra l’altro, di un principio assolutamente democratico perché l’interdipendenza esclude ogni forma di autoritarismo.
Se dunque l’esistenza di ognuno viene percepita come connessa a quella di tutti da una rete di legami si crea una prospettiva profondamente differente da quella occidentale, non “penso dunque sono” ma “condivido dunque sono”. Non mancano di certo, anche nella nostra cultura, concetti simili dalla ‘intersoggettività’ di Edmund Husserl al ‘nessun uomo è un’isola’ di John Donne a valori di antiche radici quali ‘responsabilità’, ‘fraternità’ e ‘solidarietà’, ma non si configurano con un tale carattere di esperienza profonda e vissuta.
Alcuni studiosi parlano dell’ubuntu come di una attuale ‘narrativa del ritorno’ alla più autentica tradizione dell’Africa, brutalmente impattata dal colonialismo. Sarebbe però molto vantaggioso se l’idea si diffondesse anche al di fuori del continente. Se consideriamo il ‘villaggio globale’, in cui eventi lontani e imprevedibili come quello di Wuhan finiscono per condizionare pesantemente gran parte dell’umanità, allora possiamo percepire in pieno il valore dell’ubuntu. Di recente, inoltre, si sta sviluppando il concetto di ecoubuntu o planetary ubuntu.
Secondo padre Orobator, teologo e rappresentante per l’Africa della Compagnia di Gesù, la rete di legami di cui l’africano si sente parte non comprende soltanto gli esseri umani ma anche, secondo la tradizione animistica, la natura. Da qui il rispetto, anzi la devozione per la sua sacralità e l’equilibrio nell’impiego delle risorse. Come non pensare alla visione complessa di Gaia, il pianeta terra come sistema vivente globale, elaborata da Lynn Margulis, o alle ricerche di Elinor Ostrom sulle comunità in grado di gestire le risorse naturali senza depredarle? Non soltanto, dunque, “condivido dunque sono”, ma anche “noi tutti siamo perché Madre Terra ci nutre”.
di Valeria Vaccari, azione culturale "Vivere insieme in pari dignità"