Le amministrazioni pubbliche nel Piano di ripresa e resilienza
Il processo di riforma non avrà né forza né orientamento se la Pa non imparerà ad essere aperta e capace di collaborare con il Terzo settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli interventi.
di Carlo Mochi Sismondi
Martedì 12 gennaio, dopo un lungo lavoro sia tecnico sia politico, è stata approvata dal Consiglio dei Ministri la bozza del Piano di ripresa e resilienza “Next Generation Italia” (da ora Piano) che definisce come dovranno essere spesi i circa 223 miliardi che assommano il RRF (Recovery & Resilience Facility) per circa 193 miliardi, gli altri fondi di NGEU per circa 17 miliardi e i fondi dei ReactEU per circa 13 miliardi. Un Piano che deve ridisegnare il nostro sviluppo e orientarlo verso una maggiore giustizia sociale ed ambientale, verso la trasformazione digitale, verso un rinnovato processo d’innovazione basato su educazione e ricerca.
In questo Piano una posizione di tutto rilievo ha il rafforzamento delle amministrazioni pubbliche sia dal punto di vista della transizione al digitale, sia per la maggiore attenzione alle persone, sia infine per una nuova spinta alla semplificazione verso servizi più semplici, veloci e vicini a cittadini ed imprese.
Non è questo il luogo per un esame approfondito, per altro il Piano ma dico subito che l’ultima versione del Piano è, specie in questa componente, decisamente migliorata rispetto alla prima bozza di dicembre, e che questi miglioramenti sono stati frutto di un intenso lavoro di confronto del governo con soggetti della politica e della società. Un confronto a cui anche noi di FPA, assieme agli amici del Forum disuguaglianze diversità e di Movimenta, abbiamo partecipato lanciando, già all’atto della divulgazione della prima bozza di Piano, una “ Proposta per la rigenerazione delle PA ” che ha avuto ampi e qualificati consensi nel mondo politico, scientifico e imprenditoriale.
Un piano migliorato quindi, ma ora è necessario che, nel corso delle prossime settimane, il governo (con la speranza che ce ne sia uno in grado di decidere) ed il Parlamento si impegnino in una ancor più decisa azione in due direzioni: individuare e dare forza con tempestività alle amministrazioni pubbliche, dai ministeri fino ai piccoli comuni, che collaboreranno all’attuazione dei progetti, anche attraverso assunzioni mirate e con metodi innovativi; evidenziare per ogni progetto i risultati attesi (non solo le realizzazioni), mettendo le PA nelle condizioni di raggiungerli autonomamente.
Altro punto fondamentale è l’orientamento ai risultati che impattano positivamente sulla qualità della vita dei cittadini, i cosiddetti outcome. Pur nella definizione dei necessari passi da fare (la digitalizzazione, il rinnovamento generazionale, la formazione dei dipendenti, la nuova organizzazione del lavoro), il Piano dovrebbe infatti definire e focalizzarsi sui risultati attesi dai cittadini e dalle imprese nei termini di una disponibilità di servizi semplici, veloci e vicini; di un facile accesso ai dati del patrimonio informativo pubblico; di una maggiore efficacia delle amministrazioni nel realizzare tutte le missioni strategiche che il Piano prevede.
Riguardo poi alla digitalizzazione della PA va certo accolta con favore il fatto che sia presente nel Piano la definizione di obiettivi chiari, la centralità del paradigma tecnologico del cloud computing, l’importanza attribuita ai dati e alla sicurezza. In questo campo, a cui FPA da sempre ha rivolto la massima attenzione e che seguiamo da oltre trent’anni, tre sono i progressi che vorremmo vedere nella stesura definitiva. Il primo è rendere esplicito il principio che i dati prodotti dal processo di digitalizzazione sono “bene comune” e indicare le modalità con cui questo principio potrà essere soddisfatto. Poi esplicitare per tutti gli interventi di digitalizzazione che la bussola di riferimento è sempre rappresentata dal miglioramento della qualità del servizio per gli utenti, chiarendo, dove non lo sono, i risultati attesi. E, infine, negli importanti progetti relativi alla formazione (dei dipendenti e della cittadinanza) rendere esplicito che le competenze da costruire riguardano non solo il “come” utilizzare le nuove tecnologie ma anche gli “scopi” per cui farlo e i rischi insiti in utilizzi che non tengano conto della diversità dei cittadini destinatari dei servizi.
Infine, rimane una qualche preoccupazione che si possa ritenere la digitalizzazione come un obiettivo autoconsistente e non invece uno straordinario e ineludibile strumento per attuare le politiche.
Un'ultima considerazione generale su tutta questa parte del Piano, ma possiamo dire su tutta la sua impostazione. Tutto questo processo di riforma non avrà né forza né orientamento se la PA non imparerà ad essere aperta e capace di collaborare con il Terzo settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte ed essere parte della loro realizzazione. Preoccupa in questo contesto che, nell’ambito della rimozione e posponimento delle scelte in tema di governance del Piano, sia venuta meno nell’attuale versione l’impegno per una “Piattaforma di Open Government per il controllo pubblico” che avrebbe dovuto garantire un controllo diffuso sul piano stesso, sulla spesa, le realizzazioni e i risultati, vigilando sui tempi e sulle modalità di erogazione delle risorse destinate ai singoli progetti. La partecipazione, l’accountability, il dialogo sociale non sono gadget da appiccicare ai progetti già più o meno definiti, ma, come tutti sappiamo e crediamo fermamente, sono parte integrante della progettazione e dell’esecuzione delle politiche. Di tutte le politiche e, a maggior ragione, di quelle che riguardano l’amministrazione pubblica che è, per sua stessa definizione, patrimonio di tutta la comunità nazionale.
di Carlo Mochi Sismondi, ideatore e fondatore di Forum Pa