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Verso un “pianeta vuoto”? Scenari e tendenze del declino demografico

La decrescita della popolazione è oggi una realtà per un esiguo numero di Paesi. Ma se la traiettoria è uguale per tutti, la tesi contenuta nel libro di Bricker e Ibbitson è che il futuro sarà molto diverso da quello che ci hanno raccontato finora.

di Roberto Paura

Una delle maggiori preoccupazioni della futurologia sociale negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era la sovrappopolazione. Nessun fenomeno rendeva così evidenti i rischi di una crescita esponenziale quanto l’esplosione demografica. Film di fantascienza come 2022: I sopravvissuti di Richard Fleischer (1973) o romanzi come Tutti a Zanzibar di John Brunner (1968) erano ambientati in un prossimo futuro dominato da una popolazione cresciuta a dismisura. Gli scenari del Club di Roma, analogamente, partivano dalla considerazione che un pianeta di risorse limitate non avrebbe mai potuto sostenere una popolazione mondiale in continua crescita e furono usati per lanciare proposte di pianificazione familiare con lo scopo di contenere l’andamento demografico esponenziale. Il caso più esemplare, com’è noto, è la politica del figlio unico in Cina.

 

Siamo stati bombardati così a lungo dal mantra "siamo troppi", che oggi è davvero difficile pensare che in realtà stiamo diventando “troppo pochi”. D’altronde, l’U.N. Population ci avverte che raggiungeremo i 9 miliardi nel 2050 e gli 11 miliardi nel 2100, per cui non sembra che la tendenza si stia invertendo. Ancora pochi anni fa Alan Weisman, l’autore del celebre Il mondo senza di noi, pubblicava Conto alla rovescia (2013), rilanciando la tesi secondo cui "per sopravvivere, dobbiamo abbassare in mondo umanamente accettabile i nostri numeri (…) altrimenti sarà la natura a farlo per noi, ridimensionandoci a furia di carestia, sete, caos climatico, ecosistemi al collasso, infezioni opportunistiche e guerre per accaparrarsi risorse più scarse".

 

Ma allora perché Darrell Bricker e John Ibbitson hanno scritto un libro in cui sostengono la tesi esattamente opposta, ossia Pianeta vuoto. Siamo troppi o troppo pochi? (in originale il sottotitolo è The Shock of Global Population Decline)? Uscito lo scorso anno e tradotto ora in italiano da add editore, si tratta della prima ampia rassegna sugli scenari del declino demografico e delle sue possibili soluzioni. Gli autori, due giornalisti canadesi, hanno girato il mondo per toccare con mano una verità di cui si sente parlare ancora troppo poco, ossia che se la popolazione mondiale continua a crescere, lo fa a un ritmo sempre più lento e – soprattutto – "nei prossimi decenni rallenterà ancora, si fermerà, e alla fine farà marcia indietro". Già oggi più di venti nazioni del pianeta sono ormai in piena decrescita. Tra queste, com’è noto, da qualche anno si è aggiunta l’Italia. Nel 2050 saranno 35.

 

Bricker e Ibbitson hanno messo innanzitutto in luce un megatrend rimasto a lungo eclissato dalla narrazione del baby-boom del secondo dopoguerra: il ritmo di crescita della popolazione occidentale era già in declino da un secolo e mezzo, e il boom demografico tra gli anni Cinquanta e Settanta non è stato che una parentesi. In Francia, il calo del tasso di fecondità – il dato essenziale che ci dice la media di figli per donna, che dev’essere superiore a 2,1 per avere una popolazione in crescita – iniziò addirittura nel Settecento. Non deve sorprendere: sappiamo da tempo che sono due i fenomeni che favoriscono un rapido declino del tasso di fecondità, vale a dire l’urbanizzazione e la crescita dei redditi. Entrambi questi fenomeni incidono specialmente sull’emancipazione femminile: nelle grandi città, le donne non devono sfornare figli per fornire al capofamiglia braccia in più per coltivare i campi e possono, piuttosto, istruirsi e trovare a loro volta un impiego; con l’aumento del reddito pro capite, analogamente, si investe di più in istruzione e nasce un ceto medio che ha nella famiglia con due figli il suo modello ideale. Queste tendenze sono in azione da secoli in Occidente, ma solo recentemente hanno iniziato ad accelerare vertiginosamente nei paesi emergenti: basti pensare che la maggior parte della crescita dell’urbanizzazione in questo secolo si verificherà in Africa, dove nasceranno a breve nuove megalopoli in cui si concentrerà la popolazione in fuga dalle campagne. Cina e India stanno invece vivendo una spettacolare (benché più marcata in Cina, più lenta in India) ascesa della classe media. Il risultato è che i tassi di fecondità in questi paesi sono rapidamente in calo e questo significa, secondo i due autori di Pianeta vuoto, che le stime della U.N. Population sono sbagliate, perché l’inversione di tendenza nei paesi emergenti accadrà più velocemente del previsto.

 

Guardiamo al caso africano. È qui, infatti, secondo i demografi delle Nazioni unite, che si avrà la maggiore crescita della popolazione nel corso del secolo. L’Africa sembra destinata a passare da 1,2 miliardi di abitanti di oggi a 4-5 a fine secolo. La Nigeria è il Paese che avrà la maggior crescita della popolazione, da 195 milioni di oggi a quasi 800 milioni nel 2100. Ma non è affatto detto che sarà così. Proprio quegli stessi fenomeni di urbanizzazione e crescita del reddito che hanno permesso di ridurre il numero di figli per donna nei paesi occidentali sono oggi in corso in Africa, dove l’accesso all’istruzione è diventato prioritario e punta alla piena parità di genere. In Kenya la fecondità è scesa da 4,9 figli per donna nel 2003 a 3,9 nel 2014: un crollo spettacolare che dimostra quanto velocemente può avvenire la transizione demografica in una fase di forte accelerazione dei cambiamenti quale quella che sta vivendo il continente africano. Lo scenario degli autori di Pianeta vuoto è quindi molto diverso da quello dell’Onu: dopo aver toccato il picco di 8,5 miliardi di abitanti nel 2050, la popolazione declinerà a una velocità tale da tornare a 7 miliardi (meno della popolazione attuale del mondo) a fine secolo.

 

Se questo scenario fosse vero, allora dovremmo iniziare a preoccuparci esattamente del contrario di ciò su cui ancora si concentrano i demografi internazionali, vale a dire il controllo della popolazione. E infatti in Europa il problema più sentito è esattamente l’opposto: come riportare verso l’alto il tasso di fecondità. Il problema è che esiste un fenomeno chiamato "trappola della fecondità": una volta scesi sotto il livello di sostituzione di 2,1 figli per donna, ogni politica di sostegno alla natalità fallisce nel riportare il tasso sopra tale soglia. Si può leggermente migliorare la situazione, come mostrano i paesi scandinavi, con grandi investimenti di welfare, tra cui congedi parentali lunghissimi, assegni sostanziosi per ogni nuovo figlio, asili nido gratuiti. Ma non si può invertire la tendenza, che è di tipo culturale. Su questo punto, l’intuizione degli autori è cinica ma penetrante: "Per una coppia giapponese – o sudcoreana, tedesca o canadese – fare un figlio non è più un obbligo verso la famiglia, verso il clan, verso la società o verso Dio. È un modo di vivere la propria vita e di esprimere sé stessi: qualcosa di molto più importante dell’arredamento anni Cinquanta del salotto, o di quelle due settimane trascorse nella giunga del Costa Rica, o di quel fantastico, per quanto precario e sottopagato, nuovo lavoro da grafico, ma pur sempre parte di questo continuum".

 

Una società individualista che tende alla massimizzazione della propria soddisfazione personale tenderà a fare meno figli. Quando gli autori ne parlano con alcune giovani coppie di Bruxelles, impegnate nelle loro carriere professionali, l’idea del declino demografico appare loro inizialmente positiva: significa "più spazio", "più posti di lavoro", "case più economiche", "tutto più economico". Ma quando vengono sollecitati a riflettere sul fatto che ci saranno anche meno contribuenti per finanziare assistenza sanitaria e pensioni quando saranno vecchi, meno persone che comprano casa, dunque calo dei prezzi degli immobili e quindi contrazione dei risparmi, meno consumatori e quindi meno crescita economica, "i commensali si fanno silenziosi". Questo ci spinge a riflettere su un fatto poco analizzato, nel dibattitto sulla pressione demografica sulle risorse del pianeta: in una società con pochi figli e reddito sufficiente si è portati a spendere di più sul superfluo, che è esattamente quello che rende insostenibile uno stile di vita. Più viaggi di piacere all’estero, più cene al ristorante, case in campagna (che consumano molto di più che in città), automobili, prodotti provenienti dall’altra parte del pianeta. Paradossalmente, l’impronta ecologica pro-capite di una coppia senza figli può rivelarsi di gran lunga maggiore di quella di una famiglia di quattro o più persone.

 

Il declino demografico è una realtà, oggi, per un esiguo numero di Paesi. Ma se la traiettoria è uguale per tutti – è la tesi, assolutamente condivisibile, di Pianeta vuoto – allora il futuro sarà molto diverso da quello che ci hanno raccontato finora. La stessa Cina, che oggi può contare su un enorme mercato interno e una forza lavoro ancora giovane, presto seguirà la stessa traiettoria del Giappone, calando dal picco di 1,4 miliardi del 2030 a 1 miliardo a fine secolo. Persino l’India, dopo il picco nel 2060, inizierà il calo della popolazione (di cui, in un primo momento, beneficerà senz’altro), dopo essere passata dai 5,9 figli per donna del 1950 ai 2,4 attuali. Viceversa gli Stati Uniti, grazie al tasso di fecondità maggiore della popolazione di origine latinoamericana, continueranno a crescere, passando dai 345 milioni di oggi a 450 milioni nel 2100. Questo potrebbe cambiare completamente la narrazione del sorpasso cinese e permettere agli Usa di conservare la leadership globale nel ventunesimo secolo, anche se lo scenario è molto meno certo di quanto lo tratteggiano i due autori: se infatti anche i Paesi come il Messico stanno andando incontro a fenomeni di urbanizzazione ed empowerment, i tassi di emigrazione verso gli Usa e di fecondità potrebbero calare più rapidamente del previsto, privando gli Stati Uniti di quest’abbondante riserva di gioventù. A ciò si aggiungono le politiche di contenimento dell’immigrazione, come quelle introdotte dall’amministrazione Trump, che potrebbero mettere un deciso freno ai sogni di un Paese in crescita ancora per tutto il secolo.

 

L’analisi della questione migratoria, con cui si chiude Pianeta vuoto, è la meno convincente dello studio. Bricker e Ibbitson, da canadesi, sono convinti della bontà del modello Canada e ne perorano l’esportazione in tutto il mondo, pur ammettendo che le differenze tra il Canada – un Paese multiculturale dove non esiste un’etnia o una cultura dominante – e i Paesi europei o asiatici – estremamente omogenei e con un’identità nazionale molto forte – non sono poche. A ciò si aggiunge il fatto che il Canada, geograficamente molto distante da tutti i Paesi ad alto tasso emigratorio, può permettersi di fare una selezione in ingresso, al punto che i suoi immigrati hanno mediamente un tasso di alfabetizzazione superiore ai cittadini di nascita canadese. Crisi come quelle delle ondate migratorie che i paesi mediterranei hanno vissuto nel corso degli anni sono del tutto impensabili e la differenza di contesti cambia molto il punto di vista sulla gestione del problema. Ma la questione è un’altra: un tasso di immigrazione annuo pari all’1% della popolazione del paese di accoglienza come soluzione al problema della denatalità non è sostenibile a lungo proprio per le ragioni addotte dagli autori nel corso della loro analisi, vale a dire che tutti i paesi del mondo, più prima che poi, andranno a loro volta incontro al calo demografico e all’interruzione dei flussi migratori (tant’è che, osservano, gli spostamenti della popolazione sono oggi molto inferiori rispetto al passato). Alla fine del secolo, quando non ci saranno più Paesi ad alta crescita demografica da cui emigrare verso Paesi a bassa crescita, quali soluzioni potremo adottare? La domanda resta aperta ed è un interrogativo su cui dobbiamo iniziare a confrontarci: c’è ancora tempo, ma meno di quanto pensiamo.

 

di Roberto Paura, Italian Institute for the Future

lunedì 2 novembre 2020