Cesaretti: superare il dumping generazionale per costruire un futuro sostenibile
“L’assenza di un progetto di società impedisce ai giovani di avere una visione e l’inadeguatezza qualitativa e quantitativa dei modelli formativi, di quelli occupazionali e dei modelli associativi li allontana dal processo di costruzione del benessere comune”. 05/10/20
di Andrea De Tommasi
“Tutti gli stakeholder della società sono coinvolti nella questione generazionale ma la variabile chiave su cui agire è la modifica degli attuali modelli decisionali”. Gian Paolo Cesaretti ha una vasta esperienza accademica e dal 2007 è presidente della Fondazione Simone Cesaretti, che opera in modo sistemico sui temi del benessere e della sua sostenibilità analizzati nelle quattro visioni del benessere: mercantile, sociale, eco-centrica e, appunto, generazionale.
Il concetto chiave che utilizzate è quello di dumping generazionale. Perché è così centrale?
Se oggi dovessimo definire con una sola parola la fase storica che stiamo vivendo, il termine più appropriato sarebbe “precarietà”. Il processo di globalizzazione, accanto ad indubitabili meriti, ha innescato nella società continui processi di “aggiustamento”, a cui non tutti gli individui, i sistemi locali, le nazioni, hanno potuto o saputo rispondere positivamente. La globalizzazione dei mercati non è stata accompagnata dalla globalizzazione dei diritti e delle regole. A livello planetario e locale si sono così venuti ad accentuare squilibri nelle performance di sviluppo e diseguaglianze nei livelli di benessere, tra categorie sociali e classi di età.
In questo scenario, il principio di equità, da valore universale, per lunghi anni al centro di preoccupazioni di economisti, sociologi, politici, è sempre più divenuto un obiettivo difficilmente raggiungibile.
In una società globale, dove la visione “mercantile” del benessere ha prevalso sulle altre, troppo spesso ci si è concentrati su strategie competitive di carattere congiunturale, giocate su ogni forma possibile di dumping. All’interno di questa logica i giacimenti ambientali e il capitale umano hanno subito lo stress maggiore. Da qui, la strisciante e crescente marginalizzazione del principio di equità inter-generazionale e intra-generazionale.
Soprattutto i giovani hanno pagato e continuano a pagare il prezzo più alto della precarietà.
Direi un prezzo altissimo in termini di perdita di fiducia in questa società, un acuto senso di non appartenenza, la sfiducia nella possibilità di partecipare e progettare, la perdita di valori alti di riferimento. Se, come viene affermato da più parti, i giovani costituiscono l’architrave di una società globale che voglia proiettarsi nel futuro, è necessario ammettere che il “sistema giovani” e, con esso la società globale, sono a rischio.
Per quali ragioni?
Fondamentalmente due: i giovani non riescono più a proiettarsi nel futuro perché oggi mancano le condizioni per una loro partecipazione attiva nella attuale società. In secondo luogo, soffrono dell’assenza di un progetto di società che consenta loro di avere un orizzonte sostenibile nel quale collocarsi. Occorre ridefinire un nuovo progetto di società inclusiva, ma soprattutto in grado di offrire una visione integrata del concetto di benessere e della sua sostenibilità. L’assenza di un progetto di società impedisce loro di avere una visione e l’inadeguatezza qualitativa e quantitativa dei modelli formativi, di quelli occupazionali e dei modelli associativi allontana i giovani dal processo di costruzione del benessere comune. Bisogna ripartire da quelli che possiamo definire i caratteri della sostenibilità: dare a tutti accesso a beni e servizi; disporre in ogni ciclo produttivo di sufficienti beni e servizi in grado di soddisfare le istanze della società, in termini di “material living condition and quality of life”, come evidenziato dall’Ocse; investire in innovazione e replicabilità (in quantità e qualità) degli stock di capitale (umano, naturale, economico, sociale). Tutto ciò non va perseguito attraverso la esternalizzazione dei costi della scarsità, cioè attuando strategie di dumping.
Quali sono le esternalità negative a cui fate riferimento?
Si possono fare diversi esempi: gli elevati livelli di disoccupazione giovanile rispetto alla media nazionale; la maggiore precarietà del lavoro; la modesta percentuale di investimenti in scuola e università sul complesso della spesa pubblica nazionale; le incertezze e le reticenze nell’affrontare la sfida climatica ed energetica. La professoressa Rita Levi Montalcini, che la nostra Fondazione ha avuto come presidente onorario del Collegio di saggi, ha scritto un mirabile testo dal titolo “Senza olio e contro vento”. In esso si descrive la vita di dieci personalità che hanno affrontato situazioni drammatiche, simili a quelle delle “navi che sfidano i mari in epiche traversate in condizioni avverse”. Ecco, citando il titolo di questo libro, è possibile affermare che le nuove generazioni siano vittime della tempesta perfetta generata dall’attuale modello di sviluppo: navigano in questa società, “senza olio e controvento”!
Che fare, dunque? Come costruire un modello di sviluppo diverso?
Innanzitutto, occorre dare voce a chi non ha voce. In questo caso, alle nuove generazioni. Ad esempio, abbassando l’età del diritto al voto, emancipando economicamente i giovani dalle famiglie, rafforzando la loro partecipazione negli organismi di governo di scuole e università. A livello di sistema economico, invece, bisogna governare le tre fondamentali funzioni di allocazione delle risorse, l’accumulazione delle stesse, la distribuzione della ricchezza prodotta attraverso una coniugazione non asimmetrica dei principi di etica, efficienza economica, equità intra-generazionale ed inter-generazionale. Dobbiamo ridefinire nuovi modelli decisionali da parte delle istituzioni, delle imprese e delle famiglie. Certamente, una componente importante di questa transizione verso la sostenibilità diviene un radicale cambio di paradigma, da un sistema economico lineare a un sistema economico circolare.
Negli ultimi anni in Italia, in misura maggiore rispetto ad altri Paesi, si registra il consolidarsi di squilibri generazionali che gli effetti della pandemia rischiano di aggravare.
È in corso un fenomeno, che definirei innaturale, che si sostanzia nel forte ritardo delle giovani generazioni nei percorsi di transizione alla cosiddetta età adulta. Un ritardo dovuto da un lato alle nuove istanze delle giovani generazioni, in termini di legittimazione e riconoscimento di diritti, e dall’altro all’erosione delle condizioni di benessere dei giovani stessi. La transizione all’età adulta si caratterizza per una serie di opportunità e di sfide: la scelta di proseguire o meno negli studi, l’ingresso nel mondo del lavoro, il rapporto con il territorio e il contesto sociale e relazionale in cui si vive, la comunità a cui si appartiene e le istituzioni. Numerosi sono gli impatti negativi che si annidano in queste diverse fasi della transizione e che possono avere degli effetti duraturi sul benessere dei giovani nel corso della loro vita. I giovani non debbono più essere considerati soggetti neutri e passivi. Con gli effetti della pandemia globale, molti giovani precari hanno visto la loro unica fonte di guadagno svanire, altri sono stati costretti a forme di ammortizzatori sociali non efficienti. Il tutto affiancato da politiche di emergenza che continuano a “inquinare” il futuro delle nuove generazioni
Guardando avanti, pensa che le politiche orientate alle nuove generazioni cambieranno approccio?
A differenza degli altri Paesi europei, le politiche di empowerment attuate in Italia hanno promosso una visione idealizzata dei giovani: choosy, bamboccioni e totalmente dematerializzati. Tali politiche hanno scoraggiato la partecipazione giovanile a vari livelli (politico, sociale, culturale), generando esternalità negative in termini di benessere sociale, ambientale ed economico. Si tratta di esternalità che impattano su cinque dimensioni indipendenti, in alcuni casi coincidenti con i domini del framework del Benessere equo e solidale (Bes): salute, lavoro, istruzione e formazione, benessere soggettivo, coesione sociale, territorio. La somma di queste esternalità ci riporta al concetto di squilibri generazionali. Le azioni necessarie per affrontare questo fenomeno dovranno essere rivolte a tre aree fondamentali: il mercato del lavoro, la formazione e le relazioni sociali. Occorre favorire la re-immissione nel mondo del lavoro di quanti ne sono forzatamente usciti, attraverso, ad esempio, azioni di tassazione agevolata per le imprese che assumono giovani, e percorsi formativi volti alla creazione di start-up.
I fondi di Next Generation Eu saranno l’occasione per rimettere al centro la formazione dei giovani?
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato il Next Generation Eu come un “nuovo patto generazionale per il futuro”. Non ci sono dubbi che per poter realizzare un cambiamento solido e duraturo sia indispensabile puntare sul capitale umano. In tal senso, la formazione è un nodo centrale. Se si vuole investire in un cambio di paradigma che punti su nuovi approcci per la sostenibilità e le tecnologie (zero emissioni, digitalizzazione), ma non si ha a disposizione un capitale umano con le competenze necessarie per governarli, si rischia di arrestare l’effetto moltiplicatore di questi investimenti. Sarebbe importante dedicare parte degli investimenti del Recovery Plan alla riqualificazione del sistema formativo per renderlo capace di leggere le istanze attuali, ma anche saper immaginare quelle future. Il valore aggiunto non è la spiegazione del passato e del presente, ma saper interpretare il futuro. Nella costruzione dei percorsi formativi bisognerebbe avere la lungimiranza dei fabbisogni futuri così da poter facilitare l’incontro tra domanda e offerta. Siamo tutti consapevoli che un reale cambio di paradigma di sviluppo non può essere risolto solo con aspetti tecnici ma richiede l’acquisizione di innovazioni sociali. Affinché ciò avvenga è fondamentale il contributo del sistema formativo o di più in generale del sistema della conoscenza. Dobbiamo accettare che se i principi di sostenibilità non riusciranno a divenire la filosofia operativa, o meglio, la forma mentis di istituzioni, imprese e famiglie, la realizzazione del nuovo progetto di società sarà ancora più lenta e tortuosa.
L’inasprimento delle difficoltà di accesso al mondo del lavoro è un tema che condiziona il futuro delle nuove generazioni. In che modo si può intervenire?
Da recenti indagini è emerso che le nuove generazioni accetterebbero un lavoro non corrispondente agli studi e discontinuo. Questo è un dato molto preoccupante, pensiamo agli anni di impegno e sacrificio che un giovane ha impiegato per raggiungere livelli di alta formazione, ma anche per costruirsi un proprio futuro e un’indipendenza economica. Potremmo leggere il contributo delle nuove generazioni al sistema produttivo in chiave di “produttività innovativa”. La componente giovani del capitale umano sarà composta da persone altamente qualificate, dotate di nuovi profili professionali sempre più attenti al concetto di sostenibilità. L’aspirazione di molti giovani non è un reddito di cittadinanza, ma vedere riconosciuta l’uguaglianza delle opportunità e la valorizzazione delle capacità personali e professionali acquisite al fine di avere un’occupazione, che consenta loro di ricoprire a pieno titolo un ruolo nella società. La chiave di volta risiede nello sviluppo di “misure di attivazione” senza le quali i processi di transizione dei giovani diventano molto più difficili. Per fare ciò, bisogna migliorare l’accesso all’istruzione di qualità per giovani svantaggiati e introdurre misure per ridurre l’alto tasso di abbandono scolastico, combattere gli alti tassi di Neet tra i giovani, aumentare la qualità dei Servizi pubblici per l’impiego, con il possibile sostegno di prestatori privati di servizi per l’impiego, ampliare la partecipazione delle nuove generazioni alla definizione delle politiche attive. Il tutto per rendere i giovani consapevoli e responsabili del loro ruolo di architrave della società di domani.
di Andrea De Tommasi