Deroga al dibattito pubblico: così si riduce non la burocrazia, ma la democrazia
Il dibattito pubblico è una procedura introdotta per migliorare la qualità della progettazione e l'efficacia delle decisioni pubbliche mediante la più ampia partecipazione dei cittadini, dei portatori di interessi e delle amministrazioni interessate dalla realizzazione di un'opera. E attualmente potrebbe essere a rischio.
di Carlo Mochi Sismondi
Il decreto-legge 76/2020, recentemente convertito dal Parlamento con due mozioni di fiducia sia al Senato, sia alla Camera, si propone l’obiettivo di “liberare il Paese da molti lacci e lacciuoli per il rilancio dell’economia. Una PA più efficiente, digitale, trasparente e vicina a cittadini e imprese darà un sostegno cruciale alla ripartenza dell’Italia", come ha commentato il ministro Fabiana Dadone dopo l’approvazione definitiva. Ottimo proposito senz’altro condivisibile. Peccato che in una legge che, pur con i limiti di una produzione legislativa bulimica e piuttosto confusa, presenta molti punti positivi, si nascondano poi, spesso aggiunti dal dibattito parlamentare, ingiustificati passi indietro dal punto di vista della partecipazione e della democrazia.
Il più grave di questi è nascosto nel comma 6-bis dell’art.8 che è stato aggiunto nel maxiemendamento su cui il governo ha posto la fiducia. Si tratta della deroga, sino al 31 dicembre del 2023, dall’obbligo di procedere al dibattito pubblico per le “grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città o sull’assetto del territorio” proprio quando le regioni “ritengano le suddette opere di particolare interesse pubblico e rilevanza sociale”.
L’emendamento nasce dalla dichiarata necessità di accelerare l’iter autorizzativo delle opere per poterle realizzare più in fretta, “in considerazione dell’emergenza sanitaria da Covid-19”.
Prima di denunciare l’errore di fondo che è nascosto in questa dichiarata volontà di fare “presto e bene”, sarà utile tracciare brevemente l’identità dell’istituto del dibattito pubblico così come regolamentato dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri 10 maggio 2018, n. 76, con cui, solo due anni fa, ne è stato definito l’obbligo e le modalità di attuazione.
Il dibattito pubblico è una procedura introdotta per migliorare la qualità della progettazione e l'efficacia delle decisioni pubbliche mediante la più ampia partecipazione dei cittadini, dei portatori di interessi e delle amministrazioni interessate dalla realizzazione di un'opera. Esso si svolge nella fase inziale della progettazione, in relazione ai contenuti del progetto di fattibilità ovvero del documento di fattibilità delle alternative progettuali, quando il proponente è ancora nelle condizioni di poter scegliere se realizzare l'opera e quali modifiche apportare al progetto originale. Aprire il dibattito pubblico nella fase iniziale della progettazione porta vantaggi al proponente, che dopo aver ascoltato le varie posizioni in campo, può sviluppare il progetto con maggior consapevolezza delle criticità da affrontare, in una fase del processo progettuale che gli consente ancora di tornare sui suoi passi senza eccessivi oneri e costi. Da questo punto di vista, il dibattito pubblico può consentire ai proponenti di valutare gli interventi prima di concluderne la progettazione e di tenere conto delle ragioni alla base dei conflitti territoriali che normalmente accompagnano la realizzazione delle grandi opere. Allo stesso tempo, aprire il dibattito pubblico quando la decisione finale deve essere ancora presa, consente alle comunità locali di comprendere, attraverso il confronto con il proponente, quali sono le ragioni e le finalità dell'intervento e proporre soluzioni alternative ovvero migliorative dell'intervento stesso. Il dibattito pubblico è pertanto un processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull'opportunità e le soluzioni progettuali di opere o interventi di rilevante interesse nazionale.
Le tipologie di opere per cui si deve aprire un dibattito pubblico sono elencate in un allegato al Dpcm, ma, tanto per intendersi e solo a titolo di esempio, parliamo di tratti ferroviari sopra i 30 km e 500 milioni di investimento, tratti di autostrade di più di 15 km, nuove piste aeroportuali, impianti ed insediamenti industriali che superino i 300 milioni di investimento, porti, impianti energetici importanti, ecc.
Derogare al dibattito pubblico su richiesta delle istituzioni proponenti e quindi negare alle comunità locali la possibilità di comprendere caratteristiche, finalità, vantaggi e svantaggi di una grande opera e negare altrettanto anche ai proponenti la possibilità di ascoltare chi conosce il territorio meglio di qualsiasi altro perché ci vive è ovviamente già estremamente pericoloso. Pensare poi che così le opere si realizzino più in fretta è un giudizio che non può che derivare o da una pericolosa amnesia rispetto a quello che è successo e ancora succede in Italia o da una celata malafede. Ridurre infatti gli spazi di partecipazione e di democrazia non è mai una buona scorciatoia per ridurre gli oneri e i tempi burocratici, anzi spesso non fa che aggravarli attraverso un’impossibilità di portare avanti i lavori, come tanti esempi, anche molto recenti, ci dimostrano.
Ma questo improvvido comma 6-bis dell’art.8, approvato senza discussione assieme ad un emendamento monstrum, contiene anche un difetto sia formale sia concettuale che rivela, come un lapsus freudiano, la faciloneria con cui è stato inserito. Dice infatti l’articolato che, derogando dall’obbligo del dibattito pubblico le amministrazioni aggiudicatrici possono “procedere direttamente agli studi di pre-fattibilità tecnico-economica”. Ora è evidente che il dibattito pubblico era previsto avvenire dopo e non prima dello studio di fattibilità tecnico-economica che è proprio quello che deve essere dibattuto. Le amministrazioni devono quindi prima procedere allo studio e poi, su questo, indire un dibattito partecipativo. Questo sfasamento temporale, che è messo in luce anche dallo stesso dossier preparato dall’Ufficio studi del Senato per una trattazione alla Camera troppo frettolosamente evitata, ci fa capire chiaramente che il legislatore è intervenuto su temi di cui non aveva piena cognizione.
In conclusione, possiamo anche considerare questo episodio di riduzione della partecipazione e della democrazia come un incidente di percorso e speriamo che si possa rimediare rapidamente a questo scivolone, ma non sottovalutiamolo in quanto è un sintomo di quella deriva che, con una semplificazione iconoclasta, tende a sterilizzare ogni passaggio amministrativo, ma anche politico, dall’ingombro di una consultazione informata, pubblica e democratica. E’ proprio il rovescio di quello che, in un momento così delicato, serve al Paese.
di Carlo Mochi Sismondi, ideatore e fondatore di Forum Pa