Il valore sociale della cultura “domani”
Quale ruolo avrà la cultura nella società di domani, quando isolamento e quarantena saranno finiti e finalmente potremo liberarci dalle catene invisibili di questa pandemia.
di Davide Rampello
“Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri” (Antonio Gramsci, I Quaderni del Carcere, 1935).
Riflettendo sulle parole che la sensibilità di Gramsci elaborava dalla cella di Turi, mi sono chiesto che ruolo avrà la cultura nella società di domani, quando isolamento e quarantena saranno finiti e finalmente potremo liberarci dalle catene invisibili di questa pandemia.
Interrogarsi sul valore sociale della cultura significa innanzitutto domandarsi quale sarà il senso del termine e quale ruolo potrà occupare. Non si tratta di una riflessione facile, perché la parola cultura, nella sua accezione più comune, mi pare assai generica e inadeguata a esprimerne il senso profondo.
Cultura deriva dal latino cultus, che pertiene a colere, coltivare. Fare cultura significa quindi coltivare. Ma coltivare cosa? A rischio di apparire a mia volta generico, credo che l’unica possibile risposta oggi sia: coltivare la vita; attivare cioè i sensi ed acquisire la consapevolezza di ciò che ci circonda. Gli uomini colti sono infatti individui “coltivati” capaci al tempo stesso “di coltivare” quotidianamente e in qualunque circostanza i frutti della vita, anche durante una quarantena. Scrutano e di conseguenza si interrogano sul senso della vita, ricominciano a viverla evitando quella presunta conoscenza che li distacca dalle persone e dalle cose, come fossero muri. Vedono la vita come un orto il cui terreno può sempre essere reso fertile.
Aristotele invitava a distinguere il significato delle cose, che l’intelletto attribuisce ad esse, dal loro senso, che è invece un prodotto dell’anima, un frutto dell’esperienza del vivere quotidiano. Significato e senso non sono la stessa cosa. Il primo è un dato oggettivo che nasce dalla conoscenza, mentre il secondo scaturisce da quella sorta di “religione della realtà” che è una dimensione soggettiva dell’esistenza, un’immersione appassionata nel mare della vita e dei suoi elementi fondamentali. Il senso, inoltre, non rappresenta esclusivamente ciò che l’uomo cerca internamente, nella propria anima, bensì anche un dono che gli viene offerto dal prossimo e da cui scaturisce il senso di comunità, di condivisione. Credo che fare cultura, oggi più che mai, voglia quindi dire resistere a quel risparmio emotivo che ci allontana dalla partecipazione attiva; resistere all’apatia e ritrovare la strada del pathos; resistere alla morte dei sentimenti che preludono alla fine della vita stessa.
Mi sono dilungato sulla distinzione tra senso e significato perché ritengo che sia alla base di una possibile definizione di cultura e soprattutto delle pratiche necessarie per “fare cultura”. Per innestare nella società di domani un senso colto – e quindi attivo, partecipativo – sarà fondamentale assumere una visione ampia delle cose: non limitarsi a conoscerne il significato, ma sforzarsi a comprenderne il senso. Una società colta è infatti una collettività coesa, consapevole, fattiva. Non nasce per grazia divina, ma deve essere formata, attingendo alle più diverse discipline. In questa prospettiva, parlare ancor più che in passato di cultura senza fare direttamente riferimento alla formazione, non avrebbe a mio avviso alcun senso. Sarà cruciale dare invece forma alla formazione; indirizzare gli sforzi verso una dimensione umanistica – nel senso più alto e nobile del termine – per distaccarci dalla dicotomia del pragmatismo e della concretezza a tutti i costi. Occorrerà tornare a un primato del senso sul mero significato.
Significato sono i numeri, le certezze oggettive; senso è invece la comprensione soggettiva dei dati della realtà ma anche dell’immaginazione, della creatività, dell’invenzione, della fantasia, della visione personale e distintiva.
Ci si domanda in questa analisi se la cultura abbia anche un valore economico, e ci si chiede perché la politica operi spesso nella direzione opposta a quella di una convivenza civile, di una comprensione reciproca, di un superamento delle barriere che erroneamente definiamo culturali. La cultura non divide mai.
Una visione della vita fratturata, scissa tra categorie di opposti, porta a incasellare la realtà e allontana da quell’intraprendenza emotiva che è propria della cultura e della volontà di fare cultura. È certamente più facile per la politica, ma non solo per la politica, trovare rifugio nei dati, nella rassicurante concretezza di presunte certezze, dimenticando il valore del pensiero e la dimensione spirituale e individuale della vita.
Peter Russel diceva che “ogni essere umano è una specie umana”. Una definizione che riafferma l’individualità dell’esistenza e il diritto a una visione soggettiva delle cose.
È chiaro che una società debba fondarsi anche su un patrimonio di norme condivise, su un corredo di significati comuni e oggettivi; ed è altrettanto ovvio che la politica debba sforzarsi di calcolare il valore economico della cultura. Ma non potrà e non dovrà tornare a limitarsi a questo quando “rinasceremo”. La politica dovrà innanzitutto offrire sogni all’uomo e preoccuparsi della sua felicità
Ritornando alla citazione iniziale di Gramsci, vorrei concludere il suo discorso aggiungendo una piccola considerazione: “Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri e condivide con essi il vero frutto della cultura: la felicità”. A questo proposito, ricordo che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, scritta nel 1776 da Thomas Jefferson e dai rappresentanti dei tredici Stati, proclamando i diritti inalienabili dell’uomo, associava la libertà alla vita e alla ricerca della felicità. Affermava in sostanza che l’uomo è felice quando è fertile, consapevole e libero di creare. Fare cultura – oggi più che mai – vuol dire quindi rendere felici gli esseri umani, dare loro la possibilità di comprendere il visibile ed immaginare l’inaccessibile.
Davvero non di solo pane vive l’uomo. E la cultura non è difatti pane per la carne, ma cibo per lo spirito. Una linfa capace di rendere gli essere umani liberi di vivere e produrre in felicità. Prepariamoci, dunque, a spiccare di nuovo il volo e a “librarci sulle cose che noi sappiamo” (Alexander von Humboldt, Il cosmo, 1827-1828).
di Davide Rampello, docente della storia della cultura materiale, manager culturale e direttore artistico della Rampello & Partners