Come non sprecare i 209 miliardi del Next Generation Eu
Il governo italiano ha una gamma di azione piuttosto ampia, che contempla tanto una maggiore spesa pubblica quanto una riduzione delle imposte. Fondamentali decarbonizzazione, occupazione e ricerca scientifica.
di Marco D'Egidio
A una settimana dallo storico accordo sul “Next Generation Eu Fund”, meglio noto come “Recovery Fund”, è il momento di archiviare la legittima euforia per i 209 miliardi di euro che dovrebbero pervenire all’Italia sotto forma di prestiti (128 miliardi) e sovvenzioni a fondo perduto (81 miliardi), e passare alla fase di selezione degli investimenti e delle riforme. Il 2021 - anno in cui è previsto l’inizio delle erogazioni - sembra lontano, a causa della situazione economica e sanitaria che ci schiaccia in un angoscioso presente; ma è dopodomani. Entro il prossimo autunno, dovremo avere presentato a Bruxelles il nostro piano di ripresa.
Sebbene il meccanismo preveda una valutazione e approvazione in sede europea, non vi sarà alcun diritto di veto dei singoli Stati membri. Il governo italiano ha una gamma di azione piuttosto ampia, che contempla tanto una maggiore spesa pubblica quanto una riduzione delle imposte. Sui tavoli di Palazzo Chigi c’è un foglio bianco, ma non per questo l’Italia può permettersi di sprecare un euro, laddove lo spreco rappresenterebbe la migliore delle ipotesi negative. Ancora peggio, sarebbe adottare misure che, pur facendo propri obiettivi virtuosi, assecondano tendenze o presentano effetti collaterali contrari a uno sviluppo sostenibile sotto i profili ambientale o sociale.
Come cittadini, ci è permesso di formulare qualche suggerimento all’esecutivo su come mettere a frutto quei 209 miliardi di euro, in modo che non costituiscano il premio di una lotteria una tantum, ma siano in grado di sostenere l’economia nel lungo termine, migliorando le condizioni di vita e di lavoro delle persone. Tre sono le priorità che dovrebbero essere scritte su quel foglio bianco: occupazione (soprattutto giovanile); decarbonizzazione (che significa anche infrastrutture e digitale); ricerca scientifica (e in senso lato università e istruzione). Al contrario, non appare affatto un must, in questo momento, la riduzione delle imposte, neppure se giustificata come contrasto alle disuguaglianze o spinta per i consumi.
Infatti, tra gli effetti del lockdown vi è stato un incremento dei risparmi delle famiglie già percettrici di reddito (il 39% degli italiani ha risparmiato di più, secondo il Censis), e l’habitus della parsimonia – di chi può permettersela - sembra confermarsi anche con la riapertura, come scudo contro le troppe incognite del futuro. Per far ripartire la domanda serve quella fiducia che solo il lavoro può dare; se invece si pensa alla riduzione del cuneo fiscale a favore di chi ha già la fortuna di un reddito, o interventi per aumentare il potere di acquisto come il taglio dell’Iva, le maggiori disponibilità delle famiglie rischiano di trasformarsi soltanto in liquidità parcheggiata negli istituti di credito. In altre parole: uno spreco.
L’occupazione
Al primo posto nel piano di riforme deve essere l’occupazione. I dati Istat dello scorso maggio evidenziano un drastico calo degli occupati (più di seicentomila posti persi rispetto allo stesso mese del 2019) e un aumento ripido degli inattivi (un milione e centomila persone in più). Con la riapertura, è probabile che una parte degli inattivi stia tornando a cercare lavoro, ma l’occupazione calerà ulteriormente come conseguenza della fine del blocco dei licenziamenti. Le previsioni sono ancora più preoccupanti per i giovani, che dopo essere stati investiti dalla Grande Crisi 2008/2011, si trovano oggi colpiti da un secondo “cigno nero”. Stiamo perdendo una intera generazione, con quel che ne consegue anche in termini di demografia: l’ultimo dato sulla natalità registra un record negativo, soltanto 420 mila culle nel 2019, in calo del 4,5% sul 2018 (e l’emergenza Covid ancora non compare nelle statistiche).
Serve lavoro, soprattutto per la “Next Generation”. Una (buona) fetta del Recovery Fund dovrà essere finalizzata a interventi per creare nuova occupazione, come una forte e prolungata decontribuzione - di cui già si parla, ma troppo timidamente -, incentivi per le assunzioni di giovani e di chi è stato licenziato, e piani formativi per favorire il re-skilling. Ma per creare lavoro servono anche i “lavori”, al plurale. Se la domanda privata ristagna per i motivi già citati, la strada da percorrere sono investimenti che riaccendano il motore della crescita e rendano l’Italia un Paese in cui si vive meglio e in modo decisamente più sostenibile rispetto al mondo di prima.
La decarbonizzazione
Questa seconda branca di interventi è la decarbonizzazione dell’economia, nello spirito di quel Green New Deal che già prima della pandemia era stato meritoriamente posto al centro delle politiche europee. Ecco alcuni esempi di che cosa si potrebbe e dovrebbe fare con i soldi che ci arriveranno.
Mobilità sostenibile attraverso un coraggioso rinnovamento delle infrastrutture e dei trasporti (non bastano piste ciclabili e monopattini, per intenderci). Vi rientra anche l’elettrificazione del settore automotive, in linea con gli altri grandi Paesi del mondo, dalla Cina alla Germania, mentre in Italia purtroppo si punta ancora sul sostegno ai veicoli a benzina e diesel Euro 6, purché sostituiscano l’attuale parco macchine (si vedano le agevolazioni varate con il decreto Rilancio). Se si voleva un esempio di cosa non fosse uno spreco, ma una misura proprio sbagliata, eccolo.
Digitalizzazione del Paese, sia in termini di copertura al 100% del territorio - anche in prospettiva smartworking - della banda ultralarga (oggi appena due italiani su tre ne possono beneficiare, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico), sia in termini di Industria 4.0 e smaterializzazione della Pubblica Amministrazione. Ultimi ma non ultimi, investimenti di efficientamento energetico che integrino e vadano oltre l’ecobonus al 110%, come ad esempio quelli sul patrimonio edilizio pubblico (vedi le scuole), sulle aziende e le industrie. Presupposto generale di questa svolta deve essere l’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi, misura che l’ASviS e altre associazioni da tempo sostengono e che oltretutto costituirebbe un risparmio strutturale di 19 miliardi per le finanze pubbliche.
Queste azioni, se messe in moto con un adeguato impiego dei fondi europei, avrebbero l’effetto non solo di far ripartire il lavoro e l’economia nel breve periodo (e di qui la fiducia dei cittadini, condicio sine qua non per una ripresa dei consumi), ma anche di accrescere la competitività sostenibile del Paese nel lungo periodo.
La ricerca scientifica
Se si parla di competitività e di attrattività, non si può non venire alla terza priorità che dovrebbe figurare sul foglio bianco del nostro piano: ricerca scientifica e istruzione. Che l’Italia abbia sempre investito troppo poco in questi capitoli è noto a tutti, ma giova ricordarlo: secondo i dati Eurostat e Istat 2017, soltanto l’1,38% del Pil è la nostra spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo, sotto la media UE al 2%, e molto sotto l’obiettivo europeo al 2020 del 3%. Un incremento di appena l’1% di questa spesa, magari allargata all’Università e all’istruzione secondaria, costerebbe all’Italia “appena” tra i quindici e i venti miliardi all’anno. Sui 209 complessivi in arrivo, considerati anche gli altri ambiti di spesa, per almeno un triennio potremmo cominciare a rendere l’Italia un Paese più desiderabile e innovativo per i ricercatori (spesso giovani) e gli investitori.
Queste sono le priorità che dovremmo inviare a Bruxelles. Il governo e il Parlamento, e in generale tutti coloro che parteciperanno alla stesura del piano di accesso al “Next Generation EU Fund”, devono essere all’altezza di una nuova Europa, più solidale e sostenibile, resistendo alle sirene delle clientele e alla tentazione di mance elettorali, dimostrando il coraggio di una visione di lungo orizzonte. Solo così i 209 miliardi moltiplicheranno i propri benefici sulla nostra economia e sulla vita delle persone anche nei decenni a venire. Qualunque visione miope sarebbe imperdonabile.
di Marco D'Egidio, ingegnere civile