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Dal divario digitale alla carenza dei nidi, le questioni irrisolte che pesano sulla scuola

Basta agire in “regime di concessione”. Sull’educazione serve un piano strategico da 15 miliardi. 13/07/20

di Mila Spicola

L’Italia chiusa si è ritrovata a riflettere su ogni cosa, sul presente e sul futuro, per tre mesi. Adesso la realtà appare una pallina di biliardo, prevalgono le incertezze, si sono moltiplicate le prospettive e i punti di osservazione. Non è che prima non si pensasse al presente o al futuro, è che erano diventate entità quasi statiche: un presente noto, e un futuro lontano. Facciamo l’esempio della scuola: già prima del Covid era carica di problemi complessi e pregressi, sentiva una forte necessità di cambiamento ma li considerava parte di un futuro lontano. Un futuro che poteva aspettare, con calma, quei cambiamenti, in realtà così urgenti e importanti. Così come la spinta innovatrice della scuola, carica di buone intenzioni mai realizzate, scontratesi oggi con parole e provvedimenti che abbiamo dovuto accogliere “per forza”, ma che certo non costituiscono le radici di un ragionamento per migliorare. Segnano spesso il peso delle cose non fatte, delle riflessioni mai risolte.


La questione digitale

La Dad (didattica a distanza), ad esempio, è arrivata come una palla di fuoco, in ogni casa, in ogni classe, che da reale è diventata virtuale, in ogni consiglio di classe di docenti, più confusi che persuasi nel dover gestire un futuro lontano adesso. Come si è gestito o non gestito lo abbiamo visto, mancavano sia le condizioni necessarie che le sufficienti per abilitare in modo sistemico un’innovazione di questa portata: mancavano i device, mancavano le connessioni, mancavano soprattutto le educazioni. Pochi docenti avevano provato, prima, a fare didattica digitale. E vabbè. Ma il problema è che meno della metà dei docenti e degli studenti ha competenze informatiche e digitali, ovvero la precondizione per la didattica digitale. È un sovra-problema di cui spero si sia compresa la portata: le competenze digitali e l’accesso/governo della conoscenza nel digitale e con il digitale, sono diritti di cittadinanza. Concetto già normato dalle leggi ma non agito efficacemente. La competenza digitale è una delle competenze chiave, da certificare nelle selezioni per diventare docente e da certificare nei documenti di valutazione degli studenti, lo dicono leggi e norme che hanno pure parecchi anni. Ma, chi forma i formatori? I percorsi formativi, di sistema, strutturati, non ci sono. Si sono affrontati “di striscio” con diversi provvedimenti, come il Piano nazionale scuola digitale, ma non hanno avuto efficacia perché è mancata la sistematicità. Sistematicità. Annotare la parola e riprenderla al momento opportuno, perché nella scuola molte cose dovrebbero essere sistematiche e non lo sono e, viceversa, molte cose sistematiche potrebbero non esserlo. 


E poi il digitale in generale, il digitale e i bambini/ragazzi/adulti, il digitale a scuola. Sì vs no. Il digitale è come il cibo, necessario. Senza si muore, troppo si muore o ci si ammala. Deve essere nelle giuste porzioni, conosciuto nei suoi nutrienti, vario. Esiste l’obesità digitale? Sì. Esiste il pericolo di una sovra esposizione ai device? Sì, esiste. Come con i carboidrati. Possiamo vivere solo con carboidrati o senza carboidrati? E se non mangio la carne, se ho degli effetti negativi da iperconnessione, quali proteine posso assumere, quali azioni posso mettere in campo per compensare? I docenti queste cose le conoscono? Il latte fa male? Non nell’infanzia e da adulti dipende. Insomma, conoscere, discernere, regolare, agire. La didattica a distanza è una cosa, e può essere utile e risolutiva per alcune attività, la didattica in presenza è un’altra, e ha il valore del mettere in campo relazione di socialità e sviluppo di apprendimenti in relazione, entrambi, didattica, apprendimenti, migliorano o peggiorano non se uso o meno il digitale, come se accendessi e spegnessi una lampadina, ma se si ha sempre il governo delle questioni pedagogiche, metodologiche e didattiche, quanto più aggiornato possibile e degli strumenti didattici o digitali o di altro genere adeguati a raggiungere obiettivi programmati. Se ancora oggi risulta innovatore o inedito, o, semplicemente sconosciuto, il messaggio di Montessori, o di Dewey, o di Visalberghi, è un problema.

C’è che la spinta innovatrice o la qualità o non qualità di un processo di insegnamento/apprendimento non si esauriscono nell’uso o meno di un device. Essa nasce, come ogni processo innovatore, da profondi cambiamenti culturali, scientifici, filosofici, sociali, innestati anche da rivoluzioni tecnologiche, ma non solo, che rendono attuabili differenti visioni di società. Senza una visione di società è difficile avere una visione di scuola. Sono quei cambiamenti e gli impatti conseguenti su cultura e società quelli che un docente deve conoscere e governare, perché, ancora, senza visione di scuola non si fa didattica, non esiste la didattica, si fa ragioneria dell’insegnamento. Lo possiamo fare a distanza e lo possiamo fare in presenza, l’essere dei ragionieri dell’insegnamento. Conoscere le pedagogie e le metodologie aiuta a dipanare questioni non risolte che oggi sono in ebollizione. Vero è ben che in un mondo immerso nel digitale appare schizofrenico non interrogarsi e misurarsi col digitale a scuola, non solo come “ora di informatica per capire cosa sono e come funzionano”, il che non sarebbe manco male, anche in relazione al senso dello strumento e come usarlo, ma soprattutto per avere consapevolezza dei profondi meccanismi che stanno mutando scienza, coscienza, conoscenza, e, con essi, l’essere umano e le sue relazioni; un insegnante deve interrogarsi sul cosa sia oggi condividere o trasmettere conoscenza e competenza, senza o attraverso il digitale. Quanto sia urgente e attuale lo abbiamo toccato con mano durante i mesi del Lockdown. Due indicazioni bibliografiche, abbastanza note, per iniziare a riflettere: Pierre Levy, Il virtuale; Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo. Aggiungo, io atea, un libro profondamente cristiano, perché è una delle riflessioni più interessanti sul cyberspazio come esso stesso abitato dall’uomo, e dunque da relazioni, da spiritualità e da tutto ciò che consegue: Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Antonio Spadaro.

Emergenza Education

Ma torniamo alla “cucina” delle emergenze. Il Covid ha rivelato in modo chiaro tanti problemi del sistema Italia, ci ha raccontato come siamo indietro già sul presente, non solo sul futuro. Ultima per investimenti in scuola, università e ricerca, e si vede. Ultima nelle condizioni strutturali e di sistema, oltre che in affanno sulle visioni. La carenza di investimenti si riflette nei divari che affliggono in Paese, le diseguaglianze economiche si riflettono nei divari nei rendimenti, e questo è il segnale più evidente della malattia del sistema, una malattia già diagnosticata negli anni ’60 (è del ’64 Educazione e condizionamento scolastico di Aldo Visalberghi, prima ancora di don Milani) che ancora oggi non vuol curarsi, per disattenzione, per la mancata volontà politica, ma non solo, di riconoscere negli investimenti scolastici la chiave per la democrazia e lo sviluppo. Quando la politica si riferisce alla Scuola lo fa con le pinze, perché la teme, non conoscendola, bene che vada esprime tutto il paternalismo e la retorica possibili, ed è già tanto. Direi che è zero. È provincia.

Eppure sembra quasi banale ripeterlo, è un investimento strategico da ogni punto di vista: sociale, culturale, economico, sanitario, democratico e della sicurezza. Alti livelli medi di conoscenza, educazione e competenza infatti hanno ricadute dirette e positive su tutti quegli ambiti. Dirette e positive. Non solo: se non lo si fa non è che non accade nulla, le conseguenze si tramutano di colpo in ricadute dirette ma negative. Su ciascuno di quegli ambiti. Non sono la sola a desiderare investimenti in questi settori, ma è bene entrare più nel dettaglio. Facile dire scuola, università e ricerca, meno immediato entrare nel dettaglio. Ma, se si dovesse investire, come speriamo tanti, una parte del Recovery Fund in Education, da dove iniziamo?

I nidi e l’educazione prescolare

Un posto al nido per ogni bambino/a su tutto il territorio nazionale, cominciando da dove la presenza del servizio è più carente, e coincide con i luoghi che ne avrebbero immediato giovamento: Sud e isole. Livelli di rendimento e frequenza del nido sono direttamente proporzionali. La curva del premio Nobel Heckman ci dice come gli interventi sul capitale umano siano tanto più fruttuosi quanto più precoci. Il nido agisce sullo sviluppo delle capacità linguistiche e neuronali, è decisivo soprattutto per i bambini e le bambine di contesti deprivati, è uno dei mezzi più efficaci per prevenire la povertà educativa, i bassi livelli di rendimento e la dispersione scolastica. Tutti problemi che colpiscono il nostro sistema educativo. Nidi e occupazione femminile: laddove ci sono i servizi offerti per la prima infanzia cresce di pari passo l’occupazione femminile. E viceversa. Laddove non ci sono, anche a fronte di donne con titolo di studio secondario o terziario in percentuale maggiore di quella dei coetanei maschi, vedi Sud e Isole, la disoccupazione femminile è molto alta, e più alta di quella maschile. Incentivare l’occupazione femminile è un traguardo sia in termini di Pil, sia in termini di civiltà e democrazia. Ce lo diciamo sempre. Il dunque è agire. Nidi e politiche demografiche. Se ci sono i servizi per la prima infanzia i figli si fanno, sennò no. Sic et simpliciter. Ecco riassunti gli impatti, e scusate se è poco. Ma quanto costerebbe? Secondo Save the Children portare tutti i bambini da 0 a 3 anni al nido costerebbe 2,7 mld. Meno dei soldi dati ad Alitalia. Con un ritorno, se si sommano gli impatti di cui sopra, immensamente maggiore. Cioè è uno di quegli investimenti denominati moltiplicatori, non solo si pagano da sé, ma generano sviluppo e ricchezza risolvendo altri problemi.

La formazione e selezione dei docenti

Sapere e sapere insegnare non coincidono più. Lo abbiamo accennato prima: pedagogia e didattica sono essenziali, Dad o non Dad, la carenza di conoscenze e competenze professionali specifiche si riflette nella frammentazione sul governo delle questioni e su tanti “bachi” inevasi, le carenze non sono solo di tipo tecnico sulle competenze digitali ma su quelle didattiche e docimologiche. In presenza o in remoto. Lo abbiamo visto anche con il lunare dibattito sul concorso quanto la selezione dei docenti sia un tema trattato in modo indegno, tema tra l’altro su cui stava cadendo il governo. Il punto non è solo concorso sì o noi, ma capire come e chi arriva al concorso, con quale bagaglio, con quale percorso. Il cantiere della riforma della formazione e selezione dei docenti, la cui riforma compiuta sotto il governo Gentiloni è stata ignobilmente messa da parte da Bussetti, va riaperto e affrontato. Mettendo intorno a un tavolo i portatori di interessi, professionali, statali, sindacali e mediando al rialzo. Personalmente rimango sul modello del decreto 59, approvato sotto il governo Gentiloni, una specializzazione post lauream, teorico pratica, pagata il giusto, come quella delle professioni mediche e con numeri prefissati su fabbisogno. Altri ne proporranno di diversi, purché li accompagnino a soluzioni utili alla qualità, non al mantenimento di liste di eserciti di precari. È urgente traghettare il corpo docente dalla funzione impiegatizia a quella professionale; risparmiargli lo stillicidio graduatorie-precariato, che, con lo specchietto di lavoro facile e subito, in realtà logora il singolo precario e dequalifica l’insegnamento e il sistema scolastico.  Quanto costerebbe? Rispetto ad altre cifre davvero poco: 500-600 milioni.

Il tempo scuola e il tempo a scuola

Il tempo lungo sia nella scuola primaria che nella secondaria di primo grado, per tutti e tutte, da Duino a Lampedusa. Oggi il tempo pieno ha divari di offerta inaccettabili: a Palermo solo 4/7 bambini su 100 hanno un posto di tempo pieno, in altre città del Nord si arriva al 75%. Le ragioni sono tante, ma vanno risolte, perché è necessario. Un tempo lungo rivisto, qualificato, utilizzato bene per il recupero delle fragilità e per attività integrative sempre più importanti: le educazioni, motoria, digitale, finanziaria, ambientale, alimentare. Non è una cosa trascurabile, il recupero delle fragilità dentro la scuola e con la scuola è la strategia di sistema utilizzata dai migliori sistemi d’istruzione per innalzare i livelli medi di rendimenti e per assicurare a ciascun bambino/persona un diritto all’istruzione qualificato. C’è una ricaduta secondaria: aiuterebbe l’organizzazione familiare e favorirebbe anche questo l’occupazione femminile, Quanto costerebbe? Costerebbe. Dai 4 ai 7 miliardi. Anche questa però è una spesa che si ripaga da sé il livello medio delle conoscenze e competenze di base si innalza aumentano gli occupati, è statisticamente provato. Se aumentano gli occupati diminuiscono le spese per sussidi e supporto socio-sanitario: che è povero e poco istruito si ammala di più e ha aspettative di vita più basse. Dati di fatto confermati ogni anno dall’Istat.

Il diritto allo studio

La scuola deve essere gratuita per tutti. Se non vogliamo assicurala a tutti la gratuità, moduliamo il supporto per progressività, ma tutto il percorso deve essere libero da ostacoli, non solo per i poveri ma anche per chi rimane indietro. Oggi i capaci e i meritevoli alla fine risultano essere sempre i ricchi. L’enunciato costituzionale andrebbe aggiornato. Perché la maggior parte degli alti rendimenti si verifica nei ceti benestanti e la scuola è ancora largamente classista. Ma non è qui che affronteremo questo tema. Basta dirci che il percorso formativo deve liberarsi da condizionamenti economici-sociali. Niente contributi volontari, libri e materiali a disposizione di chi non ne ha, supporto per il recupero durante gli studi, gratuità per la frequenza nella formazione terziaria e borse di studio in numero adeguato. Quanto costerebbe? Circa 2 miliardi.

Mi fermo qui, qualcuno aggiungerebbe l’attenzione alle scuole superiori, alle classi pollaio di quel segmento di scuola, qualcun altro lo stipendio dei docenti, qualcun altro ancora l’investimento nell’alternanza scuola-lavoro. Anche, ma io inizierei dai punti di cui sopra.

Siamo entro i 15 miliardi. E l’Italia verrebbe ribaltata come un calzino, verso il meglio. Sono cifre analoghe a quelle investite in provvedimenti di solo costo e di ritorno zero come Quota 100 o il Reddito di cittadinanza. Ma, soprattutto, non è possibile osservare come per ogni emergenza ogni governo riesca a reperire somme considerevoli mentre sulla scuola agisce in “regime di concessione”. 

Adesso però i soldi ci sarebbero e l’Europa ci chiede di destinarli ad asset strategici e strutturali. Questi lo sono. Il governo lo farà? Le richieste di cui sopra credo che trovino il favore di più di metà del Paese. E allora è questa parte del Paese a dover fare maggiore pressione e ribadire che sono investimenti che valgono molto di più di quelli su cui non discuto dati ad aziende in crisi o per gli aiuti alle imprese. Perché è chiaro che senza scuola, senza conoscenze e competenze l’impresa è la prima a morire, oltre che la tenuta democratica e sociale di un Paese. Senza la scuola ogni possibile strategia dell’Agenda 2030 sullo Sviluppo sostenibile naufraga, perché il successo di quella strategia va di pari passo con le conoscenze medie e la capacità di comprensione di quei temi da parte del Paese. Ci aspettano tempi durissimi, le valutazioni sulla discesa del Pil raccontano disastri, per supportare famiglie sempre più in difficolta, per sostenere e formare la persona umana, il cittadino, per abilitare i sistemi più ampi del mondo economico, produttivo, culturale e civile, per “mettere in sicurezza” il Paese un enorme aiuto potrebbe arrivare dal modo educativo attraverso gli investimenti che abbiamo descritto.

Eppure, in ogni documento del governo la parola scuola è nominata incidentalmente, per gli investimenti necessari sulle infrastrutture digitali, sacrosante, ma senza gli investimenti di cui sopra saranno balconi sospesi senza muro e non è mai nominata la parola infanzia. Ho letto il manifesto di Gualtieri sulle riforme possibili da presentare in sede europea, lungo, circostanziato. Fa un cenno velocissimo alla conoscenza, ma per buona creanza, temo, non per intenzione. Non ci siamo.

E intanto la riapertura delle scuole a settembre, o sui nidi e l’infanzia, è confinata nella retorica paternalistica di cui parlavamo prima, con cui si avvolgono da sempre scuola, infanzia e donne. Come se fossero residuali e non prioritari. Non ci siamo. È come vagare nel deserto senza bussola.

 

di Mila Spicola, insegnante, funzionario presso il Dipe - Presidenza del Consiglio

lunedì 13 luglio 2020