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Il sentimento del ri-cordo

L’atto di “re-gistrare” ogni momento importante della giornata non crea “memoria”, ma accumulo di immagini e suoni, catalogati da una data e da un’ora.

di Davide Rampello

Memoria, figlia di Urano e Gea, della volta eterea e della “gran secca”*, madre delle Muse.

Il fulgore dell’abbraccio cosmico, dell’indissolubile copula tra Urano e Gea generò una femmina Titanide, che per prima cominciò a dar nome a cose, concetti, azioni, permettendo ai mortali di potersi comprendere, dialogare.

Quanta bellezza e ordine si svelò agli occhi degli uomini, quante variabili armonie nacquero dal sentimento del “ri-cordo”.

Timore, angoscia, paura, stupore, meraviglia, magia: fioriva il racconto del mondo, il sacro si rivelava nel terribile splendore delle Cosmogonie.

Invaghito dalle mille parole, dalle mille storie, il padre degli dei, nelle sembianze di un pastore, amò Mnemosine per nove notti.

Nacquero nove olimpiche dee, figlie della magnificenza divina, della memoria del mondo, ispiratrici delle arti e delle scienze, dell’ideale supremo che spinse gli uomini alla ricerca della verità del “tutto”.

Oggi, l’archeologia della “memoria” rinviene lacerti incomprensibili, lo studio di questi mondi prossimi rimanda memorie senza “ri-cordo”, ovvero prive della “sensibilità” che le ha animate.

L’esperienza del sacro, “il sentore del soprannaturale, l’effluvio dell’uranico, il sapore dell’ineffabile”, tutto questo è svanito.

Forse, potremmo ritrovare esperienza di ciò, nel suono delle parole, dei versi, degli idiomi passati, e probabilmente a questo alludeva Catone quando esprimeva la sua inquietudine: “difficil cosa è fra comprendere a coloro che verranno ciò che giustifica oggi la nostra vita”.

Lo “iustus facere” è codifica di leggi e regole, ma soprattutto è sentimento intimo, cammino di coscienza alimentato dal “senso del vivere”.

Catone sente la difficoltà di far comprendere ciò.

Solo la metafora, il linguaggio ispirato dalle figlie di Zeus e Mnemosine, concede all’uomo la “memoria-ricordo” del proprio sentire.

Oggi, l’enorme quantità di dati, di numeri che giorno dopo giorno si accumula nello “spazio digitale”, sono il nuovo fluido, inerte “firmamento” dove vengono tracciati percorsi algoritmici che elaborano previsioni “oracolari”, che indirizzano le strade del “futuro” e dei “futures”. Questo “spazio” non suggerisce come le lucenti stelle, disegni, costellazioni, che accendono l’ammirazione, i sogni, le narrazioni degli uomini.

L’atto di “re-gistrare” ogni momento importante della giornata non crea “memoria”, ma accumulo di immagini e suoni, catalogati da una data e da un’ora.

Sequenze interminabili, che per essere “ri-vissute”, divorerebbero il tempo della vita.

Probabilmente, l’atto, la volontà che collettivamente spinge a compiere questo rito, è trovare un tempo della “memoria”, del “ri-cordo”, un tempo dove ri-affermare la propria identità, evadendo la violenta costrizione “dell’invisibilità”.

Quando l’uomo alza lo sguardo, rapito dall’ecatombe d’astri o dal cielo che ridona vita con il calore del sole, si sofferma sulle terre lavorate come giardini, sulle ardite e armoniche proporzioni di un architettura.

Allora, nell’impressione dell’emozione, nasce un sentimento e la sua narrazione.

È nel racconto di quel sentimento, che l’uomo si svela, trova il proprio nome, divenendo visibile a se stesso e al mondo.

L’ascolto dei nostri sentimenti, delle infinite sfumature che declinano il nostro sentire, degli attimi indivisibili e la narrazione con il linguaggio dei suoni, dei segni, dell’immagini: tutto questo è “memoria” e “muse”, “azione” e “sogno”, “arte” e “scienza”.

Ma, se i cieli sono vuoti, non vibrano del mistero della bellezza, tutto ciò che chiamiamo memorie diviene archivio. Utile, prezioso, ma solo archivio.

“Il nostro gioco è finito. Dilegueranno le torri che salgono su alle nubi, gli splendenti palazzi, i templi solenni, la terra immensa e quello che contiene; e come la labile finzione, lentamente ora svanita, non lasceremo orma.

Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. E la nostra piccola vita è cinta di sogni.”


*Dante, Inferno, 34, 113

*William Shakespeare, La tempesta, finale.

di Davide Rampello, docente della storia della cultura materiale, manager culturale e direttore artistico della Rampello & Partners

giovedì 4 giugno 2020