Il futuro sarà quello che decideremo di costruire
L'uomo con la sua cultura è il fattore decisivo per la crescita e per la definizione del futuro possibile.
di Renzo Giovanni Avesani
15 giugno 2020
Costruire il futuro di piccole o grandi cose è faticoso e non ha niente di glamour. È un lavoro che richiede grande disciplina, grande metodo, una visione chiara di cosa implichi l’evoluzione della tecnologia e tanta fortuna.
Ma bisogna partire dall’inizio. Ed all’inizio ci sono sempre degli uomini definiti dalla loro cultura e dalla loro capacità tecnica. I binari sui quali sta correndo oggi il futuro sono binari dettati dalla tecnologia. Ma per utilizzarla, la tecnologia, servono uomini con una grande cultura ed una grande propensione a fare. Costruire il futuro significa quindi costruire la cultura degli uomini che guideranno quella tecnologia.
Siamo soliti caratterizzare la nostra epoca come quella in cui sta venendo a compimento il processo iniziato circa dieci anni fa che ha portato alla industrializzazione e standardizzazione a 360 gradi della generazione e gestione dell’informazione. Prima c’era una informazione legata ad una fonte: il giornale, il libro, la radio, la televisione, il telefono. Era una informazione che aveva dei tempi scanditi dalle diverse necessità di costruirla. Ora l’informazione fluisce continuamente ed è sincronicamente dato, suono e immagine. Elaborazione di fonti diverse e trasmissione/fruizione dell’informazione avvengono in un flusso continuo. Non solo, ma il modo in cui l’informazione viene elaborata è in continua evoluzione proprio perché, nativamente i meccanismi di elaborazione “imparano” a distillare in modo sempre più raffinato il contenuto informativo che passa attraverso di essi e a crearne di nuovo. L’informazione è essa stessa tecnologia.
L’uomo e la sua cultura, in un mondo in cui la tekne sta diventando logos, sono il fattore decisivo per la crescita e per la definizione del futuro possibile. Cerchiamo continuamente in Europa, e soprattutto in Italia, di definire, permettere quello che si può, o non si può fare in questo campo, attraverso una imposizione impropria e controproducente di regole, limiti, leggi. Lo sviluppo industriale della generazione e gestione dell’informazione ha fatto giustizia di questo modo di procedere. E continuare a perseguirlo rischia di negarci il futuro. Siamo più attenti ai limiti dell’utilizzo delle nuove tecnologie che a spostare più avanti, superare quei limiti. Questo è tipico delle società gregarie, non di quelle che vogliono esprimere leadership.
L’Artificial Intelligence (AI) anche nella sua accezione meno sofisticata ma più usata di Big Data + Machine Learning (ML) vede l’Europa in una posizione subalterna e retrograda, tutta volta a regolamentarne l’uso. Come i nativi delle isole del Sud Pacifico ricordati da Richard Feynman, pensiamo che le cose accadano perché replichiamo, senza comprenderli, i comportamenti di altri. E tuttavia, stigmatizzandone i risultati. Non basta mettersi in testa delle cuffie da air controller fatte con le noci di cocco per poter far atterrare un aereo. Negli Stati Uniti un motore di innovazione, di creazione di futuro, nell’AI è stata l’esplosione del fenomeno delle start up. Ma bisogna essere consapevoli che non basta, non serve, promuovere un sistema di start up che usano quella tecnologia senza avere alle spalle un sistema di ricerca di base e senza un mercato ampio, integrato e aperto alla sofisticazione. Solo a queste condizioni le applicazioni di quella tecnologia possono scalare, acquisire quella dimensione che le rende economicamente redditizie.
L’ampia disponibilità, in ambito Big Data e AI, di ricerca di base, che per sua natura non può che essere generata dal settore pubblico, è quanto sta rallentando il nostro futuro. Bisogna promuovere poli di aggregazione europei in grado di produrla. Non possiamo continuare ad andare al traino degli Stati Uniti o della Cina perché senza un accesso diretto a questa conoscenza non è nemmeno pensabile uno sviluppo autonomo e vincente delle sue applicazioni. Se la ricerca di base è in mano ad altri, anche le applicazioni verranno sviluppate prima da altri. Perché in Europa continuano a esserci così pochi i casi di unicorni? Un unicorno è una start up che riesce a scalare verso una valutazione di un miliardo di euro/dollari. Per avere valutazioni così significative bisogna convincere il mercato di avere in mano una soluzione veramente e innovativa. Ma questo è possibile solo se viene da una applicazione di una innovazione fondamentale (ricerca di base) e/o può contare su una domanda potenziale molto ampia. E qui emerge il secondo aspetto limitante: in Europa i mercati sono ancora troppo frammentati. Sono frammentati sia per le loro idiosincrasie nazional-culturali ma anche per il permanere di un apparato regolatorio non omogeneo tra paese e paese e in generale più volto alla tutela dell’esistente che alla promozione del nuovo.
La gestione dei dati ed il loro utilizzo nell’ambito dell’AI è probabilmente il settore in cui questi limiti di approccio si evidenziano maggiormente. Basti ricordare che mentre l’Europa si è dotata di una normativa sulla privacy, Gdpr, che rende complicato e non privo di rischi legali l’accesso e l’utilizzo dei dati da parte di operatori europei che con grande fatica stanno cercando di raccoglierli, contemporaneamente, le big tech statunitensi e cinesi non hanno problemi a continuare ad accumulare dati ed a sfruttare il patrimonio di informazioni in essi contenuti. Proprio per la natura stessa del Machine Learning il patrimonio di dati già accumulati da operatori non europei ha permesso e permetterà di sfruttare/identificare preferenze, pattern di comportamento e dettare i modelli di consumo in tutti gli aspetti della vita dei cittadini europei per i prossimi anni. A questo il sistema Europa deve rispondere rapidamente per colmare il gap e poter tornare competitivo. E non può essere una risposta di difesa. La presenza di accumulazioni enormi di dati da parte di un numero limitato di soggetti deve far scattare una azione anti trust per ricostituire condizioni competitive più bilanciate.
Oltre alla forte spinta per finanziare a livello europeo la ricerca di base nei settori ad alta tecnologia occorre anche un diverso atteggiamento del mondo della Ricerca (Università, Istituti, Centri, …) nei confronti della ricerca applicata. Le Università in primis devono educare allo sviluppo pratico del sapere. Devono mutuare un atteggiamento più politecnico che generalista. Se la tekne grazie all’AI diventa logos, il controllo e sviluppo dell’ars è fondamentale per assicurarsi che il logos sia coerente ed efficace. L’educazione all’ars computazionale (linguaggi di programmazione) deve cominciare il più presto possibile per creare un ampio e diffuso bacino di competenze che possa fornire un ambiente predisposto allo sviluppo di potenziali architetture ed applicazioni informatiche. Ma la formazione di base sulla programmazione e i suoi linguaggi è solo il primo passo. Occorre che essa continui fino ai più alti livelli del sistema educativo seguendo di pari passo la crescita di competenze di dominio specifiche.
In fondo, quello dei programmi informatici, non è altro che una delle tante tipologie di linguaggio con cui comunichiamo, anche con i computer. Il loro apprendimento rappresenta dunque una educazione a comunicazioni con logiche e strutture di volta in volta diverse ma sempre molto coerenti. È fondamentale, anche per un efficace sviluppo dell’attività economica, che pensiamo a curare queste competenze come educazione alla comunicazione, all’apprendimento di ulteriori linguaggi in un’ottica interdisciplinare tra linguistica e computer science.
Questo è tanto più importante qui in Italia oggi. Finalmente, anche sotto la spinta di alcune Regioni, di alcuni operatori pubblici e privati, si sono sviluppati dei centri di eccellenza dotati di capacità di calcolo che li pongono ai primi posti nella dotazione di Hpc in Europa e nel mondo. Questo fattore di competitività acquisito con grande sforzo rischia di andare rapidamente perso se attorno a queste infrastrutture di calcolo non crescono parallelamente le competenze di Data Science che possono/devono sfruttare tali infrastrutture. Infatti, affinché le infrastrutture di calcolo possano continuare a rafforzarsi e innovarsi dobbiamo dimostrare il beneficio per il sistema economico che la presenza di queste infrastrutture promuovono attraverso lo sviluppo di applicazioni concrete,
A questo proposito la neo costituita International Foundation Big Data and Artificial Intelligence for Human Development nata a Bologna svolgerà sicuramente un ruolo rilevante nel cercare di decidere oggi il futuro che sarà. La Fondazione mette infatti al servizio del paese gli asset dei suoi soci fondatori: la straordinaria potenza di calcolo del polo Infn-Cineca-Enea, le competenze di Data Science e Computer Science di tutto il verticale rappresentato dalla associazione Big Data con le università della Regione ed il meglio degli istituti di ricerca nazionali ed infine le domande che richiedono una risposta operativa dei principali operatori economici nazionali.
di Renzo Giovanni Avesani, Chief Innovation Officer, UnipolSai Assicurazioni