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I nuovi compiti delle imprese tra crescita delle diseguaglianze e cambiamento climatico

Dal valore per gli azionisti agli interessi degli stakeholder: le mosse dei manager sembrano cavalcare il cambiamento. 16/02/21

di Enrico Sassoon

Il manifesto della Business Roundtable, e altri analoghi pubblicati negli ultimi due-tre anni hanno, come inevitabile, aperto le cataratte di un dibattito, peraltro ormai centenario, sui fini dell’impresa, o purpose come va di moda dire oggi. Per molti il passaggio, solo apparentemente innovativo, del manifesto segna la fine del mantra della massimizzazione del valore per gli azionisti per traghettare il business verso un’era di maggiore tutela degli interessi degli stakeholder, tra i quali emerge in primo luogo l’ambiente globale, elemento che appare sovraordinato rispetto agli altri. Ossia, per stakeholder non si considerano più solo i gruppi sociali rappresentati nella e dalla impresa come i dipendenti, i fornitori e i clienti, ma anche le realtà circostanti, da quella più ristretta costituita dalle comunità territoriali e locali a quella più ampia di tutte, ossia niente meno che il futuro del Pianeta nell’attuale contesto di cambiamento climatico.

È chiaro che questa nuova impostazione tende a stravolgere il confronto di posizioni “classico” che ha prevalso per lungo tempo. Non prendo qui in considerazione il confronto sugli obiettivi dell’impresa e degli imprenditori nella visione economica marxista, dove l’obiettivo è definito come surplus ricavato dallo sfruttamento del lavoro dipendente retribuito al di sotto del “valore” prodotto, rispetto alla visione neoclassica, in cui il profitto è essenzialmente il premio al coraggio imprenditoriale legato al conferimento di capitale e all’assunzione del rischio. Nel dibattito contemporaneo si confrontano con maggiore utilità le visioni che, da un certo momento in poi, sono emerse e si sono succedute nell’ambito degli studi sul capitalismo manageriale moderno e su fini e responsabilità dell’impresa e dei suoi rappresentanti.

 

Capitalismo e capitalismi

Come ha ricordato Roger Martin nel 2014, il capitalismo moderno ha vissuto due epoche principali alle radici delle quali si pongono due lavori accademici seminali. La prima epoca è quella del capitalismo manageriale, che ebbe inizio nel 1932 e fu contraddistinta dalla nozione, all’epoca radicale, che le imprese dovessero avere un management professionale. La seconda, il capitalismo del valore per gli azionisti, ha avuto inizio nel 1976. La sua premessa centrale è che lo scopo di ogni impresa dovrebbe essere quello di massimizzare la ricchezza degli azionisti. Se le imprese perseguono questo obiettivo, si è affermato, sia gli azionisti sia la società ne trarranno beneficio.

Ambedue le epoche non prendevano in particolare considerazione gli stakeholder e l’ambiente esterno all’impresa, figurarsi quello naturale, se non con l’assunto indiscutibile che quando l’impresa e i suoi rappresentanti assolvono al compito di creare ricchezza attraverso il profitto e occupazione sul mercato realizzano il proprio scopo, comprendente peraltro la soddisfazione e il benessere dei cittadini-clienti mediante la vendita di prodotti e servizi appropriati a prezzi giusti.

Come si è detto, le prime due epoche furono entrambe annunciate da un decisivo lavoro accademico. Nel 1932, Adolf A. Berle e Gardiner C. Means pubblicarono il loro ben noto trattato, The Modern Corporation and Private Property, dove si affermava che la gestione delle aziende doveva essere separata dalla proprietà. Il mondo degli affari non avrebbe più dovuto essere dominato dai proprietari-amministratori delegati come i Rockefeller, Mellons, Carnegie e Morgan. Le imprese avrebbero dovuto essere guidate da figure prese dall’esterno, ossia da una nuova classe di Ceo professionali. Cambiamento che non doveva essere temuto, poiché avrebbe generato una nuova coraggiosa era di espansione economica (peraltro, rinviata di qualche anno a causa della Grande Depressione).

La “visione” appariva senz’altro convincente e, mentre certamente continuarono a esistere i proprietari-azionisti, i manager professionali iniziarono a controllare “la stanza dei bottoni”. Gli imprenditori erano i benvenuti per avviare nuove attività ma, una volta che gli affari avessero raggiunto dimensioni significative, sarebbe stato saggio delegarle ai più affidabili ai meno volubili professionisti della gestione. L’idea ebbe successo e per circa mezzo secolo il management professionale si è affermato ed evoluto sia pure senza che venissero mai chiarite fino in fondo le reciproche attribuzioni tra board, azionisti e management e senza una netta demarcazione tra imprenditori e manager professionali, in un sotterraneo ma continuo confronto per la leadership mai interamente sopito.

La seconda fase arrivò nel 1976, quando il capitalismo manageriale ricevette una dura critica nell’articolo “Theory of the Firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure” di Michael C. Jensen e William H. Meckling, tra i saggi accademici di business più citati di tutti i tempi. Gli autori facevano riferimento a quella che è nota come “teoria dell’agenzia”, secondo cui i manager di professione, che dovrebbero agire nell’interesse della proprietà, in realtà perseguono dei propri interessi. Infatti, al riguardo, i due studiosi osservavano che di norma il management delle imprese tendeva a prestare poca attenzione agli interessi dei proprietari poiché punta essenzialmente a migliorare il proprio vantaggio economico a scapito di quello economico-finanziario degli azionisti. Jensen e Meckling sostenevano che questo costituiva un danno per gli azionisti e fonte di sprechi per l’economia: i manager sarebbero in grado di manovrare l’impresa e le sue risorse a beneficio dei propri interessi e occorreva, di conseguenza, procedere a un riallineamento

La loro critica ha inaugurato l’era del capitalismo del valore per gli azionisti, peraltro autorevolmente sostenuto da Milton Friedmann e la scuola di Chicago. I Ceo compresero rapidamente la necessità di giurare fedeltà alla “massimizzazione del valore per gli azionisti”, incoraggiati da autorevoli società di consulenza (McKinsey in primis) e da consigli di amministrazione ansiosi di riprendere le proprie prerogative per allineare gli interessi del management con quelli della proprietà, collegando le retribuzioni manageriali al valore delle azioni. Come sintetizzato da Martin, “non si sarebbe più abusato dell’azionista: l’azionista sarebbe stato il re”.

 

Dal valore per gli azionisti agli interessi degli stakeholder

E così, fino a poco tempo fa, è stato. Almeno in prevalenza e non senza meritevoli eccezioni, anche in Italia, dove il modello d’impresa olivettiano resta poco conosciuto e, anche se apprezzato, poco praticato. Difficile e illusorio individuare il momento in cui l’epoca degli azionisti davanti a tutto ha preso a scricchiolare. Un importante punto di svolta però è stato certamente quello segnato dalla crisi dei subprime, tra il 2007 e il 2008, e dalla conseguente crisi economica. Ma è un punto rilevante, non unico. La crisi ha certo provocato un impoverimento della classe media e un allargamento della forbice dei redditi. Ma a partire dall’inizio di questo secolo, anche la “quarta rivoluzione industriale” (o terza secondo alcuni) del digitale ha rappresentato una componente di crescente peso in termini di profonda modificazione del mercato del lavoro, pressione su stipendi e salari, richiesta di nuove competenze spesso non supportate dal sistema educativo e dunque crescente disallineamento tra opportunità di nuovi lavori e capacità di molti lavoratori di coglierle effettivamente.

In altre parole, negli ultimi vent’anni circa si sono create le condizioni di una relativa “pauperizzazione” di ampi segmenti della forza lavoro per motivi diversi, in un contesto di forte cambiamento e, spesso, di crisi economica generale (Piketty, Collier). Altre componenti di questa pressione, genericamente definita come “aumento delle diseguaglianze”, sono state il forte e poco governato afflusso migratorio con le sue conseguenze economiche, ma anche sociali e politiche, e la crisi legata al cambiamento climatico. Buona ultima, l’attuale crisi sanitaria i cui effetti si iniziano a vedere e che avrà peso crescente in futuro.

È in questo contesto che sembra opportuno inquadrare la svolta, vera o supposta, del manifesto della Business Roundtable. Quando Fukuyama nel 1989 espresse il concetto di “fine della storia” poiché con la caduta del Muro e la fine del comunismo si sarebbe dispiegato un futuro dorato all’insegna di un capitalismo trionfante, non fece troppi danni perché, in fondo, non furono molti a crederci. Ma qualche danno lo fece comunque, perché assieme ad altre tendenze, come per esempio quelle che già in precedenza erano state espresse al più alto livello politico da Reagan egli Usa e dalla Thatcher in Gran Bretagna, molti giunsero alla conclusione che il sistema capitalistico aveva in effetti trionfato ed era rimasto senza avversari. Potendo così esprimersi senza più vincoli né ostacoli tanto in campo produttivo quanto in quello finanziario. Certo Friedman ne fu grande cantore, così come Arthur Laffer e gli altri guru della supply-side economics lo erano stati a cavallo degli anni Settanta e Ottanta.

Gli ultimi decenni hanno in effetti visto prevalere la gestione delle imprese all’insegna della massimizzazione del valore degli azionisti. Ma si è trattato di un predominio non incontestato né assoluto. Parallelamente, i dubbi sulla saggezza e l’opportunità di questo approccio sono emersi, sia con riferimento della gestione delle imprese da parte di un management professionale orientato a premiare gli azionisti, crescentemente premiando se stesso, sia nel contesto più ampio di un crescente peso attribuito agli interessi degli stakeholder.

Sono gli anni in cui cresce la sensibilità relativa alla responsabilità sociale dell’impresa che inizialmente rompe l’idea semplice e semplicistica che un po’ di attenzione alla società da dimostrare con più o meno generosi atti di filantropia possa in fondo esaurire il compito, per arrivare gradualmente a nuove concezioni di maggiore inserimento dell’impresa come componente della società con il preciso dovere di condividere il valore creato Concezione divenuta nota grazie a Porter e Kramer con l’espressione “valore condiviso”, o shared value.

Ci si può chiedere, ben prima di domandarsi se i rappresentanti della Business Roundtable siano effettivamente intenzionati a mettere in pratica gli intenti espressi nel manifesto, se lo stesso Porter potesse aspettarsi che, al di là della Csr, le imprese nel mondo sarebbero arrivate a sposare l’idea e l’obiettivo del valore condiviso nell’ambito del purpose di una corporation. Anche per gli scettici, poco propensi a riconoscere alle organizzazioni una capacità di espressione etica o morale, la risposta appare sostanzialmente positiva. Malgrado abbondanti prove al contrario, sono molte le imprese, gli imprenditori, gli azionisti e i manager professionisti a porre se non al centro, almeno in posizione preminente, l’idea che la creazione di valore debba andare oltre la generazione e la massimizzazione del profitto e la sua ripartizione, in forme diverse e variamente contrattate, tra gli azionisti e i manager stessi.

Il punto è che, fin dai tempi di Adam Smith, non di obiettivo o di coscienza morale si tratta (o, meglio, non solo) ma di esigenza di corrispondere sia a pressioni di breve termine della società e dei diversi stakeholder, sia a un interesse reale dell’azienda stessa nelle nuove condizioni in cui si svolge, e soprattutto si svolgerà, l’attività di business nel quadro locale e globale. Interesse che, con grande evidenza, non potrebbe essere soddisfatto da scelte miopi e di breve respiro, e men che meno da misure furbesche di marketing e comunicazione, ma che richiedono scelte strategiche di grande e crescente importanza.

Forse il manifesto della Business Roundtable non può né potrà mai essere assimilato ai grandi punti di svolta del 1932 e del 1976 prima ricordati, ma di certo non può essere sottovalutato. Almeno per ora rappresenta un documento che esprime una forte volontà di cambiamento di quasi duecento delle principali imprese mondiali. Tra di esse, anche aziende alla cui testa si pongono alcuni tra i più potenti percettori di reddito del mondo, di norma espressione della rivoluzione digitale, con patrimoni personali più consistenti del Pil di molti Stati. Va ribadito che l’appello lanciato non emerge all’improvviso e dal nulla, ma va anche detto che sarebbe sciocco ritenere che non ha e non avrà effetti di rilievo.

 

Elementi di pressione sul business

Il cambiamento richiesto al mondo delle imprese si inquadra nei più generali cambiamenti dell’intera società mondiale e cercare di sottrarvisi appare tanto inutile quando pericoloso. L’enfasi che si pone su questi processi di cambiamento non sembri eccessiva. Le ragioni sono molteplici.

I firmatari del manifesto sono nella posizione migliore per rendersi conto dell’enorme pressione che si sta sviluppando sulle imprese. Fino a non molto tempo fa l’attenzione e il controllo dell’opinione pubblica su ogni singola organizzazione e sull’insieme di esse poteva essere esercitato in modo solo parziale e incompleto, laddove la mancanza di informazioni o quantomeno le asimmetrie informative erano la regola. Nella società dell’informazione globale e istantanea questo non è più vero. La pressione sociale sul business, specie da parte delle nuove generazioni, sta aumentando in modo continuo e più che proporzionale rispetto alle già grandi e intense forze della trasformazione.

Da un punto di vista interno alle imprese, un altro tipo di pressione sta montando. Riguarda meno il purpose strategico dell’impresa e di più alcune pratiche di gestione molto utilizzate nel recente passato, e spesso tuttora dominanti, che hanno come risultato quello di creare ulteriori divaricazioni nei redditi e nella relazione tra top management e dipendenti nel loro insieme. Innanzitutto, la ben nota tendenza del management a privilegiare gli obiettivi di breve rispetto a quelli di lungo termine e le concrete modalità delle relative scelte. Lo short-termism, più diffuso negli Usa che in Europa e in Italia (e più tra le società quotate che tra le imprese famigliari) induce spesso le leadership aziendali a pratiche in conflitto con gli interessi di lungo termine degli stakeholder. Anche se è bene non sottovalutare la complessità del compito di un management responsabile nel contemperare la pressione per obiettivi di breve da parte del mercato, degli analisti e dei fondi speculativi rispetto all’aspettativa degli azionisti e del board per risultati sostenibili nel tempo. Ai manager sono richieste la doti di un ben accentuato strabismo e di un funambolico ambidestrismo per coniugare quelli che possono sembrare obiettivi in conflitto tra loro.

È ben noto che un ostacolo a sviluppare questo sano strabismo e questo auspicato ambidestrismo è dato dalle conseguenze auspicate da Jensen e Meckling, che hanno portato a due importanti effetti: l’adozione delle stock option come base delle retribuzioni dei manager, che spesso induce a scelte di breve termine per massimizzare i valori azionari nel breve; e la pratica, meno analizzata e discussa, del sempre più massiccio ricorso ai buy back, essenzialmente per lo stesso scopo. Prese insieme, queste due pratiche hanno l’effetto gonfiare artificialmente il valore azionario, premiando nel breve sia gli azionisti sia i manager, riducendo al contempo le risorse da dedicare a investimenti sostenibili di lungo termine e al benessere e allo sviluppo professionale dei dipendenti.

Aziende, soprattutto di grandi dimensioni, che si propongano di seguire le indicazioni di un manifesto orientato al purpose dovrebbero quindi prendere in esame e rivedere i meccanismi di governance e di incentivazione dei manager per creare, in accordo con gli azionisti e senza penalizzazioni del mercato, un valore di lungo termine condiviso e sostenibile. Questo, per soprammercato, richiederà anche una seria riflessione sui compensi stellari riservati ai “campioni” del management, probabilmente ingiustificati rispetto all’apporto effettivo ai risultati dell’impresa e sostanzialmente ingiustificabili per una buona parte dell’opinione pubblica, al netto di ovvie e sgradevoli posizioni demagogiche.

 

Fattori economico-finanziari e climatici

Ma l’enfasi data alla spinta generata dal cambiamento su scala mondiale risulterebbe eccessiva se ci si limitasse al tipo di pressioni descritte. La questione, ben più ampia, è che rispetto ai grandi mutamenti in atto le azioni della stragrande maggioranza delle imprese e dei loro leader appaiono ancora del tutto insufficienti, quando non irrilevanti. E questi mutamenti hanno prioritariamente a che fare con due fattori. Il primo consiste nel crescente solco che si è venuto a creare tra coloro che hanno beneficiato delle grandi trasformazioni economiche e tecnologiche degli ultimi decenni, quelli della grande spinta alla globalizzazione, e coloro che ne sono rimasti esclusi o penalizzati. Il secondo si riferisce a quello che in precedenza si richiamava come un fattore sovraordinato rispetto agli altri, ossia quello dell’ambiente globale o, per meglio dire, del cambiamento climatico.

L’aspetto economico è determinante. Negli ultimi anni i meccanismi dell’economia di mercato, e a tratti gli stessi meccanismi della democrazia, sono entrati nel mirino di critiche crescenti, proprio a seguito di quelli che, a torto o a ragione, sono stati richiamati come “effetti della globalizzazione” (Stiglitz, tra gli altri). Le diverse cause prima richiamate hanno generato malcontento e sfiducia in larghe fasce di popolazione in tutti i principali Paesi, l’Italia fra questi. Ne sono seguite crescenti richieste di tutela e protezione che, in un contesto di veloce trasformazione tecnologica e di crisi economica, sono state solo parzialmente soddisfatte, lasciando spazio a reazioni di protesta la cui espressione politica ha spesso preso la direzione di un populismo sia di destra che di sinistra (Judis), come si è ampiamente potuto osservare sia in Europa sia negli Stati Uniti.

Senza entrare ulteriormente nel merito di questi fenomeni, ciò che rileva è che il mondo delle imprese e soprattutto della finanza è stato ed è oggetto di forti critiche, spesso amplificate da un uso mediatico spregiudicato di realtà incontestabili come l’ampliamento delle diseguaglianze. È chiaro che, alle diverse forme di pressione già enumerate, occorre aggiungere anche questi aspetti, che richiedono crescente attenzione da parte del business e dei suoi rappresentanti. Il manifesto della Business Roundtable può essere in qualche modo considerato parte di una reazione più ampia che vede nelle imprese un soggetto centrale nel dare le risposte appropriate al disagio espresso in forme diverse da strati diversi di popolazione. In questo senso, può rappresentare certo un evento di rilievo ma per il momento ancora incompleto e insufficiente rispetto alle cause che lo hanno determinato (Henderson).

In relazione al secondo fattore, quello del cambiamento climatico, può non sembrare immediatamente evidente introdurlo in una discussione che muove dallo statement della Brt, peraltro nei suoi contenuti abbastanza simile all’appello lanciato dal World economic forum a inizio 2020. I due manifesti hanno in comune non solo gli obiettivi relativi alla tutela degli interessi degli stakeholder, come ampiamente descritti, ma anche il fatto di non prendere in considerazione, se non con il diffuso utilizzo del termine “sostenibilità”, il tema del climate change e del cambiamento di rotta che esso sta imponendo, e sempre di più è destinato a imporre, non solo alle politiche degli Stati e ai comportamenti dei singoli, ma alle scelte strategiche delle imprese (Serafeim).

Una mancanza significativa e piuttosto grave se messa a confronto con uno statement di non minore importanza e impatto dello stesso periodo: la lettera agli azionisti del Ceo di BlackRock, Larry Fink. La società finanziaria, che è il maggior gestore privato al mondo di asset finanziari nell’ordine dei 5 trilioni di dollari, dichiara ormai inequivocabilmente quanto segue: “Il cambiamento climatico è divenuto per le società un fattore determinante da prendere in considerazione nell’elaborare le strategie di lungo periodo…. Milioni di persone si sono riversate per le strade per richiedere un intervento in merito al cambiamento climatico; molte di loro hanno evidenziato l’impatto duraturo che questo fenomeno avrà sulla crescita e sulla prosperità economica, un rischio che i mercati fino ad oggi sono stati più lenti a recepire. Ma la consapevolezza sta cambiando rapidamente e credo che siamo sull’orlo di una completa trasformazione della finanza".

E prosegue: “I dati sui rischi climatici obbligano gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna (...) Sempre più gli investitori sono costretti a confrontarsi con questi interrogativi e sempre più si rendono conto che rischio climatico significa rischio d’investimento (….) Crediamo che l’investimento sostenibile sia il più solido fondamento per permettere al portafoglio dei clienti di crescere. BlackRock ha annunciato di rendere la sostenibilità parte integrante della costruzione dei portafogli e del risk management; uscire da investimenti con elevati rischi legati alla sostenibilità, come nel caso di produttori di carbone termico; lanciare sul mercato nuovi prodotti finanziari che tengono in considerazione esplicitamente l’utilizzo di combustibili fossili e rafforzare il nostro impegno in favore di sostenibilità e trasparenza nelle nostre attività di gestione degli investimenti”.

Questa la posizione del maggiore investitore privato del modo, non dissimile peraltro da quelle che da qualche tempo vengono espresse anche da banche di grande dimensione e istituti finanziari, così come dalle maggiori compagnie di assicurazione, da Generali ad Allianz, non più disposte ad assicurare aziende non impegnate su attività dimostrabilmente sostenibili. Ma, con ogni probabilità, ancora più significativa da questo punto di vista è la decisione assunta dai maggiori fondi pensione del mondo che, come ben ricorda Jeremy Rifkin nel suo recente libro, Un green new deal globale, nel loro insieme gestiscono risparmi dei dipendenti delle imprese nell’ordine dei 40 triliardi di dollari, e di alcuni fondi sovrani, primo fra tutti quello norvegese. Questi fondi hanno già preso la decisione di distogliere gradualmente i loro investimenti da aziende eccessivamente legate all’economia del carbonio, giudicando eccessivamente alto il rischio di un loro progressivo declino e perdita di valore (stranded assets) per dirottarli verso aziende impegnate nella transizione energetica, ossia con tassi inferiori e decrescenti di emissioni di CO2, fino alla totale neutralità di emissioni di gas serra.

Che il cambiamento climatico e la guerra alle emissioni di carbonio, la decarbonizzazione, siano in atto è sempre più evidente. L’Unione europea ha lanciato il suo Green Deal, la Cina colossali programmi analoghi e, anche se si mostrano in estremo ritardo su scala federale, gli Stati Uniti stessi dimostrano grande attivismo sia a livello locale (ad esempio la città di New York) sia a livello di molti stati (es. California). Ma più delle normative e più anche delle misure economiche varate a livello nazionale e internazionale, ciò che potrebbe modificare radicalmente i compiti, e dunque il purpose, delle corporation saranno le nuove frontiere degli investimenti finanziari globali.

Di fronte a questo occorre chiedersi quanto la percezione di questo fenomeno sia diffusa, ma soprattutto quanto condivisa. E, nel secondo caso, quanto le aziende e i loro manager e azionisti siano preparati al cambiamento. Dalla risposta che verrà data dipenderanno molte delle sorti non solo degli stakeholder attuali, ma delle future generazioni.

di Enrico Sassoon, Direttore responsabile, Harvard business review Italia.

 

Riferimenti bibliografici

Roger L. Martin, “L'ascesa (e il probabile declino) della Talent Economy”, in Harvard Business Review Italia, ottobre 2014.  

  1. A. Berle, G. C. Means, The Modern Corporation and Private Property, Transaction Publishers, New Brunswick, 1932; trad. it. Società per azioni e proprietà privata, Einaudi, Torino 1966.

Michael Jensen e William H. Meckling, “Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure”, in Journal of Financial Economics, vol. 3, n. 4, 1976.

Francis FukuyamaLa fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

Paul Craig Roberts, The Supply-Side Revolution, Harvard University Press, 1984.

Michael E. Porter e Mark R. Kramer, “Creare valore condiviso”, in Harvard Business Review Italia, gen-feb 2011.

Larry Fink, A Fundamental Reshaping of Finance, 17 gennaio 2019, https://www.blackrock.com/corporate/investor-relations/larry-fink-ceo-letter.

Jeremy Rifkin, Un green new deal globale, Mondadori, Milano, 2019.

Enrico Sassoon, “Responsabilità sociale ed etica: un’evoluzione che riporta al passato”, in Elio Borgonovi et al., Etica, responsabilità pubblica, imprenditorialità e management, Franco Angeli, Milano, 2019.

Paul Collier, The Future of Capitalism, Penguin Random House, 2018.

Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018.

John B. Judis, The Populist Explosion, Columbia Global Reports, New York, 2016.

Rebecca Henderson, “Tocca alle imprese salvare la democrazia?”, in Harvard Business Review Italia, giugno 2020.

Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Milano, 2018.

George Serafeim, “Attività a impatto sociale che creano valore reale”, in Harvard Business Review Italia, ottobre 2020.

*Articolo pubblicato in Harvard business review Italia (Progetto Macrotrends), novembre 2020.