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Una sfida difficile da affrontare: l’apprendimento continuo

Uomo e macchine sono destinati a collaborare ma per farlo occorre avviare processi estesi a ogni livello. 03/08/20

di Bruno Lamborghini

 

La digital transformation in atto, a cui si affiancano sempre più i progressi nella bioingegneria e nelle neuroscienze, riapre in modo rivoluzionario il rapporto tra macchine e persone, un rapporto già sempre centrale nel lungo processo di industrializzazione.

Rispetto ai passati cicli tecnologico-industriali che hanno liberato l’uomo da gran parte della fatica manuale, attraverso lo sviluppo di crescenti flussi di energie fisiche, la tecnologia digitale sta creando eccezionali flussi di energie cognitive immateriali, una straordinaria produzione di dati e conoscenze mai sperimentata in precedenza, con effetti difficilmente prevedibili sull’evoluzione futura e i relativi impatti sulla società umana.

Viviamo già in un contesto in cui i robot si auto-riproducono, le macchine “intelligenti” imparano a prendere decisioni, le reti neurali entrano nei cervelli, l’ingegneria genetica interviene nel DNA e può produrre cloni umani, creando una crescente integrazione simbiotica tra uomo e macchina.   

Gli algoritmi prodotti dalla crescita esponenziale dell’Intelligenza Artificiale (IA) possono determinare rilevanti impatti sull’occupazione sostituendo attività non più solo di fabbrica, ma anche nelle professioni della conoscenza e nei processi decisionali (Brynjolfsson e Mc Afee).

Questa difficile sfida, forse la più complessa mai sperimentata, va affrontata mantenendo le persone al centro, non le macchine, e rendendo possibile un rapporto simbiotico consapevolmente gestito dalle persone. Occorre saper tradurre l’IA in intelligenza umana aumentata (IUA), accrescendo conoscenze, capacità e competenze di tutti, non solo di una élite specialistica, e consentendo infinite opportunità di sviluppo di nuove attività e nuovi benefici individuali e sociali. Ciò sarà possibile solo se le conoscenze e le competenze professionali riusciranno a innovarsi continuamente, a crescere e a integrarsi con una velocità di cambiamento possibilmente non inferiore a quella della tecnologia. Non è possibile disegnare oggi le competenze che saranno necessarie anche nel futuro più prossimo, ma già ora si possono definire dei trend e dei percorsi da seguire.

La vera sfida è la capacità di sviluppare processi dinamici di apprendimento continuo di conoscenze e competenze in grado di affrontare mutazioni tecnologiche ed economico-sociali continue, complesse e imprevedibili. Certamente, con la necessità che, con il supporto di imprese e istituzioni, ciascuno si doti di una grande consapevolezza e flessibilità mentale e culturale per un adattamento contestuale continuo in stretta relazione con quanto sta avvenendo.

Il contenuto e il significato del lavoro deve tradursi progressivamente per tutti in competenze professionali specifiche per qualunque livello di attività, sotto la spinta delle tecnologie, ma sotto la chiara guida della capacità e consapevolezza personale di ciascuno.

 

Da jobs a skills

La diffusione del digitale viene molto spesso identificata dai media con il rischio della fine del lavoro umano. Non si dedica, invece, sufficiente attenzione alla metamorfosi in atto nel passaggio, favorito dalla tecnologia, del concetto tradizionale di lavoro verso attività e competenze qualificate, passando dal termine generico di job a quello di skill, cioè introducendo competenze professionali in tutte le attività, anche quelle a minore qualificazione.

Questo passaggio non avviene inerzialmente, non è un free lunch, richiede grande impegno e comporta costi sociali rilevanti. In particolare, si deve attuare una trasformazione radicale dei percorsi formativi di base, scuola e università, con un forte e consapevole impegno formativo da parte di imprese e istituzioni, ma soprattutto con una precisa disponibilità delle singole persone a impegnarsi in processi di apprendimento permanente. Occorre passare dal concetto tradizionale di istruzione a quello di apprendimento continuo. Solo accettando la sfida dell’apprendimento continuo su tutto l’arco di vita si possono affrontare i rischi di rapida obsolescenza delle competenze.

L’urgenza di questo impegno non appare, peraltro, ancora percepita né da parte dei singoli né di organizzazioni pubbliche e private che non investono su attività di reskiling continuo dei dipendenti, non comprendendo che il fattore umano è, e sempre più sarà, l’asset principale delle aziende e delle istituzioni. Si rinnovano le macchine, ma non si investe sul rinnovamento formativo delle persone.

Ciò sta creando, in particolare in Europa e in Italia, un grave skill shortage di competenze a tutti i livelli, dai tecnici agli ingegneri ai manager, che non sono così in grado di affrontare concretamente i cambiamenti tecnologici e sociali. Paradigmatico il recente caso italiano del programma Industria 4.0: mentre si prevedeva di incentivare gli investimenti in macchinari connessi, non si è incoraggiata la formazione delle competenze necessarie, rischiando così di avere effetti ridotti o nulli per la carenza delle competenze in grado di utilizzare le macchine.

La sfida della professionalizzazione del lavoro attraverso le competenze professionali va affrontata investendo sulla formazione di competenze in evoluzione dinamica in tutte le attività, sia low skill che medium e high skill. In assenza di limitazioni strutturali e in presenza di condizioni favorevoli, qualsiasi attività lavorativa può e deve arricchirsi continuamente di competenze digitali trasversali (il lavoratore “aumentato” dall’IA) e di competenze gestionali, tali da professionalizzare e rendere ciascuno gestore autonomo del proprio cambiamento.

 

Le competenze dinamiche

Le competenze aperte al futuro richiedono conoscenze professionali in continuo aggiornamento dinamico, ma anche capacità di contaminazione interdisciplinare e un’attenzione ricca di curiosità e passione verso il nuovo, l’imprevisto, il cambiamento, un atteggiamento mentale e culturale, un nuovo mindset (Harari). Occorrerà anche una grande capacità di relazioni e di scambio di conoscenze, senza timore di rischiare di perdere il proprio patrimonio conoscitivo e professionale, ma anzi arricchendolo attraverso forme di comunità di pratica e di knowledge sharing.

Si parla oggi sempre più di un mix di tech skill e di soft skill, ma questi termini possono essere limitanti in quanto occorre dare spazio, accanto alle competenze tecno-gestionali, anche a profonde human skill basate su una chiara consapevolezza delle proprie responsabilità verso gli altri e verso la comunità-territorio in cui si opera, un’umiltà concreta e profondi valori etico-sociali, ricchi di humanities. Dovremo, in sostanza, puntare a essere “persone integrali”, come le definisce Federico Butera, persone che siano “psicologicamente, professionalmente, socialmente, eticamente integrali e che godano di una solida integrità di sé”.  

Sempre più di frequente ci si riferisce a componenti umane da affiancare a quelle tecnologiche nei processi di apprendimento e nelle attività operative. Nelle università propone la figura dell’ingegnere umanista, nelle aziende si ricerca l’ingegnere-filosofo. L’apprendimento continuo delle nuove competenze (diverso dal tradizionale approccio di lifelong training, spesso attuato formalmente ma con scarsi effetti pratici) si realizza attraverso la contaminazione culturale interdisciplinare di ciascuna persona attraverso istituzioni formative adeguate a questo scopo, con laboratori di ricerca e innovation hub, con una imprenditoria startup minded in contesti di scambio a livello territoriale con istituzioni pubbliche in grado di creare una learning society, come propongono Stiglitz e Greenwood, ovvero comunità di apprendimento aperte a tutti. Consapevolezza, discernimento, conoscenza, abilità, curiosità e passione sono le parole chiave della learning community.

 

Apprendimento attivo vs. formazione passiva

L’elemento di criticità è determinato dalle inadeguate risposte dei sistemi formativi attuali, per lo più ancora organizzati come una catena di montaggio limitata ai primi 18-20 anni di vita per fornire informazioni (più che formazione) e conoscenze di base, con minima partecipazione attiva e critica degli studenti e senza diretto collegamento con la realtà sociale, con il mondo del lavoro e delle professioni. Una risposta diversa è ben possibile, come si può vedere in quanto viene attuato in Germania attraverso le Fachhochschulen, scuole connesse strettamente con il mondo del lavoro. In Italia, al contrario, dobbiamo lamentare le difficoltà incontrate dagli Istituti tecnici superiori (Its), istituzioni orientate a una formazione esperienziale di aula e stage presso imprese e istituzioni, ma ancora oggi frenate nel loro sviluppo. Analoghi problemi incontrano i corsi professionalizzanti presso le università italiane, considerati anomali rispetto ai curricula tradizionali, mentre sarebbe necessario che le università potessero contribuire efficacemente all’apprendimento collettivo continuo, affiancando i propri percorsi a corsi finalizzati al reskilling e all’aggiornamento delle competenze in stretta collaborazione con imprese, istituzioni e mondo del lavoro.

Un mix positivo che dovrebbe poter essere attuato dalle università, così come dai licei e dalle scuole tecniche, affiancando le necessarie conoscenze di base e di metodo a forme di apprendimento professionale continuo, aprendo alle esigenze del mondo reale e del futuro, invitando a imparare sempre, senza mai smettere di studiare e conoscere.

 

Human learning e machine learning

L’intelligenza artificiale ha aperto la strada dell’apprendimento continuo da parte delle macchine connesse. Il machine learning sviluppato da algoritmi IA consente a macchine (come i robot, le auto senza pilota, ma anche le app dei nostri smartphone) di apprendere in real time in modo continuo e con la capacitò di contestualizzare e aggiornare il proprio stock di conoscenze, scambiandolo con altre macchine e accrescendone la disponibilità.

Un utilizzo efficace di questo apprendimento contestuale di miliardi di dati è dato dalla possibilità, collegata proprio all’immensa quantità di dati e immagini disponibili, di acquisire capacità decisionali specifiche (un esempio ne è proprio l’auto senza pilota, quando confronta la realtà fattuale con lo stock di immagini in memoria per prendere le decisioni conseguenti).

Al contrario, i processi di insegnamento tradizionali cercano di accumulare nella testa degli studenti nozioni con verifiche limitate, senza connessioni né riferimenti con la realtà vissuta quotidianamente. Si tratta di processi una tantum che non riescono a indurre stimoli all’aggiornamento e al rinnovo delle conoscenze e competenze nel proprio arco di vita; fenomeno strettamente legato al basso livello di lettura di libri e giornali da parte tanto di giovani quanto di persone adulte. Nè riempiono il vuoto di apprendimento (anzi spesso lo creano) meccanismi quali i motori di ricerca o enciclopedie online come Wikipedia. Analogamente, i corsi universitari on line Mooc o Weschool-Oliproject sono certamente utili ma sono scarsamente strutturati e molto limitati in termini di numero e tipo di partecipanti.

Sarebbe invece utile che scuole e università potessero gestire le straordinarie potenzialità di corsi on line, l’e-learning e i webinar in modo strutturato e finalizzato allo sviluppo di competenze in relazione alle effettive esigenze di reskilling e upskiling. Può essere forse utile cogliere dal modello machine learning indicazioni per lo human learning. Il fattore differenziante è (per ora) la linearità di apprendimento delle macchine rispetto alla capacità complessa, sinaptica e intuitiva della mente umana. Quindi, l’affiancamento di modelli di machine learning e delle nuove prospettive aperte dalle neuroscienze e dal deep learning nei processi di human learning potrebbe accelerare un apprendimento contestuale, ma occorre puntare sul carattere unico delle componenti umane rispetto alla macchina, le sole in grado di generare un deep human learning.

 

Verso la trasformazione dei tre cicli: apprendimento, lavoro e pensione

Veniamo da un modello di vita che, nella lunga storia dello sviluppo industriale, ha determinato una suddivisione della vita umana in tre cicli temporalmente separati: il ciclo dell’education per un primo periodo di vita, quindi il ciclo del lavoro e, al termine, il ciclo del retirement pensionistico. Questa suddivisione non era praticata in passato nelle attività pre-industriali, nelle attività agricole e nelle attività artigianali, dove apprendimento e lavoro erano strettamente integrati e duravano tutta la vita, spesso sino al termine della vita stessa.

Le trasformazioni in atto, sotto la spinta “disruptive” della tecnologia, ma anche per i profondi mutamenti socio-organizzativi e demografici, impongono, da un lato l’esigenza di apprendimento continuo contestuale di conoscenze e competenze durante tutta la vita attiva e dall’altro modelli di lavoro-attività in continuo cambiamento, in forme strutturate o destrutturate di lavoro dipendente e di attività autonome.

Questa trasformazione apre anche la possibilità di trovare risposta al crescente bisogno di un chiaro senso del lavoro rispetto alla propria vita, ridefinendone modalità, tempi e condizioni, e creando premesse di partecipazione e gestione del proprio lavoro, in un percorso di ricerca di maggiore coinvolgimento e felicità nel rapporto vita-lavoro, come proponeva Adriano Olivetti.

Non vi è dubbio che ciò richieda profondi cambiamenti nelle modalità contrattuali e di tutela del lavoro, così come nella ridefinizione dei modelli organizzativi e delle strutture di welfare pubblico/privato, per mettere le persone in grado di affrontare possibili periodi di disoccupazione o sottooccupazione, o condizioni di disabilità e disagio.

E’ molto probabile che in futuro si debba passare dalla tripartizione storica dei cicli di vita a percorsi di apprendimento continuo e permanente di competenze integrate alle attività lavorative, in forme remunerate o volontarie e con un’adeguata organizzazione del tempo libero per intrattenimento, sport, cultura e impegno sociale per la comunità. È una sfida difficile e complessa, ma è con ogni probabilità l’unica strada possibile, e auspicabile, davanti a noi.

* Pubblicato in "Progetto Mactotrends 2019-2020", Harvard Business Review Italia, novembre 2019

di Bruno Lamborghini, presidente della Fondazione Amiotti di Milano, già Chief economist, direttore e amministratore con ruoli di presidenza nel gruppo Olivetti.