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Nelli Feroci: “È la fine del multilateralismo che conosciamo. Ora Europa più forte”

Il presidente dello Iai: “La pandemia ha aggravato un quadro internazionale già instabile. Trump interlocutore poco affidabile. Sullo sviluppo sostenibile l’Ue mantenga gli impegni”. 13/07/20

di Andrea De Tommasi

 

“Già prima dello scoppio della pandemia la crisi del multilateralismo era davanti ai nostri occhi”.

Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e diplomatico con una lunga esperienza in Europa, il Covid-19 ha aggravato un quadro di instabilità internazionale preesistente?

Sicuramente sì. Il multilateralismo, con le sue regole e le sue istituzioni internazionali, era già in crisi. E il quadro internazionale, privo di potenze egemoni, era caratterizzato da un multipolarismo instabile e da numerosi fattori di incertezza e imprevedibilità. Ma il Covid-19, se possibile, ha ulteriormente accentuato questa crisi, esaltando quello che oggi appare come il dato più caratterizzante del quadro internazionale, ossia la competizione sistemica e generalizzata tra gli Stati Uniti e la Cina. Una competizione che era iniziata ancora prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, che si è aggravata con Trump e con la campagna per le presidenziali. È una competizione cominciata con le tensioni commerciali e con la guerra dei dazi e l’avvio della spirale del protezionismo, proseguita con lo scontro sul digitale e per il primato sulle tecnologie emergenti e, infine, culminata nel recente scambio di accuse sulle responsabilità per la pandemia. Così, mentre l’amministrazione americana accusava la Cina per il mancato controllo del virus nelle fasi iniziali, gli Stati Uniti finivano sotto accusa per la gestione inefficace della pandemia. Ad aggravare il quadro, sono poi arrivate le conferme delle tendenze autocratiche e dittatoriali del regime cinese, con le minacce di Pechino alla sicurezza dei vicini e con le repressioni in atto a Hong Kong.

Tuttavia certe tendenze in ambito internazionale sono precedenti al Covid-19. Il multilateralismo, che funzionava sulla base di regole condivise e di istituzioni internazionali riconosciute, incaricate di gestire il mondo delle relazioni internazionali, era già in una crisi profonda. Una crisi in cui ha giocato un ruolo significativo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, con gli Stati Uniti che hanno di fatto rinunciato a esercitare il proprio ruolo di potenza egemone e con nuove potenze che si sono affacciate sulla scena internazionale.

Le istituzioni europee hanno mobilitato un complesso di misure di contrasto alla crisi. Dalla sospensione dei vincoli al patto di stabilità, al bazooka della Bce per l’acquisto di titoli, al Sure fino al Mes e al Recovery fund. D’altra parte ci sono delle incognite sul come verranno utilizzati quelle risorse, se la strada della ricostruzione sarà in coerenza con gli obiettivi e le priorità condivise di un’Europa più sostenibile e più resiliente, se verranno confermati gli sforzi per il raggiungimento degli SDGs. Che idea si è fatto?

Questa volta l’Europa ha reagito in maniera rapida e molto efficace, dimostrando una notevole capacità d’iniziativa. Se si fa un confronto con la reazione alla crisi economica e finanziaria esplosa nel 2008, stavolta la performance europea è stata incredibilmente più tempestiva ed efficace. Le risposte sono arrivate rapidamente e all’insegna della solidarietà. Certo, per avere un quadro completo dobbiamo attendere l’esito del negoziato in corso sul pacchetto Recovery, che costituisce il complesso di misure politicamente e finanziariamente più significative. È anche vero che la dimensione della crisi è tale che era necessaria una risposta di questo tipo: le ultime previsioni economiche confermano un crollo drammatico del Pil, non uguale tra i Paesi, ma pesante in tutta l’Ue.

 I primi interventi di natura emergenziale (la sospensione delle regole del patto di stabilità, gli acquisti massicci di titoli da parte della Bce, il programma Sure, il Mes con condizionalità alleggerite) sono stati utili e necessari per tamponare l’emergenza. Ora occorre concordare a livello politico un programma di aiuti funzionale alla ricostruzione e alla ripresa. L’Unione europea sta fissando alcune condizionalità, delle regole che consentano di utilizzare questi fondi europei in modo coerente con gli obiettivi che la stessa Ue si era data, soprattutto in linea con l’ambizioso Green new deal, che è il programma più qualificante di questa Commissione e di questa legislatura. Direi che oggi la sfida più significativa per i Paesi che si apprestano a ricevere questi aiuti dalla Ue sarà quella di definire programmi e progetti di ricostruzione e rilancio coerenti con gli obiettivi definiti in sede europea, in particolare in materia di crescita sostenibile, contrasto al cambiamento climatico e digitalizzazione. Collegare l’erogazione di questi aiuti (sia sotto forma di doni che di prestiti) appare corretto e legittimo. Ma sicuramente costituirà un onere e un impegno per gli Stati membri, che dovranno elaborare programmi e interventi coerenti, operativi e verificabili, che dovranno poi essere sottoposti al monitoraggio delle istituzioni europee, che dovranno garantire un controllo attento sull’utilizzo delle risorse. Quanto al tema degli SDGs, é vero che questa crisi ha impattato pesantemente in particolare su alcuni degli Obiettivi, era inevitabile che fosse così. Tuttavia, il programma per la ricostruzione che si sta elaborando in sede europea appare coerente con l’impegno a realizzare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. E questo è un ottimo segnale.

L’Unione europea può giocare un ruolo attivo nelle grandi sfide di oggi: contrasto alle pandemie, cambiamenti climatici, terrorismo internazionale, nuove povertà? Oppure il percorso verso la sostenibilità tracciato dalla Commissione von der Lyen rischia di naufragare sotto i colpi della crisi?

Ursula von der Leyen aveva manifestato quest’ambizione appena fu eletta presidente della Commissione europea. Presentando il suo programma al Parlamento, annunciò che l’Unione europea avrebbe dovuto recuperare un ruolo geopolitico, ponendosi alla testa di un ampio schieramento internazionale di Stati e di governi da mobilitare su precisi obiettivi: crescita sostenibile, contrasto ai cambiamenti climatici, tutela dell’ambiente. La presidente della Commissione ha poi confermato di voler mantenere questi impegni anche nella ricostruzione post-Covid, il che è un segnale positivo. Il compito non sarà però facile e la realtà però è più complessa. Dobbiamo essere consapevoli infatti che, se sulla scena internazionale a parole quasi tutti gli Stati sembrano aver accettato questi impegni, nei fatti sappiamo benissimo che non è così. Alcuni Paesi hanno rinunciato o abbandonato questi obiettivi. Il caso più clamoroso è sicuramente quello degli Usa, che hanno deciso di ritirarsi dagli accordi sul cambiamento climatico. Dunque l’Unione europea è attesa da un compito non facile, un compito complicato dal fatto che non esistono meccanismi vincolanti per ottenere il rispetto degli obiettivi, ma tutto è lasciato alle pressioni politiche e alla moral suasion.

La spaccatura sul Recovery fund tra i Paesi nordici, capitanati dall’Olanda, e quelli meridionali, guidati da Spagna e Italia, ha messo in evidenza differenze e sensibilità diverse che rischiano di minare un percorso unitario europeo di ricostruzione. Oppure no?

Partirei da una premessa: i processi decisionali dell’Unione europea non possono prescindere dalla volontà dei 27 Stati membri e, per decisioni di interesse speciale, è necessario che ci sia l’accordo di tutti. Piaccia o meno, su queste basi è costruita l’Europa e così funziona attualmente. Ciò è valido anche per il programma Recovery, che presuppone un accordo sul bilancio comune settenale dell’Unione europea, che viene deciso all’unanimità. Sappiamo bene che in Europa ci sono sensibilità diverse, e sappiamo anche che siamo in presenza di un negoziato difficile e complesso, nel quale sono emerse posizioni a volte contrastanti.

Ciò nonostante sono ottimista. In primo luogo perché i Paesi membri sono d’accordo su due questioni non trascurabili. La prima è che questi aiuti siano distribuiti in maniera proporzionale ai danni provocati dal Covid-19 ai singoli Paesi beneficiari. Si tratta di una chiave di ripartizione molto particolare, in qualche modo asimmetrica, mai utilizzata prima. L’altra questione di principio importante è l’accettazione da parte di tutti che questo programma possa essere finanziato con il ricorso a debito europeo, cioè con la possibilità per la Commissione di emettere titoli di debito garantiti dal bilancio comune dell’Unione europea, da collocare sui mercati finanziari per garantirsi le risorse necessarie per finanziare il Recovery Plan. Ora, l’idea che i 27 Paesi membri accettassero il principio di una Commissione che si “indebita” utilizzando come garanzia del debito contratto il bilancio comune dell’Unione non era scontato. In questo un ruolo decisivo l’ha giocato la Cancelliera Angela Merkel che, insieme al Presidente francese Emmanuel Macron, ha fatto per prima la proposta. E poi la Commissione che l’ha recepita nel pacchetto Recovery. Non tutto è stato ancora concordato in sede di Consiglio: serve trovare un compromesso sull’ammontare complessivo delle risorse, sulla distribuzione tra gli aiuti tra doni e i prestiti e sui criteri di distribuzione. Questo è il lavoro che dovranno fare le diplomazie nazionali per arrivare a un accordo, possibilmente il 17 luglio in occasione del Consiglio europeo.

Come giudica le strategie e le azioni dell’Italia sullo scacchiere europeo e internazionale?

Questo governo, con tutti i limiti dovuti i alla composizione eterogenea della maggioranza che lo sostiene, è riuscito a ridefinire in termini collaborativi il rapporto con l’Europa. Se pensiamo ai disastri combinati dal precedente governo giallo-verde, che aveva ingaggiato con le istituzioni europee uno scontro continuo, direi che è quasi un miracolo. L’Italia ha bisogno dell’Europa, così come l’Europa del nostro Paese. E questo l’esecutivo attuale lo ha capito, recuperando credibilità internazionale. Restano scelte incomprensibili da parte del governo, come la spaccatura sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), ma nel complesso la prestazione nei confronti dell’Europa di questo Governo è incredibilmente migliore rispetto al governo giallo-verde, cha ha segnato in assoluto il punto più basso della nostra politica estera.

Nella relazione con gli Usa, vedo pressioni fortissime provenienti da Oltreoceano, evidentemente dirette a spingere il nostro governo verso un atteggiamento intransigente nei confronti della Cina. In realtà l’Italia deve ascoltare le preoccupazioni americane sulla Cina, ma non ha nessun interesse a “schiacciare” la sua posizione su quella della amministrazione americana. Credo piuttosto occorra mantenere, insieme ai nostri partner europei, una linea di apertura “condizionata” nei confronti della Cina, sapendo perfettamente quali sono le opportunità ma anche i rischi di un rapporto con un gigante economico che rappresenta una minaccia per i diritti umani e le libertà democratiche. Purtroppo l’Italia, come tutti i Paesi europei, vive un momento di difficoltà nel dialogo con gli Stati Uniti di Donald Trump. Per questo le elezioni americane del prossimo 3 novembre saranno uno spartiacque fondamentale. Ovvio che, qualunque sia il loro esito, gli Usa resteranno il tradizionale alleato strategico, ma per l’Europa sarebbe auspicabile poter contare su un inquilino della Casa Bianca più affidabile e più sensibile al rapporto con l’Europa.  Lo stato dei rapporti con la Russia, invece, mi pare tutto compreso più equilibrato anche se pur sempre problematico. La Russia non è un Paese che può essere ignorato, per l’importanza strategica che riveste per il nostro Paese, e per gli enormi gli interessi economici, commerciali e energetici (Mosca fornisce all’Italia oltre il 40% del gas naturale).  Allo stesso tempo serve senso critico e grande vigilanza, perché il modus operandi della Russia si presta a legittime critiche sotto molti profili, sia per quanto riguarda ad esempio il suo ruolo nei confronti dei nostri vicini orientali o nel Mediterraneo, sia sotto il profilo del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, o delle interferenze negli affari interni di molti Paesi europei.

Cosa ci ha insegnato la crisi pandemica e quale visione dobbiamo adottare per ripartire?

La pandemia ci ha dato lezioni importanti, sta a noi coglierne l’essenza. Ci ha mostrato che è necessario avere sistemi sanitari nazionali che siano attrezzati per fronteggiare crisi epidemiche di questo tipo. In futuro ci si può attrezzare molto meglio, costruendo sistemi sanitari più resilienti e più attrezzati, investendo sugli ospedali e sulla medicina di territorio. La seconda grande sfida è la rivoluzione dello smart working, che prima del Covid-19 avevamo sperimentato in modo molto parziale, ma oggi è applicato in maniera sistemica. Lavorare a distanza offre vantaggi straordinari ma può presentare anche dei limiti. Per questo, tra qualche tempo, sarà necessario discutere con le organizzazioni, le amministrazioni e le imprese per definire un quadro normativo che introduca standards condivisi in materia di condizioni di lavoro, ambienti e diritti. Per non sprecare questa rivoluzione.

Per approfondire

Guarda l'intervista video a Nelli Feroci nell'ambito della serie ASviS "Oltre la crisi"

 

di Andrea De Tommasi