La narrativa televisiva cerca il suo futuro
I programmi interattivi: non si tratta tanto di concedere al pubblico di scegliere qualche cosa che una volta sarebbe stata fissata dall’autore della storia. Si tratta di intravvedere un futuro della narrativa in epoca digitale.
di Luca De Biase
Netflix insiste nel tentativo di trovare una strada per proporre programmi interattivi. Dopo “Black Mirror: Bandersnatch” che offriva la possibilità di scegliere come i personaggi sceglievano di fronte a un’alternativa che si presentava nel corso della storia, adesso la piattaforma americana propone un’innovazione nella serie “Unbreakable Kimmy Schmidt” grazie alla quale il pubblico può scegliere il vestito della protagonista e compiere altre decisioni essenzialmente di stile. (Wall Street Journal, Netflix’s ‘Kimmy Schmidt’ special brings interactivity to comedy)
Il tentativo di aumentare il coinvolgimento del pubblico negli spettacoli televisivi è antico. Già Bill Gates, allora ceo di Microsoft, ha mostrato un concetto di film interattivo nel corso di un comdex degli anni Novanta. Il risultato era patetico. In realtà, non è sempre una buona idea lasciare al pubblico la scelta su come va a finire una storia. Perché in fondo il racconto, televisivo o scritto, è una storia che l’autore crea ma che il pubblico vive come se fosse una realtà, affascinante, emozionante, triste, allegra, ma che in qualche modo stupisce e coinvolge proprio per il fatto che non si sa come va a finire. L’interattività è una potenzialità offerta dalla tecnologia digitale. Ma una storia è una storia. Del resto, c’è chi sa usare l’interattività per far vivere emozioni molto coinvolgenti: e sono le aziende produttrici di videogiochi. E allora che cosa vogliono fare in realtà gli strateghi di Netflix?
Il confronto con i videogiochi consente di comprendere una possibilità tendenzialmente nuova per l’industria dell’intrattenimento. Non si tratta tanto di concedere al pubblico di scegliere qualche cosa che una volta sarebbe stata fissata dall’autore della storia. Si tratta di intravvedere un futuro della narrativa in epoca digitale.
I videogiochi in effetti evolvono in ambienti all’interno dei quali i giocatori assumono ruoli e diventano personaggi che si muovono in un mondo costruito dagli autori, producendo storie che non sono state definite da una trama, ma abilitate da uno strumentario. Gli autori definiscono l’ambiente e le risorse abilitanti: ma è il pubblico a scrivere le storie.
Lo stesso può al limite avvenire con le storie interattive in televisione. Non diverte scegliere una piccola cosa in una serie. Può però divertire la creazione di un mondo all’interno del quale si possono fare altre cose. Molte serie hanno generato tribù di fan che potrano avanti la storia a modo loro, usando piattaforme libere che si prestano a costruire infinite varianti delle vicende raccontate nella serie ufficiale.
Ma non finisce lì. La separazione della trama dall’ambiente nel quale si svolge, si possono immaginare sviluppi incredibili, come in ogni economia delle piattaforme che si rispetti. Perché in un tempo in cui molte attività si svolgono su piattaforme di collaborazione e conversazione dalla struttura piuttosto banale, come Zoom o Teams, gli scenari possono evolvere e aggiungere coinvolgimento agli utenti. Perché non pensare di fare una riunione virtuale nell’ufficio ovale di “House of Cards”, o una lezione nelle aule di “Beverly Hills 90210”?
Molto spesso, il valore del digitale non è tanto il menu di strumenti a disposizione dell’utente, ma la piattaforma che li offre. E il futuro, che alcuni cercano di modificare semplicemente introducendo una nuova tecnologia, di solito è invece disegnato da chi immagina il modo in cui quella tecnologia può essere usata e da chi ne riconosce il valore adottandola.