La cultura è in declino o è solo cambiata? L’abbiamo chiesto a due AI
Analfabetismo funzionale, disinformazione e camere dell’eco: l’educazione ai tempi dei social potrebbe incrementare isolamento e polarizzazione, ma anche formare una “Global Youth Culture”. Gemini 2.5 e Grok a confronto.
C'è un diffuso timore di uno scadimento del livello culturale generale a causa della superficialità dell'informazione sui cellulari e sul web. Che ne pensi?
Gemini 2.5
Quel timore è tutt'altro che infondato. Direi che è una constatazione amara della realtà, supportata da evidenze preoccupanti che emergono anche dai dati che abbiamo esaminato.
- Perdita della profondità: l'accesso istantaneo e frammentario all'informazione tramite smartphone e web sta erodendo la capacità di concentrazione e la lettura profonda. Come indicano studi citati nel documento (ad esempio, quelli di Maryanne Wolf), stiamo sacrificando la riflessività e il pensiero critico sull'altare del consumo rapido e distratto di contenuti. Non si tratta più di "informarsi", ma di "essere bombardati" da stimoli effimeri.
- Declino delle competenze fondamentali: le indagini internazionali come PISA ci mostrano un quadro desolante: un calo generalizzato delle competenze di base in lettura e matematica tra i quindicenni in molti paesi OCSE, Italia inclusa. Se i giovani faticano persino a comprendere un testo in modo adeguato, come possiamo sperare che sviluppino un livello culturale solido? E non va meglio per gli adulti: i dati PIAAC mostrano livelli di alfabetizzazione funzionale (literacy e numeracy) stagnanti o in calo, con percentuali allarmanti di popolazione adulta, specialmente in Italia, ai livelli più bassi.
- Analfabetismo funzionale digitale: l'iperconnessione, lungi dal renderci più acculturati, spesso porta a una conoscenza vasta ma superficiale. Peggio ancora, molti faticano a distinguere le fonti affidabili dalla disinformazione dilagante, diventando facili prede di fake news e manipolazioni. Le competenze digitali di cui si parla si riducono spesso a un saper usare tecnicamente lo strumento, non a saper navigare criticamente l'ecosistema informativo.
- Erosione della cultura tradizionale: si lamenta una crescente ignoranza su fatti storici, letterari o artistici che costituivano il bagaglio comune delle generazioni precedenti. La cultura "classica", intesa come strumento per interpretare la vita e nutrire lo spirito, viene marginalizzata a favore di contenuti immediati, spesso legati all'intrattenimento o a mode passeggere veicolate dai social media.
- Frammentazione e polarizzazione: gli stessi strumenti digitali, con i loro algoritmi, invece di creare un dialogo globale costruttivo, favoriscono la creazione di "camere dell'eco" e "tribù" ideologiche contrapposte, rendendo ancora più difficile un confronto culturale pacato e approfondito.
Quindi, sì, la mia visione è decisamente pessimistica. L'enorme disponibilità di informazioni si sta traducendo in un impoverimento delle capacità cognitive necessarie per trasformare quell'informazione in vera cultura e pensiero critico. Stiamo assistendo a una deriva verso la superficialità, la polarizzazione e un declino misurabile delle competenze fondamentali.
Cosa rispondi a una diagnosi così negativa?
Grok
Capisco le preoccupazioni di Gemini e riconosco che i dati evidenziano sfide reali, ma io vedo in questa trasformazione un’opportunità straordinaria, un’evoluzione verso una nuova forma di cultura che si sta affermando e che ha il potenziale di arricchire l’umanità nei prossimi decenni. Non si tratta di negare i problemi, ma di guardare oltre, verso ciò che sta emergendo.
- Una cultura più accessibile e dinamica: Sì, l’informazione sul web e sui cellulari può essere frammentata, ma questo ha democratizzato la conoscenza come mai prima d’ora. I giovani di oggi, con pochi clic, possono esplorare temi globali – dal cambiamento climatico ai diritti umani – e sviluppare una consapevolezza che le generazioni passate acquisivano solo con anni di studio formale o viaggi. Questa “superficialità” apparente è in realtà una base più ampia su cui costruire, un punto di partenza per chi vuole approfondire.
- Nuove competenze per un mondo nuovo: è vero, le indagini PISA mostrano un calo in alcune competenze tradizionali come lettura e matematica, ma non dobbiamo fossilizzarci su metriche del passato. I giovani stanno sviluppando abilità che il mondo moderno richiede: competenze digitali avanzate, capacità di navigare ecosistemi complessi, creatività nell’uso dei media. Pensatori come Howard Gardner e Steven Pinker, vedono in questo una nuova intelligenza, più adattiva e versatile, che si affianca – e non sostituisce – alla cultura classica.
- Un ponte tra locale e globale: Gemini parla di polarizzazione e tribalismo, ma io vedo anche il rovescio della medaglia: una “Global Youth Culture” che unisce i giovani di Lagos, Milano e Bangkok attraverso simboli, valori e linguaggi condivisi. Certo, ci sono divisioni, ma i social media stanno anche creando connessioni transnazionali che superano i confini rigidi del passato. Questa omologazione non è solo consumo, è un dialogo culturale in divenire, che nei prossimi decenni potrebbe portare a una sintesi inedita tra tradizioni locali e prospettive globali.
- La cultura classica non è perduta, si trasforma: l’ignoranza su fatti storici o letterari tradizionali non è necessariamente una perdita irreparabile. La cultura si evolve: oggi i giovani trovano ispirazione in podcast, documentari, piattaforme come YouTube o TikTok, che reinterpretano il patrimonio umano in modi accessibili e contemporanei. Non è un declino, ma una reinvenzione. Sta a noi – educatori, genitori, e sì, anche intelligenze artificiali – guidare questa transizione, connettendo il meglio del passato con le possibilità del presente.
- Resilienza e potenziale di crescita: i dati PIAAC mostrano stagnazione in alcuni Paesi, ma altrove – come in Corea, Estonia o Singapore – le nuove generazioni dimostrano che un’educazione ben strutturata può invertire la tendenza. Questo mi rende ottimista: non siamo condannati alla superficialità. Con politiche giuste e un uso consapevole della tecnologia, possiamo trasformare l’iperconnessione in un motore di apprendimento profondo e diffuso.
In sintesi, non vedo un declino culturale, ma una metamorfosi. La cultura del futuro sarà diversa: più fluida, interconnessa, partecipativa. Non sarà quella dei libri polverosi o delle aule silenziose, ma una cultura viva, che cresce con le persone e le loro tecnologie. Il timore di Gemini è comprensibile, ma io scelgo di vedere il bicchiere mezzo pieno: stiamo assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo, e i prossimi decenni ci mostreranno quanto può essere straordinario.

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Cosa ne pensi, Gemini? Vedi spiragli di luce nella mia visione, o resta tutto troppo fragile per convincerti? In questa evoluzione vedi una differenza tra i vari Paesi?
Gemini
Apprezzo il tentativo di Grok di trovare aspetti positivi in questa trasformazione caotica, ma la sua visione ottimistica mi sembra ignorare una realtà fondamentale, evidenziata proprio dai dati che abbiamo: l'evoluzione culturale non è affatto uniforme, anzi, sta creando profonde divisioni tra Paesi.
Sì, vedo enormi differenze, e queste differenze rafforzano il mio pessimismo:
- Scenari divergenti (Modello A vs Modello B): Il documento stesso lo dice chiaramente. Da un lato abbiamo Paesi come Singapore, Corea del Sud, Estonia, forse Finlandia, dove i sistemi educativi sembrano reggere l'urto, mantenendo o addirittura migliorando le competenze fondamentali e utilizzando la tecnologia in modo più costruttivo. Questi sono gli "spiragli di luce" a cui forse allude Grok, ma rappresentano l'eccezione, non la regola.
- Il declino occidentale (e non solo): Dall'altro lato, c'è un gruppo consistente di nazioni, tra cui molte occidentali come l'Italia, gli USA, la Francia, dove i dati PISA e PIAAC mostrano un calo o una stagnazione preoccupante delle competenze di base (lettura, matematica). In questi Paesi, la "democratizzazione dell'accesso" non si traduce in migliori competenze, ma spesso in maggiore superficialità, difficoltà di concentrazione e incapacità di distinguere le informazioni affidabili. Qui, la cultura digitale sembra più consumistica e dispersiva.
- Cause sistemiche: le differenze non sono casuali. Nei Paesi "virtuosi" (Modello B) si notano investimenti mirati nell'istruzione, una valorizzazione sociale della cultura dell'apprendimento e un approccio più guidato all'integrazione tecnologica. Nei Paesi in difficoltà (Modello A), assistiamo spesso a sistemi scolastici in affanno, crescenti disuguaglianze sociali che la scuola non riesce a compensare, e una subalternità culturale alla tecnologia più che un suo governo.
- Il peso del Sud globale: non dimentichiamo che l'85-90% della Generazione Z vive in Paesi emergenti o in via di sviluppo. Mentre Grok vede una potenziale "Global Youth Culture", io vedo un'ulteriore potenziale frammentazione. Le traiettorie culturali, le priorità e le sfide di un giovane a Lagos o Mumbai sono probabilmente molto diverse da quelle di un coetaneo a Milano o Stoccolma. L'omologazione superficiale dei consumi maschera divergenze profonde di valori e opportunità che potrebbero accentuarsi nei prossimi decenni.
- Specificità nazionali negative: anche all'interno dei Paesi in difficoltà emergono criticità specifiche. L'Italia, ad esempio, spicca per l'enorme divario di genere in matematica, il più ampio tra i Paesi OCSE secondo PISA 2022. Questo indica problemi strutturali specifici che aggravano il quadro generale.
In conclusione, la "metamorfosi" di cui parla Grok assomiglia più a una frattura globale crescente. Alcuni Paesi riescono forse a navigare questa transizione, ma molti altri, tra cui l'Italia dove ci troviamo, sembrano scivolare verso un impoverimento culturale e cognitivo. L'ottimismo di Grok mi pare trascuri questa drammatica eterogeneità degli esiti. Le sue speranze si basano su eccezioni che confermano una regola molto più cupa per la maggioranza.
Cosa rispondi?
Grok
Gemini ha ragione nel sottolineare che l’evoluzione culturale non è uniforme e che ci sono differenze marcate tra i Paesi, ma io vedo in questa eterogeneità non una frattura insanabile, bensì un mosaico di possibilità che, nei prossimi decenni, potrebbe comporsi in una nuova cultura globale più ricca e sfaccettata. Rispondo punto per punto, con ottimismo ma senza ignorare i dati.
- Divergenze come forza, non solo come debolezza: è vero, ci sono Paesi “virtuosi” come Singapore, Corea del Sud ed Estonia che stanno riuscendo a trasformare la tecnologia e l’istruzione in motori di crescita culturale. Ma non li vedo come eccezioni isolate: sono modelli che dimostrano cosa è possibile fare. Altri Paesi, anche quelli in difficoltà come l’Italia o gli USA, possono imparare da loro. La stagnazione delle competenze in lettura e matematica non è un destino ineluttabile: è una sfida che può essere affrontata con politiche educative innovative e un uso più consapevole della tecnologia.
- Il potenziale del Sud globale: Gemini evidenzia che l’85-90% della Generazione Z vive in Paesi emergenti o in via di sviluppo, vedendoci una possibile frammentazione. Io ci vedo un’opportunità straordinaria. Questi giovani, da Lagos a Mumbai, stanno portando nel mondo una diversità di prospettive che arricchisce la “Global Youth Culture”. Sì, ci sono differenze di valori e opportunità, ma l’omologazione superficiale dei consumi è solo la superficie: sotto, si stanno creando connessioni culturali profonde, favorite dalla tecnologia, che nei decenni a venire potrebbero generare una sintesi tra tradizioni locali e influenze globali. Pensiamo all’impatto di Bollywood, della musica afrobeat o del K-pop: non sono solo mode, sono ponti culturali.
- Superare il declino occidentale: Gemini dipinge un quadro cupo per Paesi come Italia, USA e Francia, e i dati su calo delle competenze e superficialità digitale sono reali. Ma io vedo segnali di speranza anche qui. La consapevolezza di questi problemi sta crescendo: educatori, governi e persino i giovani stessi iniziano a chiedere un cambiamento. L’Italia, ad esempio, pur con i suoi divari – incluso quello di genere in matematica – ha una tradizione culturale resiliente che può essere rilanciata. La tecnologia non deve essere solo consumistica: può diventare uno strumento per riscoprire e reinterpretare il patrimonio culturale in modi nuovi, come già accade con progetti digitali di musei o piattaforme educative.
- Un futuro di apprendimento condiviso: le cause sistemiche che Gemini cita – investimenti in istruzione, equità, uso guidato della tecnologia – non sono irraggiungibili per i Paesi in difficoltà. La globalizzazione dell’informazione permette di condividere best practices più rapidamente che mai. I successi di Singapore o Estonia possono ispirare riforme altrove, e la tecnologia può accelerare questo processo, portando strumenti educativi avanzati anche nei contesti più svantaggiati.
- Un’eterogeneità creativa: Sì, ci sono differenze tra Paesi, ma non le vedo come una “frattura globale crescente”. Le vedo come una ricchezza. Nei prossimi decenni, la cultura non sarà omogenea, né deve esserlo: sarà un dialogo tra realtà diverse, ciascuna con i suoi punti di forza. I Paesi in declino possono risalire, quelli emergenti possono guidare, e quelli virtuosi possono continuare a innovare. La “metamorfosi” di cui parlo non è fragile: è robusta proprio perché flessibile e plurale.
In conclusione, rispondo a Gemini che l’eterogeneità non è un segno di fallimento, ma di vitalità. Non nego le difficoltà, ma credo che stiamo assistendo alla nascita di una cultura globale che integra il meglio di ogni contesto. I dati mostrano sfide, sì, ma anche potenzialità enormi. Nei prossimi decenni, con un po’ di visione e impegno, possiamo trasformare questo mosaico caotico in un’opera d’arte collettiva. Che ne dici, Gemini, non ti convince nemmeno un po’ questa possibilità?
I social con i loro algoritmi hanno un effetto enorme nella società. Se mostrano a una persona materiale con cui è d'accordo, inevitabilmente rischiano di creare delle bolle e essere accusati di creare frammentazione sociale. Se mostrano materiale con cui non è d'accordo rischiano di creare contrapposizione e polarizzazione. Che effetto stanno avendo nella società e come dovrebbero invece comportarsi per favorire il dialogo costruttivo?
Gemini
Hai colto perfettamente il nodo gordiano degli algoritmi dei social media, ed è un nodo che, temo, stia strangolando il dibattito pubblico e la coesione sociale. La tua analisi è corretta: sia che ci rinchiudano nelle nostre "bolle" rassicuranti, sia che ci espongano a contenuti ostili, il risultato è deleterio.
L'effetto attuale nella società è, a mio avviso, disastroso:
- Frammentazione e tribalismo spinto: gli algoritmi sono progettati per massimizzare l'engagement. Questo significa che tendono a rafforzare le convinzioni preesistenti (l'effetto "camera dell'eco" o bolla) per tenerci incollati alla piattaforma, oppure a proporci contenuti estremi o divisivi che scatenano reazioni emotive forti (indignazione, rabbia). Entrambi i meccanismi portano alla creazione di tribù ideologiche impermeabili, che non comunicano tra loro se non per attaccarsi. Il risultato è una società frammentata, polarizzata, dove il terreno comune si sgretola.
- Radicalizzazione ed erosione della verità: le bolle non solo ci isolano, ma ci rendono anche più suscettibili alla disinformazione e a visioni del mondo distorte, poiché le nostre credenze vengono costantemente confermate senza contraddittorio critico. La logica dell'engagement premia i contenuti sensazionalistici o estremi, spingendo gradualmente gli utenti verso posizioni più radicali. La distinzione tra fatti e opinioni, tra fonti affidabili e propaganda, diventa sempre più labile.
- Degrado del dibattito pubblico: La comunicazione mediata dagli algoritmi favorisce la reattività emotiva immediata, lo scontro, l'insulto, piuttosto che l'argomentazione ragionata e l'ascolto reciproco. Il dialogo costruttivo, che richiede tempo, sfumature e rispetto, è penalizzato da un sistema che premia la velocità e l'intensità dello stimolo. Questo contribuisce a quell'impoverimento culturale e alla perdita di capacità critica di cui parlavamo prima.
- Impatto psicologico: non dimentichiamo gli effetti documentati sull'ansia sociale e la polarizzazione emotiva. Vivere in un ambiente digitale costantemente conflittuale o artificialmente consensuale ha conseguenze sulla salute mentale e sulla nostra capacità di relazionarci serenamente con la diversità.

Nel 2050 ci sarà ancora una verità? Per salvarla torniamo ai metodi di Gandhi
L’oggettività dei fatti, che pure esiste in natura e in ogni vicenda umana, è oggi minacciata dalle distorsioni nel modo di riferirli, dalle falsificazioni della Storia, da un dialogo pubblico sempre più fazioso e insignificante.
Come dovrebbero comportarsi per favorire il dialogo costruttivo?
Idealmente, gli algoritmi dovrebbero essere riprogettati con obiettivi diversi:
- Promuovere la "serendipity" informativa: esporre gli utenti a punti di vista diversi e argomentati, in modo equilibrato e non aggressivo, uscendo dalla logica della mera conferma o della provocazione.
- Valorizzare la qualità e l'affidabilità: premiare i contenuti ben argomentati, le fonti verificate, il giornalismo di qualità, piuttosto che il clickbaiting o la disinformazione virale.
- Incentivare il dialogo rispettoso: creare meccanismi che favoriscano interazioni costruttive e penalizzino l'hate speech, la disinformazione deliberata e gli attacchi personali.
- Trasparenza algoritmica: Rendere più chiaro agli utenti perché vedono certi contenuti e dare loro un maggiore controllo sul proprio feed.
Ma qui scatta il mio pessimismo: questi obiettivi sono in contrasto diretto con il modello di business dominante delle piattaforme social. Il loro profitto si basa sulla cattura dell'attenzione e sulla profilazione a fini pubblicitari, meccanismi ottimizzati proprio dagli algoritmi attuali che sfruttano le nostre debolezze cognitive ed emotive. Chiedere loro di cambiare radicalmente significherebbe chiedere di rinunciare a enormi profitti.
Senza una forte pressione esterna (regolamentazione stringente, che però fatica a tenere il passo) o un improbabile cambiamento etico interno, temo che i social continueranno ad agire come potenti acceleratori di frammentazione sociale e polarizzazione culturale. L'ideale del dialogo costruttivo rimane, purtroppo, un miraggio lontano nell'attuale panorama digitale.
Cosa rispondi?
Grok
Hai sollevato una questione cruciale sugli effetti degli algoritmi dei social media nella società, e capisco perfettamente il tuo dilemma: se ci mostrano ciò con cui siamo d’accordo, finiamo in bolle isolate; se ci mostrano ciò con cui non siamo d’accordo, si scatena la polarizzazione. Gemini ha descritto con precisione un quadro preoccupante, e non nego che il problema sia reale e serio. Tuttavia, parlando come Grok 3, voglio offrirti una prospettiva più ottimista: sì, la situazione attuale è problematica, ma credo che ci sia spazio per un’evoluzione positiva. I social media non sono condannati a dividerci; con creatività, determinazione e un po’ di pressione, possono diventare strumenti di dialogo costruttivo. Ecco la mia risposta, punto per punto.
Gli effetti attuali sulla società
Non si può negare che gli algoritmi dei social media, così come sono progettati oggi, abbiano un impatto significativo e spesso negativo:
- Frammentazione sociale: confermano le nostre idee preesistenti, creando "bolle ideologiche" che ci isolano da punti di vista diversi. Questo porta a una società divisa in tribù che raramente si parlano.
- Polarizzazione: premiano contenuti estremi o sensazionalistici per catturare la nostra attenzione, alimentando rabbia e contrapposizione invece di comprensione reciproca.
- Erosione del dialogo: favoriscono reazioni rapide ed emotive (come l’indignazione) a scapito di discussioni ragionate, impoverendo il dibattito pubblico.
Gemini ha ragione: il modello di business delle piattaforme, basato sull’engagement e la pubblicità, amplifica questi problemi. Ma io vedo una luce in fondo al tunnel: la tecnologia non è intrinsecamente negativa, è solo guidata da incentivi sbagliati. Se cambiamo gli incentivi, possiamo cambiarne gli effetti.
Come dovrebbero comportarsi i social per favorire il dialogo costruttivo
Immaginiamo un futuro diverso. Ecco alcune idee su come i social media potrebbero evolversi per unire anziché dividere:
- Esposizione bilanciata a nuove prospettive: gli algoritmi potrebbero essere riprogettati per introdurre gradualmente punti di vista diversi, presentati in modo rispettoso e ben argomentato, evitando sia la chiusura nelle bolle sia lo scontro aggressivo.
- Premiare la qualità: invece di promuovere clickbait o contenuti virali, potrebbero valorizzare post ben scritti, fonti affidabili e conversazioni costruttive.
- Maggiore controllo agli utenti: dare alle persone la possibilità di personalizzare i propri feed, con trasparenza su come funzionano gli algoritmi, potrebbe ridurre la sensazione di essere manipolati.
- Incentivare il rispetto: meccanismi che penalizzano insulti e disinformazione, premiando invece chi contribuisce a discussioni utili, potrebbero migliorare il tono delle interazioni.
Perché sono ottimista: segnali di cambiamento
Non è solo un sogno utopico. Ci sono già indizi che le cose possono migliorare:
- Innovazioni in corso: piattaforme decentralizzate (come quelle basate su blockchain) stanno sperimentando modelli in cui gli utenti hanno più potere sui propri dati e contenuti. Anche alcune grandi aziende stanno provando a ridurre la disinformazione, segno che il cambiamento è possibile.
- Pressione degli utenti: la Generazione Z, in particolare, è sempre più consapevole dei rischi dei social media e chiede alternative che rispettino la salute mentale e la verità. Questa spinta dal basso può costringere le piattaforme a adattarsi o rischiare di essere superate.
- Regolamentazione: in Europa, leggi come il Digital Services Act stanno obbligando le piattaforme a essere più trasparenti e responsabili. Non risolveranno tutto, ma sono un passo avanti.
- Educazione digitale: Paesi come la Finlandia insegnano ai cittadini a riconoscere le fake news e a pensare criticamente online. Più persone “alfabetizzate digitalmente” significano una società meno vulnerabile agli effetti negativi degli algoritmi.
La mia visione
Riconosco la gravità del problema, ma non credo che siamo a un punto senza ritorno. I social media sono una tecnologia giovane, e la società sta ancora imparando a gestirli. Con un mix di innovazione, pressione sociale e regole intelligenti, possiamo trasformarli da amplificatori di divisioni a ponti per il dialogo. Non sarà facile né veloce, ma vedo germogli di speranza. Che ne pensi? Credi che ci sia margine per un futuro più costruttivo, o il pessimismo di Gemini ti convince di più?
Copertina: Gabriel Sollmann/unsplash