Dieci domande sul futuro della scuola
L’accelerazione dei cambiamenti dell’epoca in cui viviamo rende difficile per il sistema scolastico restare al passo. Comprendere dove queste evoluzioni possano portarci è indispensabile per impostare un dibattito che immagini l'istruzione dei prossimi venti o trent’anni.
di Roberto Paura
In un racconto di Isaac Asimov spesso proposto nelle antologie scolastiche, Chissà come si divertivano (1951), due bambini del XXII secolo scoprono in un vecchio libro come funzionava il sistema scolastico del XX secolo. Stupiti dal fatto che gli alunni dell’epoca non avessero un computer a istruirli, ma docenti in carne e ossa, e non studiassero ciascuno a casa propria con il proprio insegnante elettronico, concludevano avviliti, presentando il loro esercizio di matematica al calcolatore che avrebbe dovuto valutarlo e pensando alle classi chiassose e piene di vita di duecento anni fa: “Chissà come si divertivano!”.
Questa storia, che settant’anni fa era naturalmente pura fantascienza, si è trasformata nell’ultimo anno in una profezia prossima ad avverarsi. All’iniziale entusiasmo di molte ragazze e ragazzi di fronte alla prospettiva di saltare compiti e interrogazioni e avere magari più tempo per i propri interessi online, si è sostituita mese dopo mese la sorda insofferenza a una modalità di didattica giudicata dai più alienante e demotivante. Il dibattito sul futuro della scuola è diventato così, subito dietro all’emergenza Covid-19, il più sentito e urgente a livello nazionale e internazionale.
Questo contributo, anziché fare un bilancio di questo dibattito (che spesso sfocia in tecnicismi di corto respiro), punta ad aprirlo con una serie di dieci domande che guardano, in particolare, al lungo termine. È innegabile che l’accelerazione dei cambiamenti dell’epoca in cui viviamo renda estremamente difficile per il sistema scolastico restare al passo. Comprendere dove questi cambiamenti possano portarci, tuttavia, è una precondizione indispensabile per impostare un dibattito che non si limiti a immaginare una scuola post-Covid per il prossimo anno, ma possibilmente per i prossimi venti o trent’anni. È in quest’ottica che vanno considerate le questioni sollevate di seguito.
Il primo tema riguarda la qualità dell’apprendimento. Da quando esistono strumenti internazionali di misurazione delle competenze, l’Italia non si è mai dimostrata particolarmente competitiva. I dati Ocse-Pisa 2018 per l’Italia mostrano che il 24% degli studenti di 15 anni non raggiunge le competenze minime in matematica, il 26% in scienze e il 23% in lettura. Queste percentuali sono in crescita dal 2015 in tutti gli ambiti. Gli studenti italiani sono in fondo alla classifica Ocse sulle task-based skills (la capacità di adattare e utilizzare competenze specifiche a seconda del lavoro da svolgere). Sono penultimi nelle materie scientifiche, competenze di contabilità e marketing, terzultimi in gestione e comunicazione, quartultimi in competenze informatiche. D’altra parte, sono state avanzate numerose critiche sul modo in cui sono disegnati i test Pisa. È stato evidenziato per esempio un graduale spostamento dell’attenzione verso la statistica e l’analisi dei dati, e molti docenti a livello internazionale hanno accusato i test di promuovere un modello di competenze a uso e consumo delle grandi aziende. La qualità dell’apprendimento sta davvero peggiorando in Italia? E se sì, perché e cosa possiamo fare per invertire la tendenza?
Durante la crisi del Covid, l’utilizzo della didattica a distanza ha dimostrato un divario tra gli scenari ministeriali, che da anni si pongono l’obiettivo di rendere la scuola italiana all’altezza delle sfide tecnologiche, e la realtà quotidiana: oltre al problema dell’effettiva disponibilità di device (circa il 20% degli studenti nel Mezzogiorno ne è sprovvista), secondo l’Istat solo il 30,2% degli studenti impegnati nella didattica a distanza disponeva di competenze digitali alte, contro due terzi con competenze base o di base e un 3% di analfabeti digitali. Inoltre, nel 47% dei casi gli studenti italiani dichiarano di non aver appreso nulla di ciò che sanno sulle nuove tecnologie dalla scuola. Questo nonostante il fatto che circa un docente su due utilizzi quotidianamente strumenti digitali nelle proprie attività didattiche. A cosa di deve il perdurare del digital divide anche nelle nuove generazioni? Forse il concetto stesso di “digitale” e “nuove tecnologie” non è ben chiarito dalla legislazione nazionale, con l’effetto di proporre corsi obbligatori su tecnologie ormai superate, non più usate dai giovani nella loro quotidianità (per esempio va tenuto conto dell’enorme utilizzo del mobile rispetto al pc da parte delle nuove generazioni)?
L’attenzione al problema del digitale si lega al fatto che l’accelerazione del progresso tecnologico sta producendo come risultato la rapida scomparsa di numerosi posti di lavoro di tipo tradizionale e la nascita di nuove professioni ad alta qualificazione, per le quali le competenze acquisite nel percorso scolastico sono in genere del tutto inadeguate. Secondo il World economic forum il 60% dei lavori del futuro non esistono ancora e il 40% dei bambini che oggi frequentano l’asilo ricorrerà da adulto all’autoimpiego per il proprio reddito. Il Wef propone di conseguenza di spostare il focus dell’istruzione sulle competenze necessarie nel futuro e sull’autoimprenditorialità. L’Ocse raccomanda di puntare sulle competenze cognitive, flessibilità nella definizione del curriculum personale, educazione all’imprenditorialità. Tra le best practice internazionali c’è The Knowledge society, progetto in partnership con compagnie come Walmart, Airbnb, Td Bank per formare gli studenti alle nuove tecnologie (per esempio blockchain, robotica, Ia) attraverso il loro impiego nell’ambiente lavorativo delle aziende partner. I partecipanti sono chiamati ad affrontare i problemi reali che le organizzazioni stanno affrontando, avvalendosi anche del framework di consulenza di McKinsey, e presentare le loro proposte e raccomandazioni alle organizzazioni. Ma questo non potrebbe produrre un appiattimento acritico delle giovani generazioni sugli odierni modelli d’impresa? Quale strategia educativa va messa in campo, nei prossimi dieci anni, per coprire il mismatch tra competenze apprese a scuola e competenze richieste oggi e in futuro dal mercato del lavoro?
La didattica a distanza ha fatto riesplodere il tema dei Mooc (massive open online courses), che hanno ottenuto enorme popolarità negli ultimi anni, al punto che alcuni osservatori hanno predetto la possibilità che sostituiscano gli insegnamenti tradizionali in modo analogo a quanto le tecnologie digitali hanno fatto con le agenzie di viaggio o gli operatori telefonici. Queste previsioni finora non si sono avverate, ma di fronte all’esigenza di passare all’insegnamento online durante la crisi del Covid, molte università potrebbero perdere iscritti a favore dei Mooc e di sistemi di formazione a distanza molto più avanzati di quelli che oggi le università tradizionali sono in grado di offrire. I dati dell’ultimo anno mostrano una nuova crescita dei progetti Mooc in tutto il mondo in termini di iscritti. Questo modello potrebbe estendersi anche alle scuole medie superiori? Potrebbe essere pensabile un approccio di blended learning o apprendimento misto, per coniugare i benefici della formazione a distanza online con contenuti personalizzati e con quelli della formazione in presenza? È possibile, nell’era dei Mooc, considerare la didattica a distanza il futuro dell’insegnamento superiore?
Il modello di apprendimento del learning by doing potrebbe trovare profitto dall’impiego di simulazioni didattiche in grado di potenziare l’apprendimento di determinate materie con profitto, soprattutto nei più giovani, abituati all’esperienza del gaming. Il ministero dell’Istruzione raccomanda l’uso di ambienti immersivi 3D con attività ludiche integrate e sono già attive molte organizzazioni, come Immersive education (che ha partnership con Mit, Nasa, Harvard e Boston College) per sviluppare strumenti di gamification con realtà virtuale e aumentata. In Italia Game@School ha coinvolto nella sua prima edizione 250 studenti e oltre cento docenti, per la realizzazione di una demo per la valorizzazione della didattica attraverso la gamification. Piattaforme videoludiche come Minecraft sono sempre più utilizzate per applicazioni didattiche e in alcuni paesi alcuni serious games sono stati adottati al posto di libri di testo (per esempio “The war of mine” in Polonia per imparare ad affrontare scelte morali nel corso di un conflitto). D’altra parte, la preferenza dell’ambiente virtuale viene meno per i bambini più piccoli, che sembrano aver bisogno di un ambiente più strutturato a causa della facilità di distrazione. Può essere utile puntare sul gaming e sulla realtà virtuale e aumentata per creare ambienti educativi più in linea con il mindset delle nuove generazioni?
La strategia italiana per l’Intelligenza artificiale definisce prioritario lo sviluppo di competenze digitali anche attraverso l’adozione dell’Ia come metodo educativo e di insegnamento (per es. sviluppo del pensiero computazionale, approccio problem-solving, trasversalità dell’applicazione delle competenze). In Nuova Zelanda sono state effettuate sperimentazioni con un’Ia dal volto umano nell’ambito del progetto Will per l’insegnamento della sostenibilità ambientale, attraverso interazione con device multimediali degli studenti, domande e risposte, personalizzazione dei contenuti. In generale, l’impiego dei software di machine learning può consentire l’elaborazione di profili personalizzati degli studenti, allo scopo di modulare la didattica in base ai punti di forza e di debolezza di ciascuno. È anche vero però che in Cina l’impiego di sistemi di riconoscimento facciale e analisi della postura per ottimizzare l’attenzione degli studenti rischia di sviluppare una cultura della sorveglianza. Quali vantaggi potrebbero derivare dall’introduzione dell’intelligenza artificiale nei sistemi d’istruzione scolastici?
Un futuro sempre più digitale desta dunque più di una preoccupazione. Secondo dati citati nella lettera aperta ad Apple da parte di due grandi azionisti sui rischi della generazione always-on, chi è esposto ai media digitali per più di 5 ore al giorno sembrerebbe avere il 71% di possibilità in più di pulsioni al suicidio di chi ha un’esposizione di una sola ora e il 51% di probabilità in più di dormire meno di 7 ore per notte. Il 67% dei docenti Usa ha registrato un aumento della distrazione, dei problemi emotivi e sociali degli studenti. Al tempo stesso, tuttavia, alcune ricerche mostrano che uno studente in media conserva il 25-60% delle informazioni se somministrate attraverso apprendimento online rispetto all’8-10% dell’apprendimento in classe, probabilmente perché le nuove generazioni sono più predisposte ad acquisire velocemente informazioni online. Inoltre, l’integrazione dei device digitali nell’insegnamento ha prodotto performance migliori nel 70% dei casi esaminati e l’e-learning richiede il 40-60% di tempo in meno per l’apprendimento rispetto all’aula tradizionale perché gli studenti possono imparare al ritmo che preferiscono, rileggendo, saltando o andando più veloci su alcuni concetti. Qual è il trade-off tra rischi e vantaggi nell’esposizione digitale sulla formazione dei giovani?
Se le professioni del futuro a cui la scuola dovrà formare saranno sempre più quelle che gravitano intorno ai grandi giganti tecnologici, sorge un altro dubbio: non sarà che i tech-titani la scuola è ormai un concetto superato? Di recente ha fatto discutere l’annuncio di Google di un corso professionale di sei mesi alternativo all’università per entrare subito a lavorare nelle professioni digitali. D’altro canto già da anni nella Silicon Valley un fondo del venture capitalist Peter Thiel offre 100mila dollari a studenti meritevoli per lasciare l’università e creare da subito una start-up. Nell’insegnamento scolastico superiore, i colossi digitali cinesi si sono avvantaggiati del lockdown: i 730.000 studenti di Wuhan hanno frequentato i corsi attraverso la Tencent K-12 online school, la piattaforma messa a disposizione da WeChat. Anche Alibaba ha lanciato una propria soluzione di apprendimento a distanza, DingTalk, mettendo a disposizione 100.000 nuovi server cloud per sostenere il crescente fabbisogno delle scuole. Quali sono i rischi dell’ingresso dei cosiddetti tech-titani nel mondo dell’istruzione?
L’alternativa a un modello di istruzione completamente schiacciato sulle competenze professionali è un modello che invece promuova competenze più trasversali. Da tempo si guarda, per esempio, al sistema finlandese, come possibile modello educativo per il futuro. In Finlandia non esistono esami nazionali standard né sistemi di voto standardizzati per effettuare comparazioni tra studenti (il ministero si occupa di monitorare i progressi complessivi attraverso campioni rappresentativi scelti a caso), la scuola inizia a sette anni ed è obbligatoria solo fino a 16 per conservare la volontarietà dell’istruzione superiore. Gli studenti finlandesi ricevono meno compiti per casa di qualsiasi altro sistema scolastico nel mondo (mediamente ½ ora al giorno), iniziano i corsi alle 9-9.30 in base al principio che prima delle 9 le capacità di apprendimento non sono ottimizzate, e completano i corsi entro le 14-14.30. Gli intervalli di 10-15 minuti sono inframezzati più volte nel corso della giornata. Si parla anche da anni di focus sull’apprendimento problem-based, che punta a formare gli studenti attraverso progetti collaborativi per creare soluzioni ai problemi del mondo reale, applicando le conoscenze acquisite a scuola e altre acquisite in autonomia in un approccio pratico (ideazione e progettazione di soluzioni, sviluppo di prototipi) anziché teorico. Sono modelli adattabili al contesto italiano? Bisogna ripensare completamente il mondo di stare a scuola per migliorare l’apprendimento delle nuove generazioni? Se sì, in che modo?
Infine, l’Italia è il paese europeo con il più drammatico calo della fascia d’età 3-18 anni in Europa. Nel 2028 secondo l’Istat avremo perso un milione di persone in questa fascia rispetto ai dati 2018. I cali nelle scuole primarie raggiungeranno il 20% in Campania e 24% in Sardegna, ma in media saranno di oltre il 15% secondo le stime di Fondazione Agnelli. Ciò si tradurrà in oltre 50.000 posti in meno nell’insegnamento in tutti gli ordini e gradi. A soffrirne, secondo Fondazione Agnelli, sarà il rinnovamento del corpo docente e l’innovazione didattica. Quali strategie andranno adottate? Come possiamo adattare il sistema educativo nazionale al calo demografico previsto nei prossimi dieci anni?
di Roberto Paura, Italian Institute for the Future