Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Giovani e lavoro, Parmigiani lancia “obbligo di affiancamento”

Colloquio con la neo-presidente del Csr Manager Network e direttrice della Fondazione Unipolis: “Facciamo come con le donne nei Cda. Sconvolgenti i dati sui Neet”. 22/07/20

di Andrea De Tommasi

 

“Il CSR manager deve essere un abilitatore di cambiamento”. Ha le idee chiare Maria Luisa Parmigiani, direttrice e consigliere delegato di Fondazione Unipolis e neo-presidente del CSR Manager Network, l’associazione che rappresenta i professionisti della sostenibilità in Italia (oltre 160 iscritti tra imprese, fondazioni d’impresa, società professionali, P.A. ed enti non profit). Guiderà il CSR Manager Network per un triennio, coadiuvata da un Consiglio direttivo rinnovato con un’ampia rappresentanza femminile: ben sei consiglieri su nove. Una carriera ventennale nel campo della sostenibilità, sia come consulente che in impresa, Parmigiani ha ricoperto per oltre quindici anni la carica di segretario generale di Impronta etica, è stata membro dell’Advisory board del Sai, prima di intraprendere una brillante carriera nel Gruppo Unipol, dove da tre anni è head of sustainability and stakeholder management. Per questioni di opportunità mantiene il riserbo sulle prime mosse da leader del CSR Manager Network - “avremo un direttivo a settembre in cui condividerò le linee guida con i colleghi” - ma in questa intervista con Futura network racconta la sua visione di futuro, spiega perché secondo lei le imprese devono fare sempre più alleanze e non risparmia critiche a certi manager della sostenibilità. Ottimi comunicatori, ma con poca tecnica. E pazienza, sorride, “se farò arrabbiare qualcuno”.

Dottoressa Parmigiani, è prematuro parlare degli obiettivi. Ma può dirci cosa significhi essere chiamata a guidare il CSR Manager Network nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia mondiale.

Guardi, siamo in una fase profonda di transizione. Saranno dirimenti alcune delle scelte che verranno fatte giorno per giorno, non solo di natura politico-istituzionale (dove andranno i soldi), ma anche di natura imprenditoriale (come spenderli) e quindi che tipo di vocazione si intende adottare per l’impresa. Vedo una fase di grande preoccupazione e, mi permetta, parecchia demagogia e allarmismo. Il punto fondamentale è che rischiamo di perdere delle conquiste, mentre bisogna avere il coraggio di tenere su alcune linee, anche se impopolari. Vorrei fare un esempio: la lotta alla plastica è scesa nel sentiment delle persone e delle organizzazioni, perché nella fase attuale sembra che la sicurezza stia sopra a tutto. È un fattore di mancata competenza, ancora una volta: il tempo di decadimento del virus dalla plastica è più alto di quello dal metallo o dalla ceramica. L’altro tema è quello della mobilità: non è dando incentivi ai monopattini elettrici che si cambia il modello di mobilità e si evita che la gente vada in macchina a lavorare, bisogna investire sulle infrastrutture nelle città per la mobilità sostenibile.

Che tipo di visione deve avere il CSR manager del futuro?

Di medio-lungo periodo. Deve avere il coraggio di esporre gli impatti negativi che determinate scelte possono avere. Veniamo da una fase in cui la sostenibilità era molto popolare. Ora sento dire ad alcuni CSR manager: “Adesso la cosa fondamentale è il lavoro”. Benissimo, ma quale lavoro? A che costo? Con quali disuguaglianze? Quale povertà?

Mi rendo conto che soprattutto per coloro che si occupano di sostenibilità provenendo dalla comunicazione o dalle relazioni istituzionali possa non essere facilissimo: sono abituati a raccontare il buono e il bello delle cose, mentre in questo momento bisogna avere il coraggio di testimoniare le difficoltà e le incongruenze. In questa fase emerge la differenza tra i manager di questa provenienza e quelli che prima di tutto hanno competenze tecniche specifiche (veda l’esempio che facevo prima sul tempo di decadimento della plastica). Sfatiamo un altro mito: il CSR manager non è quello che sa fare il bilancio di sostenibilità. Esistono competenze e saperi che vanno al di là degli strumenti di responsabilità sociale. A patto che si valorizzino coloro che hanno questi strumenti e si usino per fare le scelte giuste. Tornando all’associazione, bisognerà insistere sulla qualificazione e le competenze. Perché da una parte c’è la pura comunicazione e rendicontazione, dall’altra la progettualità. In questa fase l’impresa deve calare azioni e progettualità partendo da quelle elaborazioni e dagli scenari che già altri soggetti stanno facendo molto bene. Penso all’ASviS o al Forum Disuguaglianze e Diversità. Creare un’alleanza vuol dire trovare imprese disponibili a fare da champion, come dice spesso Fabrizio Barca, nella sperimentazione di alcune pratiche. Occorre essere quel braccio armato degli straordinari processi di riflessione che sono in corso nel nostro Paese in questo momento. Occorre l’alleanza, la sinergia e, soprattutto, la messa in pratica. Insomma, parliamo meno e facciamo di più.

Nel suo Rapporto annuale, l’ultimo è quello del 2019, l’ASviS presenta il posizionamento dell’Italia rispetto ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, analizza la produzione normativa degli ultimi dodici mesi e avanza proposte per migliorare le performance economiche, sociali e ambientali del nostro Paese. Vorrei interpellarla su tre Goal del documento Onu…

Prego, mi dica.

Comincerei dal Goal 8 sul lavoro. In Italia il tasso di mancata partecipazione al lavoro è quasi doppio rispetto a quello medio dell’Unione europea, ed è molto elevata, sebbene in calo negli ultimi quattro anni, la quota di Neet. Le fanno paura questi dati?

Sono dati impressionanti. Sconvolgenti. Io mi occupo anche di relazioni internazionali per Unipol. Se ne parlo con gli americani, non riescono a capire perché un Paese come l’Italia non utilizzi le risorse migliori. Nei Paesi più avanzati, come quelli dell’Europa del Nord, i giovani sono la punta di diamante su cui investono le imprese. Da noi non c’è scambio intergenerazionale. Non c’è generosità tra le generazioni. Siamo un Paese non sostenibile per definizione, in cui lo scarto e la conflittualità intergenerazionale sono le più alte in assoluto. Paradossalmente, oggi diventano Neet anche coloro che non lo vogliono. Non più solo coloro che non avevano voglia di fare, ma anche quelli che restano fuori, esclusi dal mondo del lavoro. E non rientrano più.

In un Paese incancrenito come il nostro, misure normali non bastano. Ci vuole coraggio per adottare politiche più forti. Penso ad istituire l’obbligatorietà di affiancamento di un giovane per ogni over 60enne con ruoli di responsabilità per aumentarne la presenza capillare e così la possibilità di creare occasioni professionali e garantirsi il ricambio generazionale. Un po’ come le donne nei Cda: se non avessero introdotto la legge del 30% delle donne nei Consigli di amministrazione, ce l’avrebbero mai fatta? No, ovviamente. Allo stesso modo, obblighiamo il mondo del lavoro a dare spazio ai giovani.

Non va meglio su imprese, innovazione e infrastrutture (Goal 9). Per dirne una, siamo agli ultimi posti tra gli Stati membri nell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società della Commissione europea.

Siamo un Paese spezzato almeno a metà. La disuguaglianza è una questione seria del nostro Paese. Disuguaglianza anche infrastrutturale. La povertà nelle reti si traduce in un ritardo culturale rispetto alle opportunità della digitalizzazione. C’è da dire che da un punto di vista infrastrutturale le cose sono migliorare molto. Ma resta un grande tema che è il rapporto costo-opportunità. Questo è un Paese che ha moltissime aree interne, poco abitate. Sviluppare infrastrutture da parte di un’impresa privata diventa, quindi, molto difficile. Io immagino, su questi temi, grandi progetti di project financing. Finora non è accaduto: o paga il pubblico, o si cerca di andare a mercato, ma il mercato qui non c’è. Nel senso che se andiamo nei borghi dove abitano 100 persone, non ci sarà mai la condizione per cui si ripaghi la cablatura. Diventa costosissimo per lo Stato e poi non innesca un meccanismo di aggiornamento continuo, ma resta un intervento spot, destinato a divenire rapidamente obsoleto. La questione di fondo è cambiare la modalità: in questo Paese di project financing se ne fa veramente poco. Che non è richiedere risorse per salvare imprese pubbliche all’ultimo minuto. È tutta un’altra cosa.

Passiamo al consumo e produzione responsabili (Goal 12). Qui l’Italia si dimostra tra i primi Paesi in Ue per circolarità dei materiali e riciclo, mentre diminuisce il consumo di energia e materia. Ma questo Target contempera anche la finanza sostenibile…

Infatti dividerei i due aspetti. Sulla produzione sostenibile, l’Italia non è messa male. Dal punto di vista dell’offerta, del prodotto e del ripensamento dei processi, il meccanismo in qualche modo è partito. Ciò che manca è la cultura del consumatore. Migliorata in questi ultimi anni, ma ancora poco informata e molto orientata al valore d’uso del prodotto. Occorrono molta cultura e sensibilizzazione, a partire dalle scuole. Da un certo punto di vista di passi in avanti ne sono stati fatti. Io ho iniziato ad occuparmi di questi temi oltre 20 anni fa e non c’erano progetti.  Ricordo che nei primi focus group che gestivo, la gente non capiva di che cosa parlassi.

Quanto alla finanza, adesso ci si riempie la bocca di fattori Esg, ambientali e sociali di governance. Mi chiedo una cosa: quanto competenza c’è nelle tecnostrutture che fanno quotidianamente le valutazioni sugli asset da investire? Non parlo di politiche, modelli di rendicontazioni, tassonomia. Ma di knowledge e practise. Su questo c’è ancora tanta strada fare.

Concluderei parlando di start-up. Si sono messe davvero a correre? Nel 2019 gli investimenti in nuove imprese nel nostro Paese sono cresciutI del 38% rispetto all’anno precedente? Che scenario prevede a medio e lungo termine?

È un mondo bellissimo, quello delle start-up. E nel 70% dei casi anche molto sostenibile. Lascerei perdere l’esempio abusato della piattaforma delle canzoni. Mi concentro sul contenuto tecnologico di valore che viene sviluppato. Nella maggior parte delle start up il concetto di innovazione è realmente “sostenibile”. Se questi progetti di nicchia verranno adottati e scalati davvero, potranno avere un impatto molto importante. Anzi, dirò di più: come saremo in futuro dipenderà da quanto sapremo accogliere quell’innovazione tecnologica che viene dal mondo delle start-up. E che va nella direzione del modello di sviluppo sostenibile.

 

di Andrea De Tommasi

mercoledì 22 luglio 2020