Si rafforza in Asia la lotta delle donne per i propri diritti
In molti Paesi la condizione femminile è particolarmente svantaggiata, ma dall’Afghanistan all’India, dall’Iran alla Corea del Sud, sono numerose le iniziative, con caratteri diversi ma un comune obiettivo: l’emancipazione.
Meno dell’1% delle donne e delle ragazze vive in un Paese con un alto livello di emancipazione femminile. È quanto emerge dal report “The path to equality: twin indeces on women’s empowerment and gender equality”, pubblicato a luglio 2023 dall’Un women e dall’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. Non è un dato che sorprende. Come sottolinea il “Global gender gap report 2023”, realizzato dal World economic forum, nessun Paese ha raggiunto la piena parità di genere e, a livello globale, serviranno 131 anni affinché i divari fra uomini e donne possano essere annullati. Ma le donne non restano ferme ad aspettare. Dalle proteste in Iran contro il regime ai movimenti femministi in Corea del Sud, sono numerose le iniziative di donne che lottano per rivendicare i propri diritti, con particolare forza in Asia
Afghanistan: lasciateci almeno i saloni di bellezza
A metà luglio del 2023 una cinquantina di donne è scesa in piazza a Kabul per protestare contro la decisione del regime talebano di chiudere i parrucchieri e i saloni di bellezza nel Paese, una manifestazione poi dispersa dalle forze di polizia.
La chiusura dei saloni è solo l’ultima delle restrizioni imposte dal regime talebano. Da quando hanno preso il potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno vietato alle ragazze di frequentare le scuole superiori, le università, i parchi e le palestre. A queste restrizioni si aggiunge l’obbligo di uscire di casa accompagnate e di indossare l’hijab. I saloni di bellezza erano uno degli ultimi luoghi di socializzazione per le donne, oltre che una fonte di reddito per molte famiglie. La misura avrà profonde ricadute economiche in un Paese in cui l’85% delle persone vive al di sotto della soglia di povertà.
“Le donne e le ragazze in Afghanistan stanno vivendo discriminazioni così gravi che potrebbero essere considerate persecuzioni di genere, un crimine contro l’umanità, e identificate come un apartheid di genere” ha affermato Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, commentando un report dedicato alla situazione delle donne nel Paese e presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite.
A marzo del 2023, in occasione della Giornata internazionale della donna, un gruppo di afghane e iraniane ha lanciato la campagna “End gender apartheid today” per riconoscere, a livello di diritti internazionale, anche l’apartheid di genere.
Iran: dai tetti delle case
“Donna, vita, libertà” e hijab bruciati per strada. Sono i simboli delle proteste che si sono scatenate in Iran a settembre del 2022, dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia, accusata di non aver indossato in modo corretto l’hijab. Le manifestazioni, che inizialmente riguardavano la mancanza di diritti delle donne nel Paese, si sono successivamente allargate, coinvolgendo ampie fasce della popolazione e dando voce a un generale dissenso per la corruzione, l’inflazione e per il regime del leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei. La dura repressione da parte delle forze dell’ordine ha causato la morte di centinaia di persone e l’arresto di migliaia di manifestanti, compresi molte e molti giovani, senza però fermare le proteste.
Da qualche settimana per le strade sono tornate pattuglie di agenti che controllano l’abbigliamento delle donne. Formalmente la polizia morale, istituita nel 2005 per educare ragazze e ragazzi sulla morale pubblica, è stata sciolta a fine del 2022 e le attività di controllo sono portate avanti da ufficiali di polizia. Nel corso dei mesi le manifestazioni di dissenso si sono trasformate, ma non fermate. Di notte, ad esempio, si possono sentire slogan “morte al dittatore” urlati dai tetti della casa. E nel frattempo il Paese si prepara all’anniversario della morte di Mahsa Amini, il 16 settembre.
Israele: libertà nei diritti religiosi
Dall’inizio del 2023 migliaia di persone manifestano contro la riforma della giustizia, promossa dal primo ministro Benjamin Netanyahu. A luglio è stata approvata la prima parte con cui si impedirà alla Corte suprema di intervenire nelle decisioni del Parlamento in base alla “clausola di ragionevolezza”: la Corte suprema poteva, infatti, bloccare provvedimenti del governo nel caso fossero stati ritenuti “irragionevoli”.
Anche le donne, preoccupate per il proprio futuro, prendono parte alle manifestazioni. Alcune di loro hanno partecipato alle proteste vestite come le “ancelle” del romanzo distopico di Margaret Atwood. Tra le proposte della riforma c’è l’aumento del potere dei tribunali religiosi controllati dallo Stato: ad oggi le corti rabbiniche, in cui non ci sono giudici donna, si pronunciano solo su casi di divorzio, ma potrebbero ricevere l’autorizzazione ad occuparsi anche di processi civili. Nonostante queste misure avranno ripercussioni sui diritti e sulla parità di genere, non è facile coinvolgere tutte le donne. Come racconta il Guardian, le donne arabe e palestinesi, che da anni subiscono discriminazioni, non si sentono parte delle proteste.
Ed è difficile anche includere le donne ultraortodosse. Gli ebrei ultraortodossi aderiscono alle dottrine più conservatrici dell’ebraismo e godono di uno stato privilegiato in Israele. Gli uomini, in particolare si dedicano allo studio dei testi sacri e alla preghiera.
Per rivendicare i diritti religiosi delle donne nel 1988 è nato il movimento Women of the wall che ogni primo giorno del mese si ritrova per pregare presso il Muro occidentale di Gerusalemme, uno dei luoghi sacri per l’ebraismo. In alcune occasioni gli ebrei ultraortodossi hanno organizzato proteste contro il movimento e le loro rivendicazioni.
India: contro la dote, che uccide ancora
La dote è stata dichiarata illegale nel 1961, ma la maggior parte dei matrimoni indiani prevede ancora questa pratica. Per soddisfare le richieste dello sposo, che possono equivalere a una somma di denaro, di gioielli o di altri beni, le famiglie delle ragazze chiedono prestiti, si indebitano e, in alcuni casi, vendono la propria terra o casa. In caso contrario l’accordo di matrimonio viene annullato. È quanto successo a un’insegnante indiana di 27 anni che si oppone alla pratica della dote e per questo è stata già rifiutata da diversi uomini. La ragazza ha lanciato una petizione per chiedere alla polizia di effettuare controlli ed evitare che questa pratica venga eseguita. Oltre all’intervento delle forze dell’ordine la ragazza chiede una maggiore educazione e sensibilizzazione sul tema.
In altri casi la dote viene utilizzata dai mariti per emigrare all’estero, lasciando le mogli in India. Gli strumenti legali a disposizione delle donne abbandonate sono pochi, ma un gruppo di otto donne ha sottoscritto una petizione, rivolta alla Corte suprema indiana, per chiedere politiche adeguate. E, sebbene in diminuzione negli ultimi anni, si verificano ancora casi in cui le donne vengono uccise a causa di una dote insufficiente: nel 2021 sono stati oltre 6700 i casi, secondo i dati del National crime records bureau. Una delle forme di morte per dote è la bride burning, per cui la sposa viene cosparsa di benzina o cherosene e bruciata viva.
Corea del Sud: i quattro rifiuti
In risposta alla cultura misogina e patriarcale in Corea del Sud si stanno sviluppando movimenti femministi radicali che evitano contatti con gli uomini. Uno di questi è 4B, l’abbreviazione di quattro parole che in coreano iniziano per bi: bihon (rifiuto del matrimonio eterosessuale), bichulsan (rifiuto della maternità), biyeonae (rifiuto del corteggiamento) e bisekseu (rifiuto dei rapporti eterosessuali). Una reazione alle pressioni che le donne subiscono per rispettare le aspettative della società sull’estetica, sul matrimonio e sulla maternità. In molti casi, ad esempio, alle donne coreane è chiesto di lasciare il lavoro dopo aver avuto un figlio.
Per il terzo anno consecutivo la Corea del Sud ha registrato il più basso tasso di fecondità al mondo (0,78 figli per donna nel 2022), tanto che da alcuni anni si parla di “sciopero delle nascite”. Per contrastare il calo dei matrimoni e delle nascite alcune amministrazioni locali finanziano degli appuntamenti al buio per persone single. Queste iniziative potrebbero non bastare. Al rifiuto di una parte delle donne, si aggiungono le preoccupazioni legate al costo della vita e alle precarie prospettive professionali. Come ha rilevato un sondaggio condotto nel 2022, il 65% delle donne sudcoreane non vuole avere figli, percentuale che scende al 48% per gli uomini.
Taiwan: la parità di genere nell’urna
A maggio del 2023 Chen Chien-jou, un ex membro dello staff del Partito progressista democratico, ha raccontato di essere stata molestata da un regista nel 2018 e di aver deciso di condividere la propria esperienza dopo aver visto la serie tv Tempeste politiche su Netflix. Sono state decine le donne che da quel momento hanno denunciato molestie e abusi subiti in passato. E così, qualche anno dopo, anche a Twain è arrivato il movimento #metoo.
Il governo ha approvato nuove leggi per le molestie sessuali, criminalizzate solo nel 2009: dovranno essere istituiti dei canali per riportare le molestie subite e i datori di lavoro dovranno indagare e riportare alle autorità i casi denunciati. Oltre alle leggi saranno necessarie politiche di educazione e sensibilizzazione. Per anni le molestie sessuali sono state accettate in silenzio: secondo un sondaggio del governo l’80% delle donne decide di non denunciare. Nel 2024 a Taiwan ci saranno le elezioni presidenziali ed è probabile che la parità di genere diventi un tema principale.
Cina: una strada in salita
Oltre lo stretto di Taiwan la situazione è molto diversa. Il movimento #metoo è arrivato in Cina nel 2018, quando Zhou Xiaoxuan ha denunciato le molestie sessuali subite nel 2014 da Zhu Jun, un famoso presentatore della televisione di stato. Sui social cinesi alcune donne hanno cominciato a raccontare la propria esperienza, spesso utilizzando slogan alternativi per aggirare la censura: ad esempio sono stati usati i caratteri 米 (mĭ, riso) 兔 (tù, lepre) la cui pronuncia ricorda le parole inglesi metoo.
In Cina un’iniziativa contro le molestie sessuali sui mezzi pubblici era stata portata avanti da cinque ragazza, note come le Feminist five, nel 2015: in occasione della Giornata internazionale della donna avevano attaccato degli adesivi in metropolitana ed erano state successivamente arrestate.
Nonostante tradizionalmente il Partito comunista cinese consideri le donne come “l’altra metà del cielo” e riconosca formalmente la parità di genere, la strada è ancora in salita: basta pensare che al 20esimo Congresso tra i 25 membri eletti del Politburo, uno degli organi principali del Partito, non c’è nessuna donna.
fonte dell'immagine di copertina: Albert Stoynov/unsplash