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Il sabotaggio di Trump sul clima potrebbe rimettere in moto gli accordi ambientali

La defezione degli Usa mette in luce la fragilità delle iniziative di negoziazione ambientale, come mostrano anche le difficili trattative di Roma sulla biodiversità. Ma potremmo essere vicini a un punto di svolta.

martedì 25 febbraio 2025
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È notizia degli ultimi giorni l’intenzione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’Ipcc, il più grande organismo globale sulla scienza del clima. L’organizzazione ha l’importante compito di mappare, esaminare e riportare nel suo report (che esce ogni cinque-sette anni) le più interessanti pubblicazioni scientifiche, tecniche e socioeconomiche prodotte nel mondo sui cambiamenti climatici.

Quello del tycoon è l’ennesimo attacco frontale sul tema, sicuramente uno dei più duri, perché mina alla base i progetti, e la fiducia, nell’organizzazione. Gli Usa hanno la co-presidenza del gruppo di lavoro più delicato, quello sulla mitigazione, e la plenaria dell’Ipcc che si sta svolgendo proprio in queste ore ad Hangzhou, in Cina, impegnata a definire tempi e modalità del prossimo rapporto Ipcc (che uscirà nel 2029), inizia con l’assenza assordante della delegazione statunitense. Non per niente Ferdinando Cotugno su Domani scrive che non si tratta più di “negazionismo climatico”, ma di “sabotaggio climatico”.

Il fatto è che questa ondata di disimpegno e sfiducia nella scienza e negli accordi climatici aleggiava nell’aria già da prima di Trump, che l’ha resa solo molto più manifesta. Ma questa tendenza potrebbe dare una scossa alle tre Cop (clima, biodiversità e desertificazione), accelerando i processi negoziali e riunendoli sotto un’unica grande iniziativa, il che potrebbe garantire maggiore solidità.  

Il disimpegno di alcuni Stati

Lo scetticismo climatico non si ferma agli Stati Uniti. La Nuova Zelanda, dopo il periodo d’oro per le politiche green con il primo ministro Jacinda Ardern, sta allentando le restrizioni sui combustibili fossili, per volere della coalizione di centro-destra guidata da Christopher Luxon, insediatosi a fine 2023. Il partner di coalizione di Luxon, David Seymour, ministro alla regolamentazione, ha addirittura sollevato la possibilità di seguire l'esempio degli Stati Uniti e abbandonare l'accordo di Parigi. In Svizzera gli elettori hanno da poco bocciato l’iniziativa “per la responsabilità ambientale”, un pacchetto di politiche verdi che includeva rigidi limiti alle emissioni, proposto da un’ala giovanile del Partito Verde, attualmente al governo. I sondaggi hanno detto che i cittadini elvetici preferiscono parlare di lavoro e crescita. In Germania, ancor prima dei risultati favorevoli delle elezioni, Friedrich Merz si è dimostrato scettico sull’industria eolica e sull’acciaio verde. E secondo Bloomberg Green questa tendenza era già nell’aria da un po’: nel 2023 il Thyssenkrupp Ag, il più grande produttore di acciaio della nazione, aveva ricevuto due miliardi di euro di sussidi per contribuire a pagare una fornace a idrogeno, un’azione centrale nel processo di transizione energetica della Germania. Ma i piani sono stati congelati dopo il crollo del governo, così come i finanziamenti per i principali programmi, con l’attenzione della politica rivolta altrove. Il Brasile, che ospiterà la prossima Cop ed è considerato capofila nel settore delle energie pulite, dovrà investire 6mila miliardi di dollari da qui al 2050 per accelerare la decarbonizzazione dell'intera economia e rimanere entro gli 1,5 gradi di aumento del riscaldamento (obiettivo globale che secondo alcuni studiosi è ormai inarrivabile).

La stessa International energy agency (Iea) ammette nel suo World energy outlook che “le transizioni verso l’energia pulita hanno subito una forte accelerazione negli ultimi anni, plasmate dalle politiche governative e dalle strategie industriali, ma c'è più incertezza a breve termine del solito su come queste politiche e strategie si evolveranno”. I Paesi che rappresentano metà della domanda globale di energia sono andati a elezioni nel 2024, e le questioni energetiche e climatiche sono state temi di campagna elettorale, spesso con esiti nefasti. Alla luce di questa situazione “le prospettive energetiche sono complesse, sfaccettate e sfidano una visione univoca su come potrebbe svilupparsi il futuro”, sempre secondo l’Iea.

E poi ci sono l’Accordo di Parigi e le Cop che, teoricamente, dovrebbero cercare di arginare questo maremoto. Ma ci stanno riuscendo?

Clima: da Parigi a Rio  

Accordo di Parigi e Conferenza delle parti sul clima (Unfccc) sono strettamente legati, tanto che l’Accordo è stato firmato proprio in occasione di una Cop, la 21esima. Nella prossima Cop, la 30esima, che si terrà a novembre in Brasile, saranno presi in esame i Contributi determinati a livello nazionale (Nationally determined contributions, o Ndc), piani nazionali non vincolanti per ridurre le emissioni, uno strumento cruciale previsto dall’Accordo di Parigi.

Il termine per presentare questi piani è già passato (10 febbraio), ma solo 13 dei 195 paesi firmatari hanno rispettato la scadenza. Tra questi: Stati Uniti (con i piani di Biden, che però sono irrilevanti dato l’annuncio di Trump di uscire dall’Accordo), Brasile, Regno Unito, Svizzera, Nuova Zelanda ed Emirati Arabi Uniti. Secondo uno studio di Climate action tracker gli Ndc statunitensi, così come quelli di Brasile, Svizzera ed Emirati, non sono sufficienti per limitare l’aumento delle temperature globali a 1,5 gradi. Anche il piano della Nuova Zelanda, non preso in esame dal gruppo indipendente di ricerca, è stato considerato insufficiente da parte di molti osservatori.

Simon Stiell, segretario della convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha cercato di frenare la disillusione, e ha ricordato che preparare questi impegni è un processo laborioso, e dunque meglio consegnarli in ritardo (massimo a settembre) che rispettare la scadenza con dei piani insoddisfacenti. 

Manca all’appello anche l’Unione europea, che ha comunque confermato tramite la Commissione che presenterà il suo piano per ridurre le emissioni entro il 2040, piano su cui si baseranno anche le riduzioni per il 2035.

“Per il 2040, che dovrebbe essere una tappa intermedia verso l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050 previsto dalla legge europea sul clima, la Commissione intende proporre una riduzione del 90% delle emissioni” (rispetto ai livelli del 1990), scrive Gabriele Crescente su Internazionale, “ma resta da vedere se questo obiettivo sopravvivrà alla crescente ostilità dei governi europei verso gli impegni sul clima”.

Non vincolanti sono anche i cosiddetti Ncqg, New collective quantified goal, ovvero i nuovi obietti di finanza climatica, terreno di scontro all’ultima Cop (29) di Baku. Questi obiettivi prevedono una serie di finanziamenti da mettere in campo dopo il 2025. Finora, l’accordo a cui si rifacevano gli Stati più ricchi (sancito a Copenaghen nel 2009 e poi rilanciato dall’Accordo di Parigi del 2015) prevedeva di donare cento miliardi di dollari all’anno ai Paesi che soffrono maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico. Un traguardo raggiunto solo nel 2022, con due anni di ritardo. Intanto, però, le cose sono cambiate, dato che il riscaldamento globale è aumentato e le posizioni politiche si sono modificate.

Quanti soldi serviranno davvero contro la crisi climatica globale? E chi li metterà?

Dopo una Cop 29 deludente, la questione dei finanziamenti al Sud del mondo è tornata a far discutere. Trecento miliardi di dollari all’anno non bastano. E mentre gli aiuti dagli Stati ricchi scarseggiano, la Banca mondiale potrebbe giocare un ruolo più incisivo. 

Alla Cop 29, che si è svolta pochi giorni dopo dal voto negli Usa, gli Stati hanno deciso di triplicare l’impegno finanziario di Copenaghen (300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035), una cifra ben lontana dai 1300 miliardi richiesti come soglia minima dalla Conferenza (e in particolare dagli Stati più vulnerabili al cambiamento climatico). Bisogna però vedere se questi soldi arriveranno, dal momento che non esiste nessuna forma di sanzione in caso di mancato adempimento. Se non si include, naturalmente, un peggioramento sensibile delle condizioni climatiche mondiali.

Biodiversità: da Cali a Roma

Altro pilastro negli impegni in materia ambientale è la Cop sulla biodiversità (Cbd). L’ultima conferenza (Cop 16) svoltasi a Cali, in Colombia, è stata per molti versi un insuccesso, e si è infilata in un’impasse negoziale che ha costretto i partecipanti a organizzare una Cop16.2 a Roma, che si sta svolgendo proprio in questi giorni (25-27 febbraio).

Dopo la firma di uno storico accordo sulla biodiversità durante la Cop 15 del 2022, ci si aspettava un cambio di passo. L’accordo prevede la protezione di almeno il 30% delle terre e dei mari entro il 2030, l’eliminazione ogni anno di 500 miliardi di dollari di sussidi dannosi all’ambiente, l’aumento della resilienza degli ecosistemi, riducendo al contempo di 10 volte il tasso di estinzione delle specie e incrementando l’abbondanza di quelle selvatiche. Oltre all’istituzione di un fondo, il Global biodiversity framework fund (Gbff), per colmare il gap finanziario di 700 miliardi di dollari all’anno da impiegare per la tutela della biodiversità.

Le negoziazioni però, come dicevamo, sono andate male. È saltato l’accordo su uno dei punti cruciali sul tavolo: mobilitare 200 miliardi di dollari l’anno per sostenere iniziative legate all’attività di conservazione in tutto il mondo. Nulla di fatto anche sul Planning, monitoring, reporting, and review (Pmrr, il quadro di monitoraggio degli impegni presi dai singoli Paesi): solo 44 Paesi hanno presentato piani concreti per la tutela della biodiversità.

Qualche passo avanti però è stato registrato. Per esempio sull’equa condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche legate alla biodiversità e sui diritti delle popolazioni indigene. Nel primo caso, è stato istituito un “Fondo Cali”, a cui dovrebbero contribuire tutte quelle industrie farmaceutiche, biotecnologiche e cosmetiche che traggono benefici economici dai Dati delle sequenze genetiche (Dsi), un modo per incanalare i profitti derivanti dall’uso commerciale delle risorse naturali verso la conservazione della biodiversità e a beneficio di comunità indigene e popolazioni locali. Inoltre, il Fondo prevede di garantire ai Paesi vulnerabili anche benefici non monetari, tra cui la condivisione delle conoscenze, in modo da migliorare l’accesso delle popolazioni indigene alle tecnologie e ai dati.

Dalla desertificazione a Riyad all’unificazione delle tre Cop

Il terzo pilastro della lotta contro il riscaldamento globale e i suoi effetti è la Cop sulla desertificazione (Uncdd). L’ultima si è svolta a Riyad e la prossima sarà in Mongolia. Nella capitale dell’Arabia Saudita le cose non sono andate particolarmente bene. Se secondo gli esperti, in base alle tendenze attuali, il 95% delle aree terrestri sarà sostanzialmente degradato entro il 2050, gli Stati sembrano non rendersene conto. Gli impegni economici presi alla Cop 16, in particolare con il Partenariato globale di Riyad per la resilienza alla siccità, sono stati di 12,5 miliardi di dollari. Per fare un confronto: l’Unccd, nel suo suo paper “Investing in land’s Future: Financial needs assessment for Unccd”, indicava come necessaria una somma di 2600 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per ripristinare un miliardo di ettari degradati nel mondo. Ovvero, circa un miliardo di dollari al giorno.

Senza politiche adeguate il 95% delle terre sarà degradato entro il 2050

Dalla Cop 16 sulla desertificazione 12 miliardi per i Paesi più colpiti, ma servirebbero almeno 2600 miliardi entro il 2030 per ripristinare le aree degradate. Nel Sahel la Grande muraglia verde avanza a rilento.

A Riyad sono stati anche stanziati 70 milioni di dollari per la “Visione per suoli e colture adatte” (Vacs), una campagna che promuove la scelta di colture più nutrienti e climaticamente resilienti, ripristinando al contempo le aree degradate. Alla Cop 16 sono stati annunciati fondi anche per la Great Green Wall Initiative, la grande muraglia verde in Africa, da parte di Australia e Italia. Il nostro Paese ha promesso 11 milioni di euro per un progetto che, secondo gli esperti, richiederebbe circa 2mila miliardi di dollari. La Grande muraglia verde, iniziativa sostenuta dall’Unione africana dal 2007, punta a ridare fertilità entro il 2030 a cento milioni di ettari di terre degradate, sequestrando al contempo 250 milioni di tonnellate di carbonio e creando milioni di posti di lavoro (con evidenti benefici per migrazione e conflitti).  

Un altro aspetto rilevante a Riyad è stato l’avvio della “Rio Trio Initiative”, il collegamento tra gli obiettivi chiave della tre Convenzioni internazionali nate a Rio de Janeiro nel 1992: Unfccc (clima), Cbd (biodiversità) e Unccd (desertificazione). È nato che anche l’Idro, l’Osservatorio nazionale sulla resilienza alla siccità, fortemente voluto dall’Arabia Saudita, la prima piattaforma globale basata sull’intelligenza artificiale per valutare e migliorare lo stato di salute dei Paesi impegnati in questa sfida.

Collegare le tre conferenze a tema verde potrebbe essere un importante passo avanti, così come dotarle di strumenti tecnologici all’avanguardia. L’assenza di vincoli sugli impegni continua però a pesare, così come l’ondata di scetticismo e negazionismo. Ma proprio per questi motivi le negoziazioni potrebbero ripartire più forti di prima. E proiettarci in un futuro diverso.  

Copertina: Davi Mendes/unsplash