Quale futuro per il citizen journalism? Tra social, storytelling e problema delle fonti
Il giornalismo partecipativo sta mutando forma. Diffusione capillare sulle piattaforme online, dove gli utenti preferiscono le notizie raccontate in prima persona. Ma il ruolo del giornalista come “gatekeeper” della qualità resta.
“Non sto solo raccontando notizie, le sto vivendo”. Con queste parole Plestia Alaqad, ex instagrammer palestinese e oggi reporter per varie testate internazionali, ha sintetizzato per il Guardian il suo attuale impegno come citizen journalist nella striscia di Gaza, da dove riporta notizie in presa diretta a cui i giornalisti riescono difficilmente ad accedere. Dopo il video di un attacco israeliano diventato virale su Instagram, Alaqad ha iniziato a ricevere proposte per lavorare come reporter per vari canali televisivi britannici e francesi, e il suo profilo Instagram si è trasformato presto in un resoconto della guerra, fonte di informazione per le testate di molti Paesi. "Per me è importante costruire un rapporto con le persone (attraverso Instagram, ndr)”, ha detto Alaqad, “affinché si interessino e siano coinvolte in quello che sta accadendo”.
Quella di Plestia Alaqad è solo una delle tante parabole di persone che, ritrovatesi improvvisamente al centro di eventi di portata storica (come la Primavera araba o l'uragano Katrina), hanno scelto di filmare, documentare e riportare gli eventi da una prospettiva ravvicinata e, in alcuni casi, non replicabile per i giornalisti di professione.
L’avvento di internet, delle nuove tecnologie, delle piattaforme social ha introdotto un cambiamento significativo nella raccolta e diffusione delle informazioni. Il frutto di questa evoluzione può essere considerato il giornalismo partecipativo (o citizen journalism), una forma alternativa di trasmissione delle notizie che si svolge al di fuori delle strutture mediatiche tradizionali.
La genesi di questa nuova forma di giornalismo, scrive Giuseppe Melillo sulle pagine dell’Huffington post, si può rintracciare “nella crisi dell’informazione e più in generale dei media tradizionali. Sintomo di tale crisi è la progressiva riduzione del numero di copie di quotidiani cartacei venduti ogni giorno”.
La crisi, riporta sempre Melillo, “è dovuta sia alla mancanza di un reale pluralismo dell’informazione che all’ascesa di internet e dei social”. Fino agli ’80 e ’90 del secolo scorso, infatti, le notizie venivano veicolate dalle testate giornalistiche, quotidiani, settimanali e riviste periodiche. “Con il trionfo del mercato la stragrande maggioranza degli organi di stampa di un tempo sono scomparsi, a causa dei costi e dell’impossibilità a competere con le nuove tecniche di informazione”. La rete, con il moltiplicarsi di blog, testate online e aggregatori di notizie come Google news, “è diventata uno dei principali veicoli di informazione alimentando il pluralismo delle idee e contestualmente il confronto continuo tra milioni di utenti”.
Se per alcuni, come sostiene il sociologo Gennaro Carotenuto nel suo saggio Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, il citizen journalism può essere considerato un fenomeno positivo che “sottrae spazio all’oligarchia dei media per dividerlo tra i cittadini”, per altri si pone un innegabile problema di “responsabilità delle fonti”, per cui le notizie, i video e le immagini mancano di un accurato fact checking, operazione che diventa più complessa man mano che aumenta il flusso virale di clic e condivisioni.
Reuters Institute: i social network sottraggono sempre più traffico ai giornali
L’abbondanza di notizie crea un senso di stanchezza tra lettrici e lettori, e la diffusione dell’AI rischia di alimentare la confusione. Contenuti video e audio e canali broadcast tra le nuove tendenze del giornalismo.
La nascita del giornalismo partecipativo risale al 1999, quando il Movimento no-global riunito a Seattle per protestare contro il Wto costruì un modello di informazione alternativo per garantire una copertura mediatica più in linea con le manifestazioni, dando vita a Indymedia, la piattaforma di giornalismo indipendente ramificata a oggi in una ventina di Paesi tra cui l’Italia. A seguire nacque nel 2000 la prima piattaforma ufficiale di giornalismo partecipativo sudcoreana OhMyNews. Da quel momento in poi, i siti di giornalismo partecipativo si sono diffusi in modo capillare. Giusto per fare alcuni esempi, in Italia sono nati YouReporter e Blasting news, all’estero AgoraVox, Bellingcat (sito di giornalismo investigativo metà professionale e metà partecipativo) e iReport for Cnn, sezione dell’emittente americana dedicata al citizen journalism, peraltro chiusa nel 2015. Un cammino che si è consolidato ancora di più con l’avvento dei social.
Secondo il Digital News Report 2023 del Reuters institute, il citizen journalism è particolarmente radicato su TikTok, Instagram e Snapchat, dove il pubblico presta più attenzione alle singole persone (spesso influencer) e alle narrazioni basate sullo storytelling (notizie raccontate attraverso le esperienze personali) rispetto alle notizie, più obiettive ma meno “calde”, proposte dalle testate mainstream.
Di esempi, in questo senso, se ne trovano molti, a cominciare da Otra Cara, canale di notizie peruviano fondato nel 2022, nato su TikTok e gestito dagli studiosi di scienze della comunicazione Verónica Farge Angulo e José Carlos Castillo. “Ciò che ci differenzia dai media tradizionali è che non siamo né a favore di una parte né a favore dell’altra”, hanno commentato i tiktoker intervistati da Reuters. “Non siamo né di sinistra né di destra. Abbiamo una posizione neutrale”.
Allo stesso modo, la comica kenyota Justine Wanda ha aperto un account TikTok per commentare con un taglio satirico le notizie del giorno, mostrando in sovraimpressione gli articoli di cui discute. La motivazione di Justine Wanda è, anche qui, la polarizzazione politica delle notizie nei media tradizionali, dove “le storie vengono inquadrate o consumate all'interno degli schieramenti politici del Paese: o sei con l'opposizione o con il governo”.
Resta, comunque, la questione della validità delle fonti (ancora più rilevante con l’avvento dell’intelligenza artificiale) e del ruolo del giornalista come “gatekeeper” della qualità delle notizie. A riflettere sul problema è il saggio Professione giornalista, manuale su tecniche, media e regole del “mestiere più bello del mondo”, scritto da Alberto Papuzzi con la collaborazione di Annalisa Magone. Papuzzi prende come riferimento gli eventi dell’uragano Katrina, sostenendo che “i canali dedicati alla cittadinanza attiva dei siti web di informazione locale furono per alcuni giorni una delle principali fonti per trovare notizie pratiche dopo l’uragano, però la migliore informazione sulle ragioni per cui il tornado aveva distrutto la città non arrivò dai cittadini ma dai reporter”.
Secondo Nicholas Lemann, professore della scuola di giornalismo della Columbia University citato nel libro, “è altro ciò che il citizen journalism dovrebbe fare: essere al corrente degli affari pubblici, specialmente locali, anno dopo anno, quando non avvengono disastri. I citizen journalist dovrebbero insomma interessarsi non tanto dei territori che i reporter coprono, ugualmente o meglio, ma di tutto ciò che essi ignorano”, così da “competere in modo serio con i vecchi media, di funzionare come un sostituto più che come un’aggiunta”.
Se questa potrà essere considerata la strada futura del giornalismo partecipativo saranno solo gli utenti a deciderlo.
Copertina: Chris Slupski/unsplash