L’Ue approva la carbon tax alla frontiera, ma il futuro potrebbe essere una tassa globale
Via libera alle riforme dell’Emissions trading system. Previsto lo stop alle quote di emissioni gratuite, l’inclusione del settore marittimo nel sistema Ets e la creazione di un Fondo sociale per il clima.
di Flavio Natale
La festa per l’Anniversario della liberazione d’Italia, il 25 aprile, è stato un giorno importante anche a livello europeo, diciamo un passo in più verso una liberazione “diversa”: quella dalle emissioni climalteranti.
Il 25 aprile il Consiglio dell’Unione europea ha infatti approvato, a pochi giorni dal via libera del Parlamento, la riforma dell’Emissions trading system (Ets) dell’Ue, il Sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra, considerato il principale strumento adottato dall'Unione per raggiungere gli obiettivi di riduzione della CO2 in settori industriali chiave.
In breve, questo strumento (conosciuto anche come cap and trade) prevede un tetto massimo complessivo alle emissioni consentite, cui corrisponde un equivalente numero di “quote di emissioni” assegnate a ogni operatore industriale (che rientri tra quelli soggetti alla Direttiva europea). Se le imprese non superano il cap (tetto) assegnato, avranno alla fine dell’anno un tot di quote da vendere (trade) sul mercato, mentre se l’azienda avrà emesso oltre il cap assegnato, dovrà acquistare le quote mancanti sul mercato.
La riforma del sistema Ets è stata accompagnata anche dalla creazione di una carbon tax alla frontiera (Cbam), “un meccanismo”, come sottolinea Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS, nella sua rubrica Scegliere il futuro, “che penalizzerà, in termini di prezzo quelle merci che arrivano da Paesi che non rispettano gli standard ecologici e sociali che sono presenti nell’Unione europea”. Inoltre, ha aggiunto il direttore scientifico, “è un modo per evitare la concorrenza sleale, ed è anche un modo per forzare altri Paesi ad andare nella stessa direzione, se vogliono esportare i loro prodotti verso l’Unione europea”.
Il successo ottenuto con il Cbam è solo il punto di arrivo di negoziati durati quasi due anni, caratterizzati da un iter lungo e complesso. Di 27 Paesi dell’Unione, solo Polonia e Ungheria si sono opposte alla riforma.
Perché una carbon tax è così importante
Prima di continuare, facciamo però un piccolo passo indietro. Nel dicembre 2019 la Commissione Ue ha presentato il Green deal europeo, un patto che impegna l'Ue a raggiungere le net zero emissions entro il 2050, riducendo contemporaneamente le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990).
Nel luglio 2021, l'Unione europea, proprio per stimolare il raggiungimento di questi obiettivi, ha annunciato una serie di proposte (note come pacchetto "Fit for 55") per la riduzione delle emissioni del 55%. Tra queste, uno dei pilastri fondamentali era (ed è) la carbon tax alla frontiera (Cbam) sulle importazioni di alcuni materiali da Paesi terzi.
La necessità di stabilire una tassa sulla produzione di carbonio è un argomento noto da tempo tra gli economisti: già nel 2017 la High-level commission on carbon pricing guidata dal premio Nobel Joseph Stiglitz e dall’economista Lord Nicholas Stern, affermava che “Un prezzo sul carbonio ben progettato è una parte indispensabile di una strategia per ridurre le emissioni in modo efficiente”.
Il motivo è che il carbon pricing attiva incentivi in tutta l'economia, perché obbliga il settore pubblico e privato a tenere conto del costo economico delle emissioni quando si prendono decisioni, grandi e piccole, sui processi produttivi, sugli investimenti tecnologici, sulle abitudini di acquisto, sul consumo energetico. Il carbon pricing, in un certo senso, esorta i soggetti a compiere scelte sostenibili rendendo le alternative inquinanti più costose. Così, la combustione del carbone diventa più dispendiosa dell'utilizzo dell'energia solare, e il manzo risulta più costoso rispetto al tofu.
“Un vantaggio chiave del prezzo sul carbonio”, si legge sul Journal of policy analysis and management, “è che tratta tutte le emissioni allo stesso modo: nessuna azienda è tenuta ad assumersi costi più elevati per ridurre l'ultima tonnellata di CO2 rispetto a un'altra. Ogni attore è incentivato a ridurre ulteriormente le proprie emissioni fintanto che ciò è meno costoso che pagarne il prezzo”.
L’obiettivo di una misura come la Cbam è, tra le altre cose, quello di contrastare il “carbon leakage”, ovvero l’abitudine dei Paesi a trasferire le emissioni in regioni con politiche meno rigide, una volta che vengono adottate misure più restrittive nei propri confini. Una tassa alla frontiera disinnesca questo fenomeno, perché le merci prodotte fuori dall’Ue verrebbero comunque tassate al loro rientro. “La carbon tax alla frontiera è stata concepita per preservare la competitività europea, salvaguardare l’occupazione ed evitare il fenomeno della delocalizzazione”, ha commentato Luigi Di Marco, curatore della rubrica ASviS "Europa e Agenda 2030" e membro della Segretaria Generale dell’Alleanza.
Il Cbam sarà però pienamente operativo solo nel 2026, e riguarderà inizialmente soltanto cinque settori industriali, considerati, secondo la Commissione europea, quelli a più alto “rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio”: ferro e acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio e produzione di elettricità.
“È un buon giorno per il clima”, ha commentato Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea con delega al Green deal. Dal Consiglio europeo hanno aggiunto che, con questa iniziativa, “l’Ue dimostra ancora una volta il suo forte impegno a trasformare la nostra economia e la nostra società per un futuro equo, verde e prospero”.
Ma la carbon tax alla frontiera, è importante sottolinearlo, non è stata l’unica conquista del pacchetto di riforme approvato il 25 aprile.
Il Parlamento europeo ha infatti deliberato con 413 voti favorevoli, 167 contrari e 57 astensioni per una riforma del sistema di scambio di quote di emissione (Ets), che preveda la graduale eliminazione delle quote gratuite per le imprese – quote assegnate a quegli operatori a maggiore rischio di delocalizzazione (carbon leakage) per trattenerli all’interno dei propri confini. Questa riduzione, approvata anche dal Consiglio dell’Unione europea, avverrà in modo graduale, forse troppo: si partirà da un taglio del 2,5% delle quote gratuite nel 2026, per arrivare alla scomparsa definitiva nel 2034.
Il Parlamento europeo ha inoltre deciso di includere per la prima volta nel suo Emissions trading system anche le emissioni derivanti dal settore marittimo, nonché di effettuare una revisione del sistema di scambio di quote di emissioni per il trasporto aereo – al fine di eliminare, anche qui gradualmente (ma entro il 2026) le quote gratuite, promuovendo così l’uso di combustibili sostenibili.
Infine, l’Ue ha visto l’approvazione di un nuovo Fondo sociale per il clima, il Social climate fund, che prevede 86,7 miliardi di euro da usare per sostenere gli strati della popolazione più vulnerabili al processo di transizione ecologica – soprattutto famiglie, piccole imprese e utenti dei trasporti. I proventi derivanti dalla vendita delle quote Ets copriranno 65 miliardi di euro (sugli 86,7), mentre il restante 25% dovrà essere garantito dai singoli Stati.
Com’è la situazione nel resto del mondo
Come si legge sul documento pubblicato dall’Unione europea dedicato alle riforme, l'Ue è “pioniera” della tariffazione del carbonio su larga scala. E da questo punto di vista non le si può dar torto.
A oggi, 45 giurisdizioni nazionali hanno attuato qualche tipo di iniziativa di tariffazione del carbonio, che copre circa il 18,8% delle emissioni globali (la Cina ha lanciato un Ets nazionale nel 2021). Nessuna giurisdizione nazionale o sovranazionale, però, ha mai implementato un Cbam.
Nell'ambito del sistema cap and trade la California ha messo in atto una limitata carbon tax alla frontiera per l’importazione di elettricità, mentre il Canada e il Giappone stanno pianificando politiche di tassazione alla frontiera per il futuro. “Tuttavia, negli anni a venire, se non verrà creato un regime globale di tariffazione del carbonio, è probabile che continueranno a proliferare i sistemi di scambio di quote di emissione e le carbon tax alla frontiera”, si legge nel documento Ue.
Verso una carbon tax globale
E proprio la carbon tax globale risulta essere l’argomento più caldo (e imprevedibile) per quanto riguarda il futuro della tassazione delle emissioni. A dicembre scorso la Bce sosteneva che per avere una riduzione “significativa” del finanziamento delle società attive nella produzione e nella lavorazione dei combustibili fossili, “una tassa sul carbonio deve essere globale”. Il rischio è infatti che l’Ue stringa le maglie dove altri le allargano, e che mentre in Europa le emissioni diminuiscono in altre zone del mondo aumentino. “La Global tax dovrebbe rientrare nei negoziati delle Cop”, ha commentato Luigi Di Marco. “Ricordiamoci che con l’Accordo di Parigi abbiamo sottoscritto l’impegno di rendere i flussi finanziari coerenti con uno sviluppo a basse emissioni di carbonio: solo che non stiamo ancora discutendo come farlo”. Di Marco ha sottolineato la mancanza di una proposta politica conseguente da portare in discussione. La carbon tax europea, da questo punto di vista, si pone proprio l’obiettivo di “spingere tutto il mondo ad alzare il livello di ambizione”.
Olaf Scholz, qualche mese prima della sua elezione a Cancelliere tedesco, proponeva inoltre di creare un “club del clima” tra Unione europea, Stati uniti, Giappone e altre potenze, in modo da evitare attriti commerciali derivanti da misure come la carbon tax e concordare preventivamente regole e standard comuni sulla riduzione delle emissioni di carbonio.
Né l’una né l’altra proposta sembrano soluzioni in via di realizzazione nel breve termine. C’è da dire però che, almeno per oggi, possiamo ritenerci soddisfatti.