Il trattato sulla plastica sarà l’accordo più importante dopo Parigi?
L’intesa raggiunta a Nairobi ha ricevuto il plauso del mondo ambientalista ma dovrà coinvolgere il settore privato e affrontare le disuguaglianze che impattano sui Paesi in via di sviluppo.
di Andrea De Tommasi
Alla quinta sessione dell’Assemblea delle Nazioni unite per l’ambiente (Unea), il 2 marzo a Nairobi, è stato raggiunto uno storico accordo per aprire la strada a un trattato globale legalmente vincolante sull’inquinamento da plastica. La risoluzione, intitolata “End plastic pollution: towards an international legally binding instrument”, apre le porte a una serie di azioni da intraprendere lungo l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione allo smaltimento, e sulla progettazione del prodotto per il riciclaggio e il riutilizzo. Con una mossa definita da molti osservatori rivoluzionaria, riconosce come il settore informale sia vitale nella creazione di un’economia circolare per la plastica. In alcuni Paesi in via di sviluppo, dove fino al 40% dei rifiuti non viene raccolto dalle autorità locali, le comunità formate da “raccoglitori” di rifiuti o rivenditori di rottami sono diventati la spina dorsale di molte strutture di riciclaggio. Eppure restano poco conosciute e soggette a stigma sociale.
L’accordo istituisce un comitato di negoziazione intergovernativo (Inc) in cui i Paesi si riuniranno per negoziare i dettagli del trattato. Ciò avverrà a partire da quest’anno e l’obiettivo è arrivare a un accordo pronto per la ratifica nel 2024. Sul tavolo delle trattative che hanno portato all’intesa di Nairobi erano state avanzate due proposte contrastanti. La prima, guidata da Perù e Ruanda, comprendeva tutte le fasi del ciclo di vita della plastica. La seconda, promossa dal Giappone, era un accordo molto più limitato incentrato sulla plastica negli oceani. L’accordo emerso, approvato da 175 Paesi, supporta il primo approccio. Riconosce inoltre che gli elementi del trattato sono giuridicamente vincolanti e afferma che i Paesi a basso reddito troveranno più difficile affrontare l’inquinamento da plastica rispetto a quelli più ricchi e dunque è necessario un qualche tipo di modello di finanziamento per aiutarli a ridurre l’uso e i rifiuti da plastica. Restano da definire le modalità di rendicontazione dei Paesi, ossia le informazioni sul modo in cui hanno attuato l’accordo a livello nazionale. La lotta all’inquinamento da plastica è parte integrante dell’Agenda 2030 e l’attuazione del Goal 12 sui modelli di consumo e produzione sostenibili è particolarmente importante per frenare la produzione di rifiuti di plastica.
“Questo è l'accordo ambientale multilaterale più significativo dall'accordo di Parigi”, ha dichiarato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep. “È una polizza assicurativa per questa generazione e per quelle future, in questo modo potranno vivere con la plastica e non esserne condannate”. Andersen ha confrontato l’accordo sulla plastica con i precedenti trattati ambientali, come il protocollo di Montreal sui clorofluorocarburi (Cfc) che distruggono l’ozono e la convenzione di Minamata sull’inquinamento da mercurio, che hanno entrambi portato a massicce riduzioni di queste sostanze chimiche nocive. Queste sono la prova che gli accordi globali possono far lavorare i governi e l'industria in modo diverso, ha detto: “L'abbiamo già fatto”.
Sarà così anche questa volta?
Un bivio storico
Le richieste di un trattato sulla plastica sono state sostenute nel corso degli ultimi anni dal mondo ambientalista, associazioni di imprese e rappresentanti della società civile. I sostenitori di questa proposta hanno condiviso l’idea per cui l’inquinamento da plastica sia un problema globale e richieda dunque soluzioni globali. E proprio come la lotta al cambiamento climatico ha il suo “accordo di Parigi”, che ha fissato un obiettivo di zero emissioni nette di gas a effetto serra, la plastica ha bisogno di un trattato per mettere il mondo su una strada di inquinamento zero da plastica. La maggior parte delle associazioni impegnate su questa proposta ha perciò espresso soddisfazione per la decisione dell’Unea. “Siamo di fronte a un importante bivio storico”, ha dichiarato Marco Lambertini, direttore generale di Wwf International, “le ambiziose decisioni di oggi possono evitare il collasso del nostro ecosistema globale”.
Sulla stessa linea Graham Forbes, global plastic project lead di Greenpeace Usa, che ha dichiarato: “Questo è un chiaro riconoscimento che l’intero ciclo di vita della plastica, dall'estrazione dei combustibili fossili allo smaltimento, crea un inquinamento dannoso per le persone e il pianeta”. Per Forbes, “questo è un grande passo che manterrà la pressione su Big Oil e sui grandi marchi per ridurre la loro impronta di plastica e cambiare i loro modelli di business per riciclare e riutilizzare”. L’ipotesi che il trattato possa diventare uno strumento per una serie di azioni legali contro produttori di plastica e governi responsabili di pratiche dannose per le comunità e per l’ambiente è contenuta in un articolo apparso il 9 marzo sul quotidiano britannico The Guardian, che ha raccolto il parere di alcuni esperti legali.
Secondo il Center for international environmental law (Ciel), il pacchetto di misure approvato dall’Unea include “disposizioni rivoluzionarie che hanno la capacità di promuovere i diritti umani e la giustizia ambientale per le comunità di tutto il mondo, se i governi coglieranno l'opportunità di fronte a loro di negoziare un nuovo strumento ambizioso”. Unilever, la multinazionale britannica di beni di consumo attiva nell’ambito di progetti di economia circolare, ha accolto con favore “questa decisione storica”, ma ha avvertito che “con un lasso di tempo ambizioso per concludere i negoziati entro la fine del 2024, gran parte del duro lavoro inizia ora a guardare ai dettagli del trattato”.
Chi paga?
L’alternativa alla visione ottimistica è rappresentata su The Guardian da Edward Milner, professore associato al Sustainability Research Institute, Università di East London: “Sfortunatamente, come con molti dei nostri problemi planetari, questo trattato è un tentativo di affrontare gli effetti di pratiche lucrative senza responsabilizzare gli inquinatori. Non c’è da stupirsi che Greta Thunberg parli di bla, bla, bla”. Nell’ottica “realista” di Milner, senza una tassa universale sulla produzione e l’uso di plastica monouso poco cambierà: i profitti sono troppo grandi e “l’industria della plastica guadagna miliardi e lo fa da decenni”. Questo approccio è forse minoritario ma richiama un punto su cui insistono anche alcuni gruppi ambientalisti, che premono per introdurre nelle fasi successive del negoziato solidi standard globali sulla plastica e sanzioni per prodotti e pratiche dannose. In uno studio del think tank Planet Tracker viene mostrata la significativa differenza tra il consumo di plastica industriale pro capite tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Nel 2020, il consumo pro capite delle nazioni meno ricche è stimato a 36 kg, mentre per i Paesi sviluppati è 2,5 volte superiore.
Senza alcuna regolamentazione aggiuntiva sulla plastica, il divario tra questi due gruppi si ridurrebbe da 2,5 volte nel 2020 a 1,3 volte entro il 2040. Questo perché, dice Carbon Tracker, “i Paesi sviluppati vedrebbero aumentare il proprio consumo a 130 kg pro capite entro il 2040, un aumento del 44% rispetto al livello del 2020, mentre i Paesi in via di sviluppo aumentano il proprio consumo di un più drammatico 186% per raggiungere 103 kg pro capite entro il 2040”.
Dove vengono lavorati e smaltiti questi materiali?
Dagli anni ’90 i flussi commerciali di rifiuti in plastica verso i Paesi in via di sviluppo sono diventati sempre più frequenti, a causa dei vantaggi economici e dei rischi ambientali. Il fenomeno va avanti da anni, ma ha ricevuto una spinta nell’ultimo periodo. Nel 2018, la decisione senza precedenti della Cina di interrompere l’importazione di rifiuti da plastica da Paesi terzi ha aperto le porte alla possibilità che altre regioni del mondo diventassero la discarica per i Paesi industrializzati. Le evidenze più preoccupanti riguardano il Sud-Est asiatico ma soprattutto l’America Latina. Come spiega uno studio pubblicato a luglio 2021 dalla ong Gaia, “L’America Latina e i Caraibi si stanno unendo all’Africa come destinazioni emergenti per i rifiuti di plastica a livello globale”. A causa delle lacune legislative e del controllo morbido, rileva l’organizzazione citando i dati di Usa Trade Online, Messico, El Salvador, Ecuador e Guatemala sono in cima alla lista come importatori di plastica dagli Stati Uniti: “Tra gennaio e agosto 2020, 44.173 tonnellate di rifiuti di plastica sono arrivati in 15 Paesi dell'America Latina, che in pratica equivale a 35 container al giorno”.
Steve Fletcher, professore dell’Università di Portsmouth e consulente dell’Unep, ha affermato che c'è un “dibattito su chi paga” e su come “ci assicuriamo che i Paesi del Sud del mondo abbiano le risorse per affrontare la crisi dell'inquinamento da plastica”. Il prossimo appuntamento per fare il punto sull’avanzamento dei lavori è previsto alla fine del 2022 nell’ambito di un forum convocato dall’Unep.
*L'immagine di copertina è tratta da Unep