Per le carceri la lezione del Covid è l’occasione per cambiare l’esistente
Superata la fase emergenziale, sarà importante riflettere sulla capacità di sfruttare pienamente la tecnologia e rafforzare le misure alternative.
di Andrea De Tommasi
Nel 1831 il filosofo francese Alexis de Tocqueville si recò negli Stati Uniti per studiarne le carceri e tornò in patria con una ricchezza di osservazioni che raccolse in Democracy in America (1835), forse uno dei libri più influenti del diciannovesimo secolo. de Tocqueville scoprì che alcuni Stati americani stavano tentando di comminare pene umane e proporzionate in un modo che in Francia e nel resto dell'Europa era ancora sconosciuto. Le cose sono molto cambiate da quando il famoso filosofo attraversò gli Stati Uniti, se è vero che oggi il Paese guidato da Joe Biden detiene a livello mondiale il tasso più alto di popolazione carceraria nonché il numero più elevato di persone detenute: quasi 2,3 milioni, con un aumento del 500% negli ultimi 40 anni. Secondo gli esperti, i cambiamenti nella legge e le decisioni della politica, più che le variazioni nei tassi di criminalità, spiegano la maggior parte di questo incremento.
Questo fenomeno è conosciuto come mass incarceration (incarcerazione di massa), espressione introdotta per la prima volta nel dibattito sulla giustizia penale da David Garland, professore alla NYU School of Law. Garland e altri sostenitori della riforma carceraria statunitense l'hanno usata per indicare non solo un numero insolitamente elevato di persone dietro le sbarre, ma anche una detenzione sistematica di determinati gruppi all'interno della società. Le statistiche dicono che un ragazzo nero su tre che vive oggi negli Stati Uniti rischia di andare in prigione nel corso della sua vita, uno su sei tra i giovani latini, rispetto a uno su 17 tra i ragazzi bianchi. Allo stesso tempo, le donne sono il segmento della popolazione carceraria in più rapida crescita negli Usa.
Recentemente, anche negli Stati Uniti ci sono stati alcuni progressi nella riduzione dei tassi di carcerazione. Allo stesso tempo, le disparità razziali nella popolazione carceraria sono diminuite di circa il 10%. Ma restano delle evidenti differenze con quei Paesi che hanno potenziato le misure alternative al carcere. Per dare un ordine di grandezza, nel 2018 il tasso di detenzione negli Stati Uniti era nove volte superiore a quello della Germania, otto volte superiore a quello dell’Italia, cinque volte superiore a quello del Regno Unito e 15 volte superiore a quello del Giappone.
Non solo carcere
Durante la crisi del Covid, il dibattito sul futuro delle carceri è diventato ancora più sentito e urgente in molti Paesi. I sistemi carcerari e gli oltre 11 milioni di prigionieri in tutto il mondo sono stati colpiti in modo sproporzionato dalla pandemia, come è stato sottolineato recentemente al 14esimo Congresso delle Nazioni unite sulla prevenzione della criminalità e la giustizia penale. Si stima che ci siano più di 527mila detenuti che sono stati infettati dal virus in 122 paesi con più di 3.800 decessi. Con capacità di test limitate in molte giurisdizioni e la situazione in rapida evoluzione, il numero effettivo potrebbe essere molto più alto. La discussione non riguarda solo quali soluzioni possano fermare la diffusione del virus nelle carceri, ma anche se le modifiche al modo in cui vengono gestiti gli istituti penitenziari debbano essere rese permanenti.
Uno dei problemi chiave per le carceri è il sovraffollamento, così durante la pandemia tanti Paesi hanno cercato di frenare il continuo afflusso di detenuti. Le misure principali sono state la sospensione della pena per reati meno gravi e il rilascio anticipato dei detenuti prossimi alla fine della pena. Si stima che più di 700mila soggetti siano stati scarcerati in tutto il mondo durante la pandemia. Secondo l’associazione Antigone, che ha pubblicato in marzo il diciassettesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, in Italia i detenuti erano 61.230 il 29 febbraio del 2020, a pochi giorni dalla scoperta del primo caso di Coronavirus. In dodici mesi il calo è stato pari a 7.533 unità, pari al 12,3% del totale.
“La prima questione riguarda la necessità di superare la cultura tutta incentrata sul carcere”, spiega Stefano Anastasìa, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto e Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. “Occorre rinunciare alla pena detentiva per i reati non violenti, che non giustificano il sacrificio della libertà personale. In questo senso ci potrebbero essere già nel codice penale o nelle leggi penali delle modalità di sanzione, di restituzione del debito, di impegno per la collettività che non passino necessariamente per il carcere. Questo mi sembra un punto dirimente. L’altra questione è quella sollevata anche dalla ministra Cartabia nel suo programma alle Camere: potenziare la giustizia riparativa, cioè trovare forme di conciliazione tra autori e vittime del reato che siano alternative alla procedura e alla esecuzione penale. È quello che accade con la messa alla prova, una modalità che sospende il processo e nel caso in cui l’esito finale sia favorevole va a estinguere completamente il reato”.
Un mondo dimenticato
Resta da capire se, tra le aspettative e la realtà dei fatti, si riuscirà ad avviare delle riforme al sistema giudiziario e penale in grado di incidere sulla qualità del tempo che le persone detenute trascorrono nel lavoro, nell’istruzione, nei programmi formativi. “Un altro elemento reso evidente dal Covid è che nel reinserimento dei detenuti non è possibile ancora tenere separati il binario dell’assistenza sanitaria e quello del sostegno sociale”, prosegue Anastasìa. Una delle difficoltà maggiori riscontrate durante le detenzioni domiciliari riguarda migliaia di persone che, una volta uscite dal carcere, sono senza casa, senza famiglia, non hanno un posto dove andare. Un'altra lezione che ci ha insegnato l’emergenza è la necessità di sfruttare la tecnologia, che fino all’esplosione dell’epidemia era stata rifiutata in quanto considerata veicolo di insicurezza. Per supplire alla mancanza di colloqui in presenza, sono stati forniti 1.500 smartphone in tutti gli istituti di pena al fine di consentire ai detenuti di parlare con i loro familiari. Ma questa è solo una parte della tecnologia che può entrare in carcere. Poi c’è tutta la questione dell’istruzione e della formazione: la didattica a distanza, la formazione professionale, l’idea che il carcere possa svolgere una funzione rieducativa utilizzando la tecnologia. Occorre realizzare infrastrutture di rete per consentire le comunicazioni a distanza con istituti scolastici, servizi, patronati e tutte le realtà che ormai lavorano interamente in rete”.
La vita interna
Nel suo studio sulle origini della prigione, Discipline & Punish: The Birth of the Prison (1975), Michel Foucault esplorò l'invenzione del Panopticon, o carcere ideale, progettato dal filosofo Jeremy Bentham per consentire alle guardie di vedere continuamente all'interno di ogni cella dal loro punto di osservazione in un’alta torre centrale. Dal Panopticon alle carceri senza sbarre, a quelle ultramoderne basate su sistemi di intelligenza artificiale verso cui guardano Regno Unito e Stati Uniti, la discussione sul carcere del futuro è complessa perché multidisciplinare.
“In Italia abbiamo il patrimonio di edilizia penitenziaria più antico d’Europa e forse del mondo”, osserva Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio europeo carceri di Antigone. “Ci sono istituti che sorgono all’interno di edifici del Cinquecento o del Seicento. Si tratta di strutture molto costose e difficilissime da manutenere, pensate soltanto sul tema della sicurezza. Questo è un nodo problematico che si intreccia con la discussione se realizzare o meno nuove carceri. Oggi costruire nuovi istituti a che idea risponderebbe? Occorre trovare una risposta prima di costruire, altrimenti si rischia di replicare modelli che già sono negli uffici di progettazione del ministero. La Costituzione dice in maniera molto chiara che il carcere tende alla rieducazione del condannato. Questa idea si applica avendo consapevolezza di quali sono le caratteristiche della popolazione detenuta, che oggi è sempre più composta da cittadini stranieri, sempre più povera di risorse materiali e relazionali, sempre più bisognosa di servizi sociali molto forti che generalmente fuori non hanno mai incontrato risposte. Per questo bisogna garantire tutta una serie di servizi che, oltre a rispondere a diritti astratti delle persone detenute, cerchino in pratica di riempire queste povertà, queste carenze e queste fragilità”.
Puntare sulla ristrutturazione delle carceri esistenti, nel rispetto di quanto previsto dalle norme interne e internazionali, in termini di spazi, diritti e opportunità; cablare gli istituti, per potenziare le infrastrutture tecnologiche, per prevedere ipotesi aggiuntive di didattica a distanza, per assicurare la formazione professionale anche da remoto. Queste le priorità indicate da Antigone, che chiede di abbandonare i piani di edilizia penitenziaria finalizzati alla costruzione di nuove carceri. Dice Scandurra che occorre riprendere una riflessione sull’architettura penitenziaria italiana. “In questo momento ci sono tanti istituti identici l’uno all’altro. Se è grande la struttura in cui sei istituzionalizzato, è più facile che diventi un numero. Questo è il motivo per cui abbiamo chiuso i manicomi e puntato su centri più piccoli, territorializzati. Anche sul carcere si potrebbe immaginare un passaggio di questo tipo. Ci sono dei centri di ricerca che in questi anni hanno ragionato sul modello del carcere diffuso. Strutture capillari ben distribuite nel paesaggio urbano, con un minor numero di detenuti e quindi un trattamento più personalizzato, con un controllo affidato in parte alle tecnologie e in parte alle persone”.
di Andrea De Tommasi