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La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è già finita. E forse non è un male

Nazionalismo, pandemia e guerra in Ucraina: queste le tre fasi di frammentazione individuate dall’economista Goldberg. Mentre la business columnist Rama Foroohar prevede un più giusto equilibrio tra interessi nazionali e locali.

di Maddalena Binda

“Dopo decenni di aperture senza precedenti, le relazioni economiche internazionali sono entrate in una nuova era caratterizzata da sfiducia e divisione” scrive sul Japan Times Pinelopi Koujanou Goldberg, professore di Economia all’Università di Yale e capo economista della Banca mondiale dal 2018 al 2020, in un articolo segnalato da Sara Gandolfi nella “Rassegna stampa” del Corriere della Sera.

Nell’articolo Goldberg ripercorre le tre fasi di “transizione dalla interconnessione alla frammentazione” verificatesi negli ultimi anni. La prima, iniziata nel 2016, coincide con l’ascesa di movimenti nazionalisti che hanno portato, ad esempio, alla decisione del Regno unito di uscire dall’Unione europea e all’elezione di Donald Trump con la politica “America first”.

Secondo Goldberg “questi sviluppi sono stati, innanzitutto, una reazione alle crescenti disuguaglianze”. Sebbene abbia avuto un impatto positivo a livello globale, contribuendo alla riduzione della povertà assoluta e al mantenimento di un lungo periodo di pace e stabilità, la globalizzazione ha anche aumentato il divario socio-economico all’interno e fra gli Stati. Nei Paesi ad alto reddito, ad esempio, alcune fasce di popolazione hanno subito maggiormente la “competizione dalle importazioni provenienti dai Paesi con salari bassi”, scrive Goldberg.

La seconda fase corrisponde allo scoppio della pandemia da Covid-19: per rispondere all’emergenza sanitaria i Paesi hanno concentrato i propri sforzi in misure di politica interna, applicando restrizioni al commercio internazionale. “La carenza di beni essenziali” sottolinea Goldberg “ha fornito maggiore spinta alla tesi che non si possa avere fiducia nelle catene globali di approvvigionamento”. Il commercio globale ha, tuttavia, resistito alle politiche protezionistiche e alla crisi sanitaria, registrando una crescita rispetto ai livelli pre-pandemia.

L’invasione russa dell’Ucraina ha segnato l’inizio della terza fase. Si è visto a questo punto che la minaccia di “distruzione mutua assicurata in campo economico” che avrebbe dovuto impedire la deglobalizzazione (così come la minaccia di distruzione nucleare reciproca garantì la pace ai tempi della guerra fredda) “ha raggiunto i propri limiti” scrive Goldberg. Nell’attuale clima di sfiducia gli Stati cercano di garantire la propria sicurezza nazionale potenziando i settori strategici legati, come quelli legati all’energia e ai semiconduttori. È, inoltre, aumentato il sostegno per le politiche di friend-shoring volte a diversificare le forniture nazionali e a rafforzare le relazioni con Paesi partner fidati.

“Sembra che abbiamo passato il Rubicone nelle relazioni internazionali, lasciandoci alle spalle la globalizzazione. La sfida ora è capire quale posizione assumeremo quando le conseguenze inizieranno a essere evidenti” conclude Goldberg.

Gandolfi abbina alla riflessione di Goldberg un articolo sul New York Times della business columnist Rana Foroohar, dal titolo “Il globalismo non è riuscito a darci l’economia di cui abbiamo bisogno”. Gandolfi sintetizza così il pensiero di Foroohar, che ha appena pubblicato il saggio Homecoming: The Path to Prosperity in a Post-Global World: “Il patto «capitale a buon mercato per manodopera a basso costo» concluso tra gli Stati uniti e l’Asia dagli anni ‘80 in poi ha avvantaggiato le multinazionali e lo Stato cinese molto più di qualsiasi altra entità”. E ancora: “L’idea era che i prezzi al consumo più bassi dei beni importati avrebbero compensato salari più bassi. Non è successo e la classe media si è impoverita velocemente. Da qui il populismo e gli attuali estremismi politici”. E ora? Per Foroohar, il «new normal» sarà un diverso e più giusto equilibrio fra globale e local.

mercoledì 26 ottobre 2022