Decidiamo oggi per un domani sostenibile

La non resistibile ascesa del debito globale

Di fronte alla crisi recessiva senza precedenti causata dalle chiusure imposte dalla pandemia, tutti i Paesi, avanzati ed emergenti, hanno dovuto varare massicci provvedimenti fiscali e monetari di sostegno. Generando così livelli crescenti di indebitamento che potranno rappresentare un rischio futuro per gli Stati e un peso per la crescita. 30/11/20

di Emilio Rossi

 

La pandemia del Covid-19 ha comportato forti limitazioni sia alla libertà individuale sia alla produzione in quasi tutti i Paesi del mondo. La crisi economica si è conseguentemente sviluppata sia come crisi di domanda sia di offerta. I dati pubblicati da tutti gli istituti di statistica registrano contrazioni nell’attività economica senza precedenti nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Le misure di policy adottate da parte delle autorità sia monetarie che fiscali sono state ampie e tempestive, pur se con efficacia immediata diversa a seconda dei Paesi e dei settori. Molto si dibatte, anche aspramente, sulle conseguenze che le misure monetarie e fiscali avranno nel medio-lungo termine e su quale nuovo modello di sviluppo occorrerà perseguire.

Su un tema esiste invece concordanza di aspettative: l’esplosione del debito, sia pubblico che privato. La preoccupazione per la sostenibilità dei livelli di debito che saranno raggiunti in seguito alla pandemia è condivisa dai policy maker come da analisti ed esperti di finanza pubblica, anche in considerazione del trend pre-Covid del debito. Permangono invece i punti interrogativi su quali policy saranno necessarie per ricondurre gli elevati livelli di debito entro valori sostenibili (o che possano essere considerati tali dai creditori).

 

Trend storico e attese

Secondo le stime dell’Institute of International Finance (Iif) l’indebitamento globale aveva già raggiunto nel 2019 il livello di 255 trilioni di dollari, il più alto di sempre e pari al 322% del PIil mondiale, un rapporto debito/Pil più alto del 40% rispetto al 2007 - ossia prima della crisi finanziaria - e in aumento del 4,5% rispetto al 2018. Le economie emergenti hanno contribuito all’aumento del debito rispetto all’anno precedente per circa un terzo raggiungendo un nuovo picco del 220% del Pil dell’area emergente. I Paesi avanzati dal canto loro continuano ad acuire significativamente la dipendenza delle loro economie dalla leva finanziaria, con un debito complessivo addirittura pari al 383% del Pil.

La composizione del debito globale per settore nel 2019 ha visto il debito pubblico crescere più degli altri settori (+4,3 trilioni di dollari rispetto al 2018), in linea con una tendenza che risale al periodo post crisi 2008 (figura 1). Questa tendenza è certamente destinata a continuare e anzi ad aggravarsi tra il 2020 e il 2021.

 

Figura 1

Evoluzione del debito globale per settore

(in % del PIL)

 

Fonte - IIF Global Debt Monitor

 

Con la pandemia i governi si sono trovati di fronte alla necessità di intervenire a supporto delle attività produttive, dell’occupazione, dei redditi duramente colpiti dai lockdown - e quindi anche della tenuta del sistema bancario, snodo cruciale dell’intera architettura economica di un Paese. Questi interventi statali non potevano che essere finanziati a debito. Varie stime sono state fatte per valutare l’impatto sui conti pubblici degli interventi adottati o annunciati.

Secondo una stima fatta dal Fmi ad aprile 2020, il debito pubblico globale sarebbe atteso raggiungere un record storico, oltrepassando il 100% del Pil nel 2020-21 e con un incremento di circa il 20% rispetto al 2019.

Una stima più recente per i più rilevanti Paesi Ocse è stata fatta da Oxford Economics (figura 2). Il peggioramento del rapporto debito pubblico/Pil per tali Paesi varia nella maggior parte dei casi intorno al 20-25% (con l’eccezione della Germania), nell’ipotesi benigna di assenza di una seconda ondata della pandemia. Nel caso invece si verificasse una seconda ondata, l’aspettativa è che il rapporto debito/Pil peggiori in media di un ulteriore 10-15%.

 

 Figura 2

Variazione Debito pubblico/Pil 2019/2021

 

 

Come evidenziato nella figura 1, anche il settore delle imprese non-finanziarie risultava fortemente esposto al rischio debito già nel 2019, sia per la dimensione rispetto al Pil che per l’aumento registrato dopo la crisi finanziaria del 2008. Inevitabilmente, nel 2020 con la crisi dovuta al coronavirus l'indebitamento aziendale sta accelerando ulteriormente. La crisi indotta dai lockdown sta portando a un forte allungamento delle scadenze delle linee di credito bancarie (reso possibile dai programmi di finanziamento delle banche centrali al sistema bancario) e lo stesso schema è visibile per il debito obbligazionario delle imprese non finanziarie. Sia i prestiti bancari alle imprese che le emissioni di obbligazioni societarie hanno mostrato molta vitalità negli ultimi mesi nelle economie avanzate. Oxford Economics ha stimato che l'indebitamento globale delle imprese rispetto al Pil potrebbe salire di oltre il 10% nel 2020 (figura 3). La crisi del coronavirus potrebbe anche enfatizzare alcuni rischi preesistenti anch’essi legati al debito delle imprese, la cui composizione negli ultimi anni si era spostata verso il debito a basso rating come conseguenza dell’appetito degli investitori alla ricerca di tassi di rendimento più elevati di quelli decisamente contenuti prevalenti sui mercati dominati dagli effetti dei vari QE.

 

Figura 3

Debito globale delle imprese non-finanziarie

 

Fonte: Oxford Economics/Haver Analytics

 

Nella situazione attuale, un aumento dell'indebitamento delle imprese può rappresentare un segnale positivo in quanto indica che le imprese stanno attingendo a linee di credito bancarie, a schemi di prestiti governativi e ad altre fonti per ottenere quel flusso di cassa necessario a superare le conseguenze dei lockdown.

Ma un aumento eccessivo del debito delle imprese comporterebbe rischi considerevoli, soprattutto se la ripresa si dimostrasse lenta e disomogenea. In un loop potenzialmente perverso, due risulterebbero essere gli effetti particolarmente gravi: 1) a partire dal momento in cui le imprese dovranno affrontare un lungo e doloroso periodo di risanamento dei loro bilanci, si avrebbe un impatto negativo su investimenti e produttività, con riflessi pesanti su crescita e occupazione; 2) i crescenti default delle imprese finirebbero per deteriorare i bilanci delle banche, soprattutto in Europa (e ancor più in Italia) dove il principale canale di credito delle imprese è costituito proprio dal sistema bancario.

Nonostante i miglioramenti dei ratio bancari degli ultimi anni, le perdite dovute al mancato recupero dei crediti potrebbero mettere in ginocchio le banche più esposte, al cui soccorso non potrebbero esimersi i Governi, con conseguente ulteriore minaccia per il livello dei debiti pubblici. Peraltro, nonostante l'assistenza dei Governi, i default delle imprese a basso rating hanno già preso ad aumentare negli ultimi mesi e i prezzi degli immobili commerciali sono segnalati generalmente in calo. Con una qualità decrescente del debito globale alle imprese (bassi rating) e con l’attività economica in forte recessione, il pericolo derivante dall’escalation del debito delle imprese è che si innesti un ciclo del credito simile o più profondo di quello dell’inizio degli anni 2000, con l’eccesso di indebitamento delle imprese ad amplificare la già traballante ripresa attesa nei prossimi anni.

 

Sostenibilità del debito

Dato questo quadro preoccupante dell’evoluzione passata e attesa dei livelli di debito, per fare ipotesi ragionevoli sulla sostenibilità del debito, sia esso pubblico o privato, occorre tenere presente come esso interagisca con gli elementi portanti del sistema economico quale lo conosciamo oggi e il quadro degli strumenti di policy disponibili.

Innanzitutto, occorre tenere ben presente che il debito è connaturato con lo sviluppo degli scambi e che esso presenta aspetti di asimmetria con il suo corrispettivo (il credito) e che il suo impatto dipende dall’uso che ne viene fatto.

 

  • Asimmetria tra debito e credito

Debito e credito sono due facce della stessa medaglia del finanziamento dell’attività economica. A un debito corrisponde sempre un credito e per ogni debitore (o creditore) esiste almeno un creditore (o almeno un debitore). Il debito netto globale è per definizione nullo, così come lo è il credito netto – per l’osservatore poco attento il problema della sostenibilità del debito potrebbe essere considerato inesistente.

In realtà, l’impatto del debito sull’attività economica può essere molto più negativo, e a volte nefasto, di quanto sia positivo l’impatto del credito. Il fallimento della Lehman Brothers finì per bloccare l’intero sistema finanziario globale per vari mesi, e la disponibilità di credito globale non potè far nulla per evitare tale blocco. Il fallimento di un’azienda si ripercuote pesantemente sui fornitori e sui dipendenti, mentre una corrispondente posizione creditizia dell’impresa (ossia significativamente superiore ai suoi piani di investimento) può determinarne al massimo la distribuzione di dividendi e una elevata valutazione azionaria.

Inoltre, l’asimmetria tra debito e credito si esplica nel fatto che un ente economico in equilibrio complessivo tra attività e passività possa essere esposto a crisi di liquidità (e, ove tale crisi di liquidità fosse protratta nel tempo, addirittura a rischio insolvenza e fallimento), a seconda della rispettiva distribuzione temporale e/o della difficoltà di riscuotere i propri crediti. Questa asimmetria di comportamento fa sì che il debito diventi uno dei principali fattori di rischio per un sistema economico così come per una impresa.

 

  • Debito buono e debito cattivo

La valutazione dell’impatto del debito, sia nel breve che nel lungo termine, è resa complessa dal fatto che il debito, in dosi ragionevoli, rappresenta un volano imprescindibile dell’economia così come essa si è sviluppata nel corso degli ultimi secoli. Approntare un piano di investimenti, siano essi pubblici o privati, senza ricorrere al debito è pressochè impossibile, anche per imprese o Stati con risorse proprie di dimensione significativa (fanno eccezione solo i Paesi con grandi risorse naturali, particolarmente di idrocarburi, anche se nel lungo termine il vincolo del debito si ripropone anche per loro).

Il meccanismo di trasmissione all’economia dell’asimmetria indicata nel paragrafo precedente dipende anche dalla propensione al consumo e all’investimento di debitori e creditori. All’aumentare del livello di indebitamento, il debitore tenderà a ridurre i propri consumi o per misura prudenziale o perché obbligato, mentre il creditore può non avere motivo di spendere il suo credito crescente. L’asimmetria di comportamento tra debitore e creditore indurrà, quindi, non solo una riallocazione nella distribuzione della ricchezza ma anche tra spesa per consumi, investimenti produttivi e investimenti finanziari.

Oltre un certo livello il debito diventa un elemento progressivamente meno positivo e poi negativo fino a diventare un ostacolo alla capacità di investimento, innovazione e crescita dell’investitore, minandone la sostenibilità (con aumento esponenziale del rischio di insolvenza).

Una gestione attenta alla sostenibilità del debito (sia privato che pubblico) consente al debitore di ottenere rating migliori e di rifinanziare nel tempo il debito stesso. Semplificando, gli elementi principali che determinano la qualità del debito sono la sua durata, il livello dei tassi di interesse a cui si è ottenuto il credito e la validità dei piani di investimento in grado di migliorare produttività e reddito del debitore (privato o pubblico che sia). Tali fattori, insieme ad altri sull’affidabilità della posizione economico/finanziaria del debitore - ricchezza, profittabilità, competitività, prezzi, stabilità del cambio, ecc. - trovano la loro sintesi nei rating delle agenzie specializzate che rappresentano una proxy della fiducia dei creditori, l’elemento determinante sia per la capacità di emettere debito sia per la sua sostenibilità nel tempo.

 

Debito post Covid: che fare?

Con il debito post Covid atteso a livelli senza precedenti (come indicato nel primo paragrafo), il punto interrogativo è proprio sul mantenimento della fiducia degli investitori nella sostenibilità del debito degli agenti economici maggiormente indebitati (governi, imprese, famiglie, banche). Il comportamento molto accomodante attuale e atteso delle banche centrali, con acquisti di debito pubblico senza precedenti e finanziamenti al settore bancario a tassi intorno allo zero per cento, ha consentito e consentirà per vari anni agli emittenti del debito di pagare interessi molto contenuti e a investitori e mercati di guardare con fiducia alla capacità dei loro debitori di rifinanziare il loro debito.

Vari studi hanno tentato di quantificare quale sia l’intervallo al di sopra del quale il debito (pubblico e/o privato) rischi di divenire un limite alla crescita e identificato tale intervallo tra l’85% e il 95% del Pil (per i Paesi avanzati). Fortunatamente, l’esperienza concreta di molti Paesi con debiti superiori non sembra supportare l’ipotesi che esista un valore “definibile” in tutte le situazioni, mentre alcuni studi confermano l’esistenza di una relazione inversa di lungo termine tra debito e crescita e che la traiettoria del debito può essere importante tanto quanto il livello. Altri studi mostrano come nella relazione tra debito pubblico e crescita non sia dimostrabile quale dei due sia causa dell’altro. 

In ogni caso, una relazione inversa tra debito e crescita è confermata esistere e policy maker e aziende sono ben coscienti dell’importanza della sostenibilità del debito che sono chiamati a gestire. A fronte degli imponenti interventi fiscali e monetari messi in atto da marzo 2020 in poi, occorre chiedersi quale possa essere un percorso di rientro che eviti un loop negativo tra scarsa crescita ed elevati debiti. L’equilibrio di tale percorso avrà riflessi importanti sulla tenuta del sistema bancario che dovrà ridurre progressivamente la quota di crediti in sofferenza e migliorare i ratio patrimoniali che ne definiscono l’affidabilità.

In prospettiva futura, una volta superata la crisi Covid, sarà inevitabile a) per i governi ridurre progressivamente il deficit pubblico, in molti casi producendo surplus di bilancio primario (ossia al netto degli interessi); b) per le banche centrali operare una “normalizzazione” delle politiche monetarie. I massicci Quantitative Easing da esse operati nel 2020, insieme ai loro indubbi meriti nel fronteggiare una emergenza epocale, hanno promosso l’accesso alla leva finanziaria e incentivato la creazione di bolle sui prezzi degli asset finanziari e immobiliari.

Per quel che riguarda il primo punto, in un paper pubblicato dall’Imf (“Public debt through the ages”), Eichengreen e altri hanno analizzato la storia del debito pubblico sin dalle sue origini, identificando vari casi in cui una oculata gestione del percorso di rientro da livelli elevati di debito ha consentito di evitare gravi crisi economiche e/o finanziarie. Tuttavia, il comun denominatore di questi casi appare essere una forte credibilità del Paese emittente sui mercati internazionali congiunto a una stabilità della moneta del Paese emittente. Allo stato attuale, alcuni grandi Paesi presentano tali caratteristiche: Usa, Cina, Eurozona, Canada, Regno Unito - quest’ultimo al netto di eventuali effetti esplosivi di una Hard Brexit – e alcuni Paesi “minori” come Svizzera, Sud Corea e altri. La dimensione di questi Paesi o aree relativamente all’economia mondiale è tale da minimizzare il rischio di una crisi sistemica globale nel percorso di rientro dal debito pubblico ove esso sia gestito in maniera appropriata.

Tra gli elementi che definiscono una “gestione appropriata” del debito pubblico va considerata la persistenza nel tempo del già menzionato surplus primario, con elementi di austerity non distruttiva della coesione sociale e allo stesso tempo di abbandono di politiche mirate al consenso elettorale. Nel giro di qualche anno, il taglio di spese pubbliche non essenziali appare inevitabile e soprattutto risulterebbe essere meno recessivo di aumenti di tasse. Per di più la maggior parte dei Paesi avanzati prima del Covid presentava saldi primari negativi (in deficit) - con l’eccezione di Paesi Bassi, Germania e Italia - il che rende per la maggior parte dei Paesi ancora più complesso l’obiettivo di raggiungere surplus primari.

Allo stesso tempo, appare ormai condiviso un approccio che ponga enfasi non solo su surplus primari ma allo stesso tempo su più elevati tassi di inflazione (ove il debito sia stato emesso a tasso fisso e con scadenze lunghe) e su crescita dell’attività economica.

Questi due elementi appaiono però più complessi da mettere in moto. Un po' ovunque l’inflazione è ferma sui suoi minimi storici e le politiche monetarie super espansive degli ultimi dieci anni non sono riuscite a risollevarla. Fiumi di inchiostro sono stati versati per spiegare le ragioni di questa resistenza verso il basso dell’inflazione, con motivazioni che vanno dall’utilizzo di manodopera a basso costo nei Paesi emergenti alla fine della curva di Phillips, dall’avvento delle nuove tecnologie alla debolezza della domanda globale dovuta all’invecchiamento della popolazione – tutti elementi che non scompariranno nei prossimi anni e, anzi, saranno forse esacerbati dalla crisi Covid. La ripresa dell’inflazione come metodo per “bruciare” il valore reale del debito appare dunque essere una strada ai limiti dell’illusorio, nonostante le mosse recenti delle banche centrali, Federal Reserve in primis.

L‘accelerazione della crescita dell’attività economica pur se apparentemente più semplice, è condizionata dall’adozione di misure di policy non facili da implementare, soprattutto dal punto di vista del consenso politico. Il prezzo politico da pagare è collegato alle riforme atte a spostare strutturalmente risorse da usi improduttivi (assistenziali) a investimenti in digitalizzazione, tecnologia, formazione delle risorse umane che possano spingere la produttività complessiva del sistema economico e farlo uscire dalla trappola della stagnazione secolare. Tra queste riforme in molti Paesi ci sono soprattutto quella del sistema pensionistico e anche (probabilmente in un periodo successivo) quella del sistema sanitario – che risentono entrambe delle problematiche legate all’invecchiamento della popolazione.

Altre riforme sono in grado di rendere più dinamico un sistema economico. In alcuni Paesi, come l’Italia, il Giappone, la Cina, l’India, alcuni mercati sono bloccati da eccessiva regolamentazione, come ad esempio quello del lavoro o quelli di alcuni servizi e della Pubblica Amministrazione - che nel caso dell’Italia richiederebbe una riforma radicale connessa alla digitalizzazione e alla formazione delle risorse umane.

Per quel che riguarda il secondo punto, nei prossimi anni, forse a partire dal 2022 o dal 2023, il processo di normalizzazione delle politiche monetarie dovrà essere molto attento agli effetti del processo di deleveraging, sia sulle strutture economiche che sulle bolle dei prezzi degli asset, la cui esplosione renderebbe ancora più complessa la ripresa economica. Inoltre, a fronte dell’aumento atteso dei tassi di interesse nei Paesi avanzati, è probabile si verifichi una flight-to-quality dei capitali finanziari dai Paesi emergenti verso i Paesi avanzati. I Paesi emergenti afflitti da debito e squilibrio delle partite correnti – come Turchia, Brasile, Argentina, Indonesia, Venezuela – potrebbero trovarsi in seria difficoltà e l’ipotesi di ulteriori default appare plausibile. Queste crisi potranno essere gestite in modo da circoscriverne gli effetti ai Paesi eventualmente coinvolti. Più complesso invece sarebbe evitare una crisi sistemica a partire da un default di uno Stato di grosse dimensioni come ad esempio lo Stato italiano.

 

Conclusioni

La situazione post-Covid sarà caratterizzata a livello globale da alti livelli di indebitamento sia pubblico che privato. Gli imponenti interventi fiscali e monetari messi in opera dalle autorità preposte stanno aiutando a superare la crisi economica e a prevenirne una eventuale finanziaria. Allo stesso tempo, tali interventi pesano e peseranno sul livello di indebitamento di tutto il sistema economico e produttivo, finendo per costituire un freno alla crescita. I tempi con cui si avvierà un processo di “normalizzazione” di tali politiche dipenderanno da fattori legati alla pandemia (seconda ondata di contagi, disponibilità di vaccini e/o trattamenti di cura, ecc.). In ogni caso dal punto di vista della gestione dell’economia e del debito, il momento più delicato sarà quello in cui il consenso sul mantenimento di politiche espansive lascerà il posto alla necessità di avviare un percorso di ridimensionamento del debito che rassicuri mercati e investitori.

Con tutta probabilità tale percorso sarà basato sul combinato disposto di contenimento dei deficit primari, tentativo di rialzare l’inflazione e capacità di rilanciare la crescita tramite investimenti e riforme che rilancino la produttività. Fondamentale sarà il contributo che si riuscirà a ottenere con le nuove tecnologie e con una lotta al cambiamento climatico rispettosa anche delle esigenze della crescita.

 

di Emilio Rossi è senior advisor di Oxford Economics e presidente di EconPartners. Dopo alcuni anni al Cnr, è stato senior economist al Centro Studi Eni. Successivamente ha svolto incarichi apicali in Standard&Poor’s/DRI (Managing director South Europe, Managing Director Europe) e in Global Insight come Managing director consulting services. Ha contribuito a numerosi progetti della Commissione Europea. È autore di numerose pubblicazioni, scrive su giornali e riviste specializzate e tiene seminari presso la Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio.

 Questo articolo è stato pubblicato su Harvard Business Review di novembre 2020, nello studio dal titolo Progetto Macrotrends 2020-2021, “Oltre la crisi. Disegnare il nuovo mondo”.

lunedì 30 novembre 2020