Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Per uno sviluppo sostenibile dobbiamo affidarci all'etica della "we-rationality"

La pandemia ci sta mettendo di fronte ad un’evidenza, quella dell’avere bisogno gli uni degli altri. E questo vale per la salute, per l’economia, per la terra che ci ospita. Il sistema economico e produttivo, e il sistema degli scambi sono una grande opera collettiva di cooperazione. 26/10/20

di Suor Alessandra Smerilli

 

 

 

 

 

È una tragedia quando le persone

fanno le scelte più vantaggiose per loro

e finiscono dove non vorrebbero

a causa degli effetti aggregati

che emergono perché gli altri fanno lo stesso.

Questa non è la tragedia dei beni comuni,

ma la tragedia dell’individualismo isolato 

(Schmid 2004[1])

 

1. La lezione dell’Isola di Pasqua

Nel corso dei secoli diverse civiltà, piccole e grandi, si sono estinte. Popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi, a volte in pochi anni, lasciandoci come testimonianza solo reperti archeologici. Il filo rosso che lega l’ascesa e l’estinzione di quasi tutte le civiltà coinvolte è dato da problemi ecologici, e cioè dai danni che queste civiltà hanno provocato alle risorse naturali da cui dipendevano. È famoso il caso degli abitanti dell’isola di Pasqua, come riportato nel libro “Collasso” del geografo Jared Diamod[2], l’episodio più eclatante di deforestazione del pacifico, che in pochi anni ha portato all’estinzione degli abitanti a causa della perdita di materie prime, di fonti alimentari e di produzione agricola. Cosa è capitato in questa isola? In essa erano presenti circa 12 clan diversi, che facevano a gara, inizialmente in modo pacifico, poi sempre più violento, cercando di costruire statue in pietra più belle e più alte, per ingraziarsi gli dei. Fin qui nulla di problematico, se non fosse che per poter costruire le statue dovevano trasportare grossi massi, e per farlo avevano bisogno di imbarcazioni e di binari in legno che facessero proseguire le imbarcazioni anche in terra ferma. Ciò vuol dire grandi quantità di legname. L’isola di Pasqua si è autodistrutta a causa dello sfruttamento eccessivo delle proprie risorse: tutti i suoi alberi sono stati tagliati. Come si spiega tutto ciò? Come può un gruppo di persone non prevedere il problema? O prevederlo e non arrestare le pratiche dannose? Gli studi e le esperienze insegnano che il problema non è il taglio dell’ultimo albero, ma il superamento di una soglia critica: solitamente non ci si accorge del pericolo, perché esso si manifesta gradualmente, e quando cominciamo a vedere i danni è ormai troppo tardi. E presi dalla paura cerchiamo di accaparrarci tutto quello che si può per non essere i primi a rimanerne senza.

Cosa possiamo imparare dall’Isola di Pasqua?

 

1.1. La tragedia dei beni comuni

Il biologo G. Hardin, nel 1968 pubblicò un articolo dal titolo “The tragedy of commons”[3], ponendo all’attenzione degli studiosi un problema che da quel momento in poi ha popolato i libri di economia. Il tema è quello della gestione dei beni collettivi o comuni, beni di cui tutti possono usufruire proprio perché comuni, come i pascoli, o i laghi, o le risorse naturali. L’esempio che Hardin riporta nel suo articolo è proprio quello di un pascolo. Immaginiamo dei pastori che fanno pascolare le loro pecore in un pascolo comune. Se tutti sfruttano eccessivamente il prato portando troppe pecore al pascolo e troppo spesso, il pascolo si impoverirà e tutti ne avranno problemi. L’interesse di tutti sarebbe dunque quello di porre dei limiti allo sfruttamento. Ma se guardiamo al problema dal punto di vista individuale, c’è sempre l’incentivo ad aumentare le unità di pecore al pascolo, in quanto il beneficio è per sé, mentre i costi della riduzione dei pascoli sono inferiori perché si ripartiscono tra tutti i pastori.

In secondo luogo nessuno tende da solo a limitarsi, pensando che se non porterà lui le pecore al pascolo lo farà qualcun altro. Siamo in un vero e proprio dilemma: se gli altri si limitano ho incentivo a non farlo, per sfruttare al meglio le opportunità, e se gli altri non si limitano a maggior ragione è meglio che abbia anche io la mia parte. Se tutti ragionano nello stesso modo si arriverà presto all’esaurimento del pascolo. È purtroppo quello che capita nella gestione di tanti beni comuni. Ma non dappertutto e non sempre. Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, ha condotto le sue ricerche, in gran parte empiriche, proprio sulla gestione dei beni collettivi e ha riscontrato una grande capacità di cooperazione e di collaborazione nel prendersi cura dei beni comuni, più di quanto la teoria preveda. C’è qualche problema nella teoria? Quella teoria che pur ci plasma nei nostri studi di economia? “Al centro della spiegazione della frequenza del comportamento cooperativo, a livelli più alti di quelli previsti nella maggior parte delle questioni sociali, vi sono la fiducia che gli individui hanno negli altri, l’investimento che gli altri faranno nella reputazione e, infine, la probabilità che i partecipanti useranno norme reciproche”.[4]

In particolare, una gestione cooperativa dei beni comuni può aver luogo solo quando coloro che ne usufruiscono appartengono ad un gruppo omogeneo, si fidano gli uni degli altri, si aspettano di poter condividere i beni con la propria discendenza, e possono organizzarsi per sorvegliare loro stessi i beni comuni. L’ho visto di persona nella strabiliante e meravigliosa laguna del Delta del Po.

 

2. Cosa ci ha rivelato la pandemia?

L’importanza dei beni comuni, ma anche del bene comune si è resa più evidente con la pandemia.

Abbiamo capito che nessuno può farcela da solo: pur nell’incertezza del tempo che stiamo vivendo, pur nella difficoltà di interpretare quello che accade e fino a quando durerà, e come ci vedrà cambiare, appare evidente che solo insieme se ne potrà uscire. La pandemia ci sta mettendo di fronte ad un’evidenza, quella dell’avere bisogno gli uni degli altri. E questo vale per la salute, per l’economia, per la terra che ci ospita. Il sistema economico e produttivo, e il sistema degli scambi sono una grande opera collettiva di cooperazione. Ora l’espressione bene comune, che sembrava stesse cadendo in disuso, riacquista tutta la sua pregnanza. Spesso considerata come un qualcosa di lontano, che riguarda molti, ma forse non me: troppe volte ‘lavorare per il bene comune’ è stato inteso come fare qualcosa per gli altri, senza comprendere che mentre faccio qualcosa per la collettività, lo faccio anche per me. Oggi di fronte a un male collettivo comprendiamo a livello esistenziale che nel bene di noi-tutti c’è anche il mio bene. Comprendiamo in modo diverso e nuovo anche l’etimologia del termine “comune”: cum-munus. Cum vuol dire con, insieme, e munus è al tempo stesso obbligo, dovere, ma anche regalo e dono. Allora il bene comune si può sperimentare solo insieme ed è al tempo stesso un compito e un dono. I comportamenti collettivi che l’emergenza sanitaria ci sta chiedendo sono un mattoncino di bene comune, sono un dovere, ma anche un dono che facciamo a noi stessi e agli altri, e gli altri a noi. Sono un modo concreto di prenderci cura gli uni degli altri. “Il bene comune richiede la partecipazione di tutti. Se ognuno ci mette del suo, e se nessuno viene lasciato fuori, potremo rigenerare relazioni buone a livello comunitario, nazionale, internazionale e anche in armonia con l’ambiente (cfr LS, 236)” (udienza 9 settembre Papa Francesco). Ecco l’etica di cui abbiamo bisogno: che ognuno si senta portato a fare la propria parte, sentendoci tutti parte di un bene più grande, e per questo è necessario che nessuno venga lasciato indietro.

 

3. La we-rationality

È possibile parlare di bene comune anche nei ragionamenti economici? Se la razionalità economica rimane quella dell’individualismo isolato tutto ciò che ha a che fare con i beni collettivi e con il bene comune, tutto quello che riguarda la cooperazione, rimane sempre un’eccezione all’interno dei ragionamenti economici. La cooperazione nella gestione dei beni collettivi rimarrà sempre un’eccezione da dimostrare… perché la teoria economica non la prevede. Una proposta che da alcuni anni sta emergendo è quella della we-rationality. La razionalità del noi o we-rationality, è un tentativo di ridefinire la prospettiva con cui il problema del comportamento cooperativo viene presentata. Si tratta, in altre parole, di modificare gli assi cartesiani su cui si poggia l’idea di razionalità utilizzata dai modelli economici. Come scrive uno dei primi esponenti di questo approccio, ciò che conta non è come il soggetto concepisce l’oggetto della scelta o le sue conseguenze, ma come il soggetto percepisce se stesso e gli altri con cui viene in relazione.

Se, ad esempio, fossimo capaci di vederci insieme all’altro come parte di un ‘noi’ più grande, non esisterebbe più alcuna tragedia. Se mi metto davanti al problema di decisione chiedendomi non ‘cosa è meglio per me?’, ma ‘cosa è meglio per noi?’, allora vedo subito che per noi è meglio collaborare. Infatti, supponendo che chi si sente parte di un ‘noi’ più grande non guarda solo al proprio risultato, ma a quello di tutti, allora è facile vedere come ‘collaborare’ sia l’opzione che meglio risponde alla domanda: ‘cosa è meglio per noi?’. La domanda cruciale, però, è: come è possibile favorire il senso del noi, come può scattare questo modo di vedere le situazioni all’interno di un’organizzazione, in una collettività? Ci sono caratteristiche che favoriscono questo modo di ragionare e caratteristiche che invece lo inibiscono. Per esempio, una caratteristica che lo favorisce è che in una situazione ci sia una soluzione che è chiaramente migliore per tutti, rispetto ad altre situazioni, oppure una soluzione che appare come ‘unica’ rispetto alle altre. L’identificazione di gruppo è anche favorita quando non c’è troppa differenza tra i benefici individuali individuali legati ad una scelta.

 

La we-rationality è un tentativo, scientificamente fondato, di uscire dal monadismo dell’homo oeconomicus. Un tentativo che merita di essere esplorato per dare ragione di un io in relazione anche nel ristretto ambito della scienza economica. In fondo tutta la scienza economica si è fondata sulle scelte dei singoli: “Se comprendi l’individuo, avrai compreso tutto” della scienza economica e del mondo, sostiene Katrine Marçal[5], criticando l’impostazione dominante del pensiero economico: la società è semplicemente una somma di individui, essi interagiscono, ma non si incontrano. Come le palle da biliardo. Le interazioni possono modificare le scelte, ma non la coscienza di sé. Questa semplificazione della realtà ha reso la scienza economica molto attraente, l’ha messa in grado di poter dare spiegazioni semplici a problemi complessi. Certo, negli ultimi anni numerosi sono stati i tentativi di portare Venerdì nell’isola economica di Robinson Crusoe, ma l’impostazione di fondo è rimasta sempre quella dell’individualismo metodologico. Si possono rendere le preferenze più sociali, ma alla fine quello che rimane è sempre l’individuo con la sua funzione di utilità. La we-rationality è un tentativo di andare oltre. È ambizioso, e dunque a molti sembra esotico, ma può spiegare una parte di realtà, e può farlo a partire da un essere in relazione.

 

4. Conclusioni

Il pensiero in questi giorni ha bisogno di andare oltre, e di provare a guardare a quando tutto pian piano ripartirà: riusciranno l’economia, la finanza e i mercati ad essere all’altezza di una nuova comprensione del bene comune? Già nel Quattrocento la scuola francescana di economia invitava a guardare alle imprese come quei luoghi e quelle attività che devono dimostrare alla collettività di non sottrarre ricchezza al bene comune. Ora che stiamo capendo sulle nostre vite e su quelle dei nostri cari cosa vuol dire non sottrarre ricchezza al bene comune, per potersene servire quando ne abbiamo bisogno, forse possiamo far tesoro di questa esperienza nel pensare le imprese del futuro. Un’impresa non può e non deve essere uno strumento per far arricchire qualcuno a scapito di altri. Un’impresa è affidata in custodia a chi deve farla funzionare al meglio, perché sia a servizio di tutta la collettività e tutta la collettività deve poterne valutare il suo operato alla luce degli effetti su bene comune. Avremo un’economia più equa e più giusta quando gli indici di borsa inizieranno a variare in base a quanto le società saranno considerate a servizio della collettività. Quando gli effetti sull’ambiente delle loro azioni non saranno considerati una mera esternalità. E anche quando i profitti verranno naturalmente ripartiti in quote investite per far migliorare le aziende, in progetti di sviluppo e a servizio della collettività, oltre che nella remunerazione degli azionisti. Vogliamo preparare un mondo in cui le persone più stimate socialmente, quelle con cui in molti vorrebbero farsi ritrarre in un selfie, siano quelle che quotidianamente lavorano con l’intento di prendersi cura di sé e degli altri. Se qualcosa di tutto questo accadrà, la pandemia non sarà passata invano.

Questa sessione mattutina affronta il tema della trasformazione nel segno dello sviluppo sostenibile.  E quando si parla di sviluppo sostenibile non si può non menzionare l’ambizioso programma delineato dalla Nazioni Unite, la cd. Agenda 2030, adottata nel 2015 e di cui celebreremo tra pochi giorni (il 25 settembre ndr) il quinto anniversario. Il 2015 è tra l’altro anche l’anno dell’adozione dell’Accordo di Parigi sul Clima (cd. Paris Agreement) ed è anche l’anno di pubblicazione della Laudato Sì, di cui abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario appunto. File rouge: conversione ecologica necessaria per non lasciare nessuno indietro.

Ora, come ricorda spesso il Papa, è tempo di “concretezza”, di passare dalle celebrazioni alla messa in atto di questi ambiziosi programmi.

 

[1] Schmid A. (2004), Conflict and Cooperation. Institutional and Behavioral Economics, Blackwell.

[2] Diamond J. (2005), Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi.

[3] Hardin G. (1968), “The tragedy of commons”, Science New Series, Vol. 162, No. 3859, pp. 1243-1248.

[4] Ostrom E. (2006), Governare i beni collettivi, Marsilio.

[5] Marçal Katrine (2016), I conti con le donne. Come gli economisti hanno dimenticato l’altra metà del mondo. Ponte alle grazie, Adriano Salleni Editore.

 

di Suor Alessandra Smerilli, professore ordinario presso la PFSE Auxilium.

Questo testo è stato presentato all’evento di apertura del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2020 organizzato dall’ASviS.

 

lunedì 26 ottobre 2020