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Sviluppo sostenibile: i costi dell’inazione

Sembra mancare una volontà comune per affrontare le sfide globali, in particolare, sul tema dei cambiamenti climatici. Ma cambiare, per quanto costoso, è possibile.

di Enrico Giovannini

8 giugno 2020

A cinque anni dalla firma, da parte dei 193 Paesi delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 e dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs nell’acronimo inglese), sembra consolidarsi, in tutto il mondo, la consapevolezza della necessità di adottare un approccio integrato per affrontare le complesse questioni economiche, sociali, ambientali e istituzionali necessarie per realizzare la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile. A fronte di questa maggiore consapevolezza delle opinioni pubbliche, il mondo mostra significativi segnali di avanzamento sul piano economico e su alcuni aspetti sociali, ma anche un preoccupante deterioramento della situazione ambientale e di alcune dinamiche sociali e politiche, puntualmente evidenziate dai sempre più numerosi rapporti delle organizzazioni internazionali e dei centri di ricerca.

Proprio la ricchezza e la molteplicità dei rapporti elaborati e la quantità di iniziative globali per transitare a uno sviluppo sostenibile in un’ottica globale confermano l’attenzione senza precedenti che viene posta sull’attuazione dell’Agenda 2030 da parte di organizzazioni della società civile, imprese, intermediari finanziari, amministrazioni e comunità locali. Basti ricordare, a titolo esemplificativo, la mobilitazione dei giovani dei Fridays For Future orientata a sollecitare un’azione più incisiva nella lotta ai cambiamenti climatici per comprendere quanto le nuove generazioni, ma non solo, mostrino un interesse profondo per la questione dello sviluppo sostenibile.

La consapevolezza dei rischi globali derivanti dall’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo emerge chiaramente dal Global Risks Report 2019 del World Economic Forum, il quale si apre con queste parole: “Il mondo come un sonnambulo verso la crisi? I rischi globali stanno aumentando ma manca la volontà collettiva di affrontarli”. Realizzato sulla base di un sondaggio che ha coinvolto quasi mille tra decisori politici pubblici, privati, accademici e della società civile, il Rapporto descrive un mondo sempre più preoccupato per le tensioni politiche, per la situazione macroeconomica e per i disastri ambientali; un mondo che sa perfettamente di andare alla deriva ed è consapevole del fatto che manca la volontà comune per affrontare le sfide globali. Per molte persone intervistate, viviamo in un mondo sempre più ansioso, infelice e solitario. La rabbia aumenta e l'empatia sembra in declino. I rischi ambientali continuano a dominare i risultati del Global Risks Report: le condizioni meteorologiche estreme rappresentano il rischio di maggiore preoccupazione, ma molti degli intervistati sono sempre più preoccupati per il fallimento della politica ambientale a livello globale.

In tale quadro torna a far discutere il tema demografico. La popolazione mondiale, che fino al 1820 è rimasta sotto il miliardo di persone, continua a crescere rapidamente, come evidenziano i Population prospects 2019 dell’ONU. Secondo l’ipotesi più attendibile, la popolazione mondiale passerà dai 7,7 miliardi di quest’anno a 8,5 miliardi nel 2030, per poi crescere a 9,7 miliardi nel 2050 e a 10,9 miliardi nel 2100. Ovviamente, le dinamiche della popolazione saranno molto diverse da una regione all’altra: l’Europa passerà dagli attuali 748 milioni a 710 nel 2050, mentre l’Africa quasi raddoppierà, da 1,3 a 2,3 miliardi, con un aumento ancora più marcato negli Stati sub-sahariani. Più della metà dell’incremento demografico da oggi al 2050 avverrà in nove Paesi: India, Nigeria, Pakistan, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, Tanzania, Indonesia, Egitto e Stati Uniti. Tra il 2010 e il 2020 14 Paesi del mondo hanno ricevuto più di un milione di migranti e altri 10 hanno ceduto ad altri oltre un milione di persone. Tra i Paesi destinati a ricevere in futuro un afflusso netto di migranti il Rapporto cita, nell’ordine, Bielorussia, Estonia, Germania, Ungheria, Italia, Giappone, Russia, Serbia e Ucraina. 

Sul tema dei cambiamenti climatici si moltiplicano i segnali di pericolo e di inadeguatezza delle risposte collettive. Il più recente è stato l’ulteriore anticipo dell’Earth Overshoot Day, il giorno  in cui il mondo ha consumato tutte le risorse prodotte dal Pianeta in quello stesso anno, fissato nel 2019 al 29 luglio (l’anno scorso era il 1° agosto, nel 2000 il giorno cadeva a metà settembre). Nel complesso, in un anno vengono mediamente consumate le risorse di 1,7 pianeti, ma se tutti consumassero come gli statunitensi ci vorrebbero 5 pianeti, 3 se il mondo avesse lo stile di vita dei tedeschi, 2,7 se il modello fosse l’Italia. 

Gli scienziati segnalano anche che i cambiamenti climatici stanno avvenendo più rapidamente di quanto immaginato. Il recente Rapporto “Cambiamento climatico e territorio”, presentato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) evidenzia le conseguenze drammatiche del cambiamento climatico su fame e migrazioni. Il riscaldamento globale provocherà la desertificazione di porzioni sempre maggiori di terra, soprattutto nelle regioni più povere, in particolare Africa, Medio Oriente, Asia e America latina. La conseguenza sarà un inevitabile aumento delle migrazioni, all’interno degli stessi Paesi e oltre le frontiere: i “migranti economici” saranno sempre più anche “migranti climatici”, con il potenziale esacerbarsi di conflitti e tensioni di carattere sociale, culturale e politico.

L’IPCC stima anche che, dall’età preindustriale, le attività umane abbiano causato approssimativamente 1 grado di riscaldamento globale, il quale è probabile che raggiunga 1,5°C fra il 2030 e il 2052, se continua ad aumentare al tasso corrente. Secondo l’IPCC, se oggi si cominciasse a ridurre drasticamente le emissioni e ad assorbire la CO2 presente nell’atmosfera, si potrebbe mantenere il riscaldamento entro 1,5 gradi (l'obiettivo più ambizioso dell'Accordo di Parigi), in quanto le emissioni del passato da sole non provocherebbero il superamento di questa soglia. Al contrario, in assenza di provvedimenti immediati e drastici, c’è il rischio che in appena 12 anni questo livello possa salire a 2°C, causando danni irreversibili all’ambiente e alla nostra salute, con gravi ripercussioni anche su povertà e disuguaglianze. Su questi punti si veda il Rapporto Macrotrends 2019-2020 di Harvard Business Review Italia, “Out of Balance: rottura e ricomposizione degli equilibri”.

Dunque, i prossimi dieci anni saranno cruciali nel determinare che tipo di mondo esisterà nei decenni a venire. “Se si agisce con decisione, innovazione e investimenti di qualità – conclude l’IPCC - si può evitare che avvenga il peggior cambiamento climatico che conosciamo, e si raggiungerebbero così anche gli SDGs. Se non lo faremo, andremo incontro a un mondo in cui sarà sempre più difficile prosperare per noi e le future generazioni”.

 

Ma si può cambiare strada?

Nel corso dell’High-level Political Forum (HLPF), la riunione annuale che fa il punto sulla realizzazione degli SDGs, è stato notato come il raggiungimento degli SDGs sia reso più impegnativo dal rallentamento dell’economia mondiale, che cresce a un ritmo inferiore di un punto percentuale a quello medio del quindicennio 2001–2015, quando il mondo era impegnato nei “Millennium Development Goals” (MDGs). E la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi anni. La conclusione dell’HLPF è chiara: nonostante la grande mobilitazione in atto in tutto il mondo, non si sta facendo abbastanza per mantenere gli impegni assunti nel 2015.

Peraltro, le evidenze qui ricordate mostrano le forti interrelazioni esistenti tra i diversi SDGs, alcuni dei quali sono sinergici tra loro, cioè il raggiungimento di un obiettivo richiede il raggiungimento di altri, alcuni altri sono indipendenti, ma altri ancora sono contraddittori, date le tecnologie attuali e il funzionamento dell’attuale modello di sviluppo. Lottare contro la disoccupazione, ad esempio, richiede più crescita economica, il che richiede più energia, il che vuol dire aumentare le emissioni di gas serra e accelerare il riscaldamento globale, e così via.

A questo punto, è legittimo domandarsi se sia possibile realizzare gli SDGs rispettando i limiti planetari. Il Rapporto Transformation is feasible. How to achieve the Sustainable Development Goals within Planetary Boundaries, realizzato dallo Stockholm Resilience Centre e dalla BI Norwegian Business School per il Club di Roma in occasione del suo cinquantesimo anniversario, analizza quattro scenari per l’attuazione dell’Agenda 2030, tracciando diversi scenari per l’evoluzione economica, sociale e ambientale rispetto al raggiungimento degli SDGs e allo stato dell’ecosistema terrestre fino al 2050.

Il primo scenario (Same) è quello del business as usual, che esplora un futuro in cui nel mondo vengono applicate le stesse politiche attuate negli ultimi decenni e le “variabili chiave” (economia, tecnologia, ecc.) evolvono al medesimo ritmo. In questo caso, sarebbe impossibile realizzare la maggior parte dei Goal dell’Agenda entro il 2030, ma anche entro il 2050. La buona notizia è che fame e povertà verrebbero sradicate entro il 2050, ma al prezzo di danni irreversibili arrecati all’ecosistema terrestre. La maggior parte delle persone sulla Terra, quindi, arriverebbe a trovarsi nel 2050 in una situazione comunque più precaria dell’attuale.

Il secondo scenario (Faster) analizza la situazione che si verificherebbe se i Governi e i sistemi economici accelerassero semplicemente il ritmo della crescita economica: il raggiungimento degli SDGs entro il 2050 migliorerebbe di poco rispetto al primo scenario, ma i limiti planetari verrebbero superati in misura ancora maggiore, con un sovra-sfruttamento delle risorse disponibili. Molte persone diventerebbero più ricche, ma le società sarebbero caratterizzate da disuguaglianze sempre più destabilizzanti.

Nel terzo scenario (Harder) si considera cosa accadrebbe se Governi e sistemi socio-economici si impegnassero di più per lo sviluppo sostenibile, rafforzando politiche e strategie per raggiungere gli SDGs più rapidamente, riducendo al contempo, la pressione sugli ecosistemi. Il limite di questo approccio è quello di agire sugli SDGs in maniera poco integrata, generando numerosi trade-off. Nel 2040 i limiti del Pianeta sarebbero comunque sottoposti a forti pressioni, con scarso progresso sugli SDGs dal 2030 al 2050. L’umanità continuerebbe a danneggiare i sistemi naturali, anche se in misura inferiore rispetto ai primi due scenari.

Nel quarto scenario (Smarter) i Governi sceglierebbero di implementare cinque grandi trasformazioni nell’economia e nella società: rapida crescita delle energie rinnovabili per dimezzare le emissioni di carbonio ogni dieci anni a partire dal 2020; investimenti nelle catene alimentari per generare un loro aumento di produttività pari all’1% l’anno; implementazione di nuovi modelli di sviluppo nei Paesi più poveri; riduzione delle disuguaglianze che garantisca che il 10% più ricco della popolazione non riceva più del 40% del reddito nazionale; investimenti nell’educazione per tutti, nell’uguaglianza di genere, nella salute e nelle politiche di pianificazione familiare, per stabilizzare la popolazione mondiale. L’attuazione sinergica di queste cinque trasformazioni potrebbe portare al raggiungimento della maggior parte degli SDGs, nel rispetto quasi integrale dei limiti del Pianeta.

 

Conclusioni

Ormai è chiaro a tutti che gli immensi problemi che il mondo sta fronteggiando e dovrà fronteggiare in futuro non si risolveranno con un approccio business as usual. L’hanno compreso gli scienziati, gli economisti e i sociologi, tanti leader politici, tanti business leader. Eppure, nelle politiche, nelle strategie aziendali, nelle opinioni pubbliche, nei comportamenti quotidiani non si nota ancora quel cambio radicale che la gravità della situazione imporrebbe (si veda, su questo punto, il saggio di Enrico Sassoon in questo volume). Eppure, ogni giorno di ritardo nel realizzare questo cambio radicale rende ancora più radicale e urgente la “sterzata” necessaria per evitare lo schianto, come ogni guidatore di automobile sa bene.

La cultura dominante non ha ancora compreso il concetto di “soglia”, oltre la quale le condizioni ambientali, sociali, economiche, e quindi istituzionali (i quattro pilastri dello sviluppo sostenibile), possono mutare in modo irreversibile, anche a causa delle “non linearità” che si generano quando i fenomeni interagiscono tra di loro, come ci insegnano gli studiosi dei limiti planetari.

Da questo punto di vista, l’Unione europea può essere considerata un modello sia in senso negativo che positivo. Negli ultimi cinque anni la Commissione Juncker, pur operando positivamente su tanti dossier, ha rifiutato di adottare una visione integrata dei problemi e delle soluzioni necessarie, restando ancorata alle “10 priorità” stabilite nel 2014, all’indomani delle elezioni per il Parlamento europeo. Il rifiuto cosciente e sistematico da parte della leadership politica della visione proposta dall’Agenda 2030, peraltro sottoscritta anche dalla Commissione europea, ha ritardato la presa di coscienza dei problemi e l’elaborazione di una nuova visione per l’Europa del futuro, nella convinzione che la crescita economica avrebbe risolto gran parte dei problemi.

L’impostazione adottata dalla nuova Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, almeno sul piano programmatico, rappresenta un cambio di direzione estremamente significativo e un vero e proprio “schiaffo” al suo predecessore. L’aver messo l’impegno a raggiungere gli SDGs al centro del mandato di ogni membro della Commissione, aver proposto di riorganizzare il Semestre europeo (cioè il processo di coordinamento delle politiche nazionali e europee) intorno all’Agenda 2030, il programma di rendere carbon neutral l’Unione europea entro il 2050 e fare del nostro continente il leader mondiale dell’economia circolare, introdurre una child guarantee per assicurare il futuro di tutti i bambini sono solo alcuni degli impegni assunti dalla nuova Presidente in un’ottica di sviluppo sostenibile.

Ferme restando le enormi difficoltà di realizzazione, non si può non notare il salto culturale che il programma della nuova Commissione rappresenta, un salto che denota una piena consapevolezza della drammaticità della situazione anche nella parte del mondo più avanzata in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Sono cambiamenti di questo tipo, cui devono seguire azioni concrete da parte delle leadership politiche, economiche e culturali, e l’entusiasmo dei ragazzi di tutto il mondo che chiedono questo tipo di radicalità a infondere ancora speranza a chi, rendendosi pienamente conto della realtà presente e dei rischi per il futuro, si impegna per portare il mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile. Purtroppo, come ci ricordano i ragazzi e gli scienziati, non c’è più tempo. È dunque il momento di agire subito, a tutti i livelli e in modo radicale, per il bene di questa generazione e di quelle che verranno.    

di Enrico Giovannini, portavoce dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile


Pubblicato nel novembre 2019 in “Progetto Macrotrends 2019-2020” di Harvard Business Review Italia.

lunedì 8 giugno 2020